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Missionari Oblati: annunciare il Vangelo con la mentalità digitale

Ad inizio mese si è svolto un convegno sui missionari digitali degli Oblati di Maria Immacolata della Provincia Mediterranea, una famiglia religiosa, fondata da Sant’Eugenio de Mazenod nel 1816, in quanto la predicazione delle missioni popolari è il primo ministero degli Oblati:

“L’evangelizzazione dei giovani è una delle nostre priorità e ci impegniamo a rispondere a bisogni e urgenze della Chiesa e dei poveri in vari altri campi. I poveri più poveri: carcerati, immigrati, tossicodipendenti, fin dall’inizio sono i nostri preferiti. Il ministero parrocchiale non ci è estraneo e ci permette di infondere lo spirito missionario alle comunità che serviamo. Promuoviamo progetti in tanti Paesi in via di sviluppo per l’educazione, la salute, la formazione dei giovani. Alcuni santuari mariani ci vedono impegnati ad accogliere i pellegrini per offrir loro l’esperienza della misericordia ‘materna’ di Dio. Siamo attenti alle culture e alle religioni dei popoli che incontriamo, con spirito di apertura e di dialogo”.

Una riflessione interessante è stata svolta dal superiore generale, p. Chicho Rois, che ha cercato di identificare i missionari digitali per definire il ministero degli Oblati, ricordando il carisma del fondatore, sant’ Eugenio de Mazenod: “State portando il Vangelo nel continente digitale e questo è il nostro carisma, annunciare il Vangelo ai più abbandonati, portare il Vangelo nei luoghi dove non è ancora stato annunciato o dove la Chiesa ci manda.

Vi vedo come il fondatore con i suoi primi compagni: volevano portare il Vangelo alla gente di Provenza parlando la loro lingua. E’ stato lo stesso quando i missionari sono stati inviati in terre nuove e sconosciute in America, Africa e Asia. Andavano in territori sconosciuti pronti ad annunciare il Vangelo ai più poveri parlando la loro lingua, stando vicino alla gente e servendola nella carità. E’ l’amore trasformato in zelo apostolico che li ha spinti, per amore di Gesù, a dare la vita in questi nuovi mondi”.

Quindi il digitale è un ‘mondo’ importante che attende l’annuncio del Vangelo, che ha bisogno di un linguaggio nuovo: “Come i primi missionari, dovete lasciarvi emozionare dall’amore che provate per Gesù e per gli uomini e le donne che incontrerete attraverso le reti per annunciare la Buona Novella. E bisogna farlo con questo nuovo linguaggio fatto di immagini, videoclip, fotografie, scritti, interviste”.

Questo è stato l’appello del superiore generale, in quanto il fondatore della congregazione insisteva sulla necessità di comunicare bene il Vangelo: “A tal proposito, il Fondatore ha insistito molto affinché i suoi missionari si preparassero ad annunciare bene il Vangelo. Li invitava a studiare molto, ad aggiornarsi e ad essere semplici e chiari nell’esprimersi per raggiungere il cuore di coloro che ascoltavano.

E voglio dirvi che anche voi dovete prepararvi bene per poter raggiungere i cuori delle persone che a volte hanno bisogno di messaggi chiari e diretti che diano loro motivi per nutrire la speranza. Vi prego di diffondere la buona notizia della nostra famiglia carismatica e di esplorare i sentieri missionari da percorrere per annunciare il Vangelo nel nuovo linguaggio e nella nuova mentalità digitale”.

Quindi annunciare il Vangelo attraverso i nuovi media significa essere ‘nodi di comunione’: “Quando i missionari Oblati si diffusero ai quattro angoli del mondo, il fondatore insistette affinché gli scrivessero delle lettere per mantenere unita la famiglia Oblata. Eugenio chiese ai suoi missionari di scrivere tutto ciò che accadeva nella missione per farlo conoscere a tutti… Potete fare molto perché cresciamo nella comunione, nella carità. Potete fare molto perché viviamo la carità tra di noi.

Potete fare molto per tenerci uniti nello stesso carisma. Potete anche fare molto per incoraggiare le iniziative che stiamo prendendo oggi, per esempio, per realizzare il Capitolo generale e altre. Potete fare molto per aiutarci a diventare sempre più una famiglia carismatica sinodale che cammina in una Chiesa sinodale con i poveri”.

Nella conclusione il superiore generale ha invocato lo Spirito Santo per l’annuncio del Vangelo a tutti: “Dopo avervi ascoltato in questo primo incontro, sento che lo Spirito Santo ci sta invitando ad essere coraggiosi, a fare di tutto per essere migliori missionari in questo mondo digitale. E’ lo Spirito Santo che ci spinge e ci illumina, quindi non abbiamo paura. Come sant’Eugenio e i suoi primi compagni, lasciamo che Dio ci guidi e ci mostri come annunciare il Vangelo di Gesù attraverso l’amore e la vicinanza, attraverso la testimonianza della vita”.

Infine ha invocato la Madonna per lasciarsi trasformare dallo Spirito Santo: “Possiamo chiedere a Maria di aiutarci e ispirarci: lei si è lasciata trasformare dallo Spirito e si è fidata di Dio dando la sua vita per ricevere e donare Gesù. Lei ci accompagna in questa avventura, è in pellegrinaggio con noi. Ha saputo essere la Madre della comunione nella Chiesa nei suoi primi momenti missionari”.

(Tratto da Aci Stampa)

Papa Francesco agli imprenditori: la povertà non è una colpa

“Le funzioni che siete chiamati a svolgere sono sempre più decisive nella vita non solo economica ma anche sociale e politica. Le grandi imprese sono soggetti che incidono sulle dinamiche dei rapporti internazionali. Vi trovate, dunque, a prendere decisioni che hanno impatto su migliaia e migliaia di lavoratori e di investitori, e sempre più su scala globale. Il potere economico si intreccia con quello politico. Le grandi imprese, infatti, oltre alle scelte del consumo, del risparmio e della produzione, condizionano anche le sorti dei governi, le politiche pubbliche nazionali e internazionali, la sostenibilità dello sviluppo. Questa realtà voi la vivete, perché ‘ci siete dentro’, è il vostro mondo”: dopo il discorso al G7 papa Francesco ha incontrato un gruppo di amministratori delegati di grandi imprese e banche, sottolineando il valore della cura.

Però occorre prendere coscienza della situazione, cogliendo le sfide poste ad iniziare dalla cura dell’ambiente: “Ma questo non basta: bisogna prenderne coscienza e guardarla criticamente, con discernimento, così da poter esercitare pienamente la responsabilità degli effetti, diretti e indiretti, delle vostre scelte. Perché oggi più che mai l’economia è più grande dell’economia..

Siamo in un tempo di grave crisi ambientale, che dipende da molti soggetti e da molti fattori, comprese anche le scelte economiche e imprenditoriali di ieri e di oggi. Non basta più rispettare le leggi degli Stati, che procedono troppo lentamente: occorre innovare anticipando il futuro, con scelte coraggiose e lungimiranti che possano essere imitate. L’innovazione dell’imprenditore oggi dev’essere in primo luogo innovazione nella cura della casa comune”.

La seconda preoccupazione del papa riguarda la cura dei poveri, consigliando l’economia circolare: “Mentre però ricicliamo le materie e gli scarti dei materiali, non abbiamo ancora imparato a ‘riciclare’ e non scartare le persone, i lavoratori, soprattutto i più fragili, per i quali vige spesso la cultura dello scarto. Siate diffidenti verso una certa “meritocrazia” che viene usata per legittimare l’esclusione dei poveri, giudicati demeritevoli, fino a considerare la povertà stessa come colpa”.

La proposta del papa non è filantropica, ma evangelica: “E non accontentatevi di un po’ di filantropia, è troppo poco: la sfida è includere i poveri nelle aziende, farli diventare risorse per un vantaggio comune. E’ possibile. Sogno un mondo in cui gli scartati possano diventare protagonisti del cambiamento; ma mi pare che questo lo abbia già realizzato un certo Gesù, non vi pare?”

Ma la sfida più importante per il papa riguarda i giovani e la denatalità: “I giovani sono spesso tra i poveri del nostro tempo: poveri di risorse, di opportunità e di futuro. E questo, paradossalmente, sia dove sono tantissimi, ma mancano i mezzi, sia dove sono sempre più pochi (come ad esempio in Italia, perché non c’è nascita qui) ed i mezzi ci sarebbero.

Non si apprende nessun lavoro senza l’ ‘ospitalità aziendale’, che significa accogliere generosamente i giovani anche quando non hanno l’esperienza e le competenze richieste, perché ogni lavoro si impara solo lavorando. Vi incoraggio a essere generosi, ad accogliere i giovani nelle vostre imprese, dando loro un anticipo di futuro per non far perdere la speranza a un’intera generazione”.

(Foto: Santa Sede)

Da Padova un messaggio per riscoprire il Vangelo come buona notizia

“Sant’Antonio aiuti ogni uomo e donna di buona volontà a riscoprire la Parola del Vangelo come buona notizia che apre al perdono, alla pace, all’ascolto e alla cura premurosa dei deboli e dei fragili”: lo scrivono mons. Claudio Cipolla, vescovo di Padova, e fra’ Antonio Ramina, rettore della Basilica del Santo, a conclusione di un messaggio congiunto in occasione della festa di sant’Antonio che ricorre giovedì 13 giugno.

Nel documento congiunto si chiede al santo portoghese il senso della responsabilità: “A sant’Antonio, fratelli e sorelle, desideriamo quest’anno rivolgerci lasciandoci ispirare in modo particolare dal senso di responsabilità con il quale, appassionatamente, questo nostro amico si è sempre mobilitato contro le ingiustizie, contro ogni forma di violenza, contro le divisioni, in difesa dei poveri e di tutti coloro che, nella loro solitudine, hanno bisogno di aiuto”.

Ma la responsabilità si alimenta attraverso il perdono: “Certo: rispetto al coraggio e alla determinazione del nostro caro sant’Antonio ci sentiamo tutti inadempienti, ben lontani dall’audacia che egli ha sempre manifestato nel prendere posizione a favore degli indifesi. E forse la prima cosa che dovremmo fare è proprio questa: chiedere perdono se troppe volte il nostro cuore dorme nell’indifferenza, le nostre mani si chiudono nell’egoismo, la nostra generosità si lascia inaridire da interessi di parte o di comodo. Questo ci accomuna tutti: il nostro bisogno di perdono!”

Ed il perdono non può essere disgiunto dalla pace: “Anche in questo sant’Antonio ci viene certamente in aiuto. Mai ha sbarrato la porta a chi, rendendosi conto delle proprie chiusure ostinate e dei propri peccati, ha scelto di rimettersi in cammino nella novità di vita, sullo stile gioioso del Vangelo. A tutti Antonio ha indicato una via per ripartire con fiducia; ricordandoci, a tal proposito, che lo scoraggiamento è forse il pericolo più insidioso che occorre scacciare con prontezza…

Sarebbe bello poter chiedere al Signore, ponendolo nelle mani di sant’Antonio, un dono diverso rispetto a quello degli anni scorsi. Con insistenza e con il cuore accorato abbiamo infatti più volte pregato per la pace, ma ci ritroviamo a dover fare nostro il grido di Geremia (cfr. 6,14): ‘Pace, pace, ma pace non c’è’. I conflitti sulla faccia della terra, anziché ridimensionarsi o trovare una via di uscita, sembrano moltiplicarsi e accendersi di sempre più preoccupante violenza”.

La lettera congiunta è un invito a pregare per la pace con l’impegno di ristabilirla nei nostri ambienti di vita quotidiana: “La preghiera ci potrà sembrare inutile, ma vogliamo ancora una volta domandare questo dono al Signore, affidandoci alla mediazione di Antonio di Padova. Chiedere la pace significa non rimanere estranei ai drammi del mondo. E soprattutto ci aiuta a sentirci impegnati a divenire noi, nella realtà in cui viviamo, persone che amano la pace e s’impegnano a edificarla.

Un rapporto ristabilito in famiglia, un gesto di perdono accordato a una persona amica con cui abbiamo litigato, un segno di generosità che riallaccia la relazione con un collega, tante altre decisioni di questo tipo depositano nel cuore del mondo semi di pace che avranno frutto, forse a nostra insaputa. La preghiera ci aiuti a fare questo: a rimanere desti, per far sviluppare nelle nostre esistenze umili e ordinarie, personali e comunitarie, l’energia buona della pace”.

Quindi è un invito a riscoprire la capacità di pensiero: “Una risorsa che siamo chiamati nuovamente a desiderare con nostalgia è proprio questa: la profondità! Ci serve l’ardire di fermarci, per metterci in ascolto della realtà che ci circonda, dei fratelli e delle sorelle, dei fatti che accadono. Il Sinodo diocesano ci ha aiutato in questo, ma guai a noi se lo consideriamo una tappa definitivamente conclusa. Occorre mantenersi in cammino e ricordarci che non è ciò che strilla di più a essere più ‘vero’, non è ciò che ha maggiore visibilità o diffusione a essere più importante”.

Ed hanno indicato tre ‘strategie’ per aiutare a riscoprire l’innamoramento della vita, di cui la prima è la gratitudine, che aiuta a sconfiggere la solitudine: “Essere grati non significa, semplicemente, essere persone ben educate. La gratitudine è il modo di abitare la vita di chi sa cogliere molto bene d’aver ricevuto tutto in dono, di chi riconosce nella distensione del tempo tanti segni di fecondità che meritano di essere accolti e resi generativi a favore di altri. Tutti, proprio tutti, abbiamo la possibilità di riconoscerci destinatari di doni da condividere”.

Un’altra strategia necessaria è quella della pazienza: “E’ l’intelligentissima disposizione che siamo invitati a coltivare, per resistere. La pazienza non è la grigia accettazione di ciò che ci dà fastidio o ci fa soffrire, aspettando con ansia che passi, il più in fretta possibile. E’ piuttosto la scelta libera e creativa di resistere al male, costi quel che costi, anche se apparentemente ci sembra di andare controcorrente”.

Ed infine l’umiltà: “Umiltà è lo stile realistico di chi sa domandarsi che cosa conta davvero, che cosa rimane davvero. Sa cercare che cosa merita, davvero il nostro impegno. E forse qui ci ritroveremo tutti d’accordo: ci renderemo conto che solo la qualità buona, forte e concreta delle nostre relazioni merita la nostra dedizione più grande”.

Oratori: mons. Gervasi al COR chiede di annunciare il Vangelo ai bambini

Un forte invito a non lasciar perdere, a seguire l’esempio del fondatore, il Venerabile Arnaldo Canepa, ha espresso mons. Dario Gervasi, Vescovo ausiliare di Roma per il settore sud e delegato per l’ambito della cura delle età e della vita presiedendo la solenne celebrazione eucaristica a Santa Maria Odigitria al Tritone. L’appuntamento, organizzato dal Centro Oratori Romani per fare memoria della conversione del suo fondatore, ha visto soci e amici dell’associazione pregare insieme nella piccola chiesa legata alla storia di Canepa e al suo servizio fra i bambini e i ragazzi.

“E’ sempre molto importante tornare sui luoghi dove si è sentito che Dio parla”, ha esordito don Dario commentando il brano evangelico del giovane ricco. “Questa piccola chiesa, che oggi è sommersa dalla città prettamente turistica, ha visto il momento centrale della vita di Canepa, quando tutto quello che sarebbe stato il futuro della sua opera, il COR, è stata a lui donato, una sorta di radice di tutta l’associazione. Sono convinto che sia stato il suo rapporto personale con Dio a dargli la forza per rispondere alla chiamata, una vera irruzione dell’amore soprannaturale nella nostra piccolezza umana.

E’ un dono immenso che sicuramente ha vissuto anche Canepa perché la Madonna lo ha guardato con la stessa intensità con cui Gesù guarda il giovane ricco. Arnaldo, a differenza di quest’ultimo, ha risposto positivamente a questa chiamata. Nel tempo ha donato tutta la sua vita e le sue ricchezze per i ragazzi e per l’oratorio. Ha dedicato tutta la sua vita al servizio, alla sequela di Cristo ma certamente il suo segreto era questo rapporto speciale con il Signore. Una relazione che lo ha spinto a diventare quel seme che si è moltiplicato in migliaia e migliaia di giovani”. 

Invitando i presenti a fare personalmente memoria della propria conversione, don Gervasi ha chiarito come “ritornare, alla conversione, ricordare che siamo stati mandati dal Padre con lo Spirito che ci guida, è fondamentale perché le nostre forze prima o poi si esauriscono. Quelle di Dio no! E’ importante chiedere al Signore una costante conversione: Dio ci conduce sempre avanti, ci aiuta ad affrontare quelle difficoltà dell’oggi e a Lui dobbiamo chiedere la forza di annunciare il Vangelo”.

Il Vescovo Gervasi ha anche sottolineato la geniale intuizione di Canepa per aver compreso come avviare l’oratorio in un periodo storico disastroso. “Lui stesso veniva da una vita borghese in un tempo complesso anche per la vita della Chiesa e della nostra città di Roma”, ha proseguito nel corso dell’omelia, “ma ha avuto questa forza intensa che si spiega solo per il forte rapporto personale con Cristo. La situazione di oggi è anch’essa drammatica perché i giovani vivono uno sbandamento generale enorme.

Chi gira di notte in questa nostra città conosce l’emergenza di giovani ed adolescenti, spesso preda di chi li spinge a buttarsi via. Ci vuole proprio il cuore di Canepa perché aiuti noi tutti a capire cosa si possa fare. Sono convinto che ogni ragazzo che riusciamo ad attirare all’oratorio, in qualche modo viene aiutato ad uscire da queste situazioni. Dovremmo capire come fare per avvicinare anche tutti loro.  I giovani sono terreno fertile: se riuscissimo ad entrare nel loro cuore come faceva Arnaldo sicuramente potremmo portare avanti questa opera. Dobbiamo andare avanti, non perdere la fiducia e pensare che ogni ragazzo che si pone al servizio dei piccoli è una benedizione.

Adesso vedremo la partenza degli oratori estivi, che a Roma stanno vivendo un certo risveglio, ma dobbiamo andare avanti anche per quello feriale e credere che possiamo veramente incidere nella vita di questi ragazzi toccando il loro cuore, specie se il nostro rimane sempre aperto. Penso alla potenzialità del COR: dobbiamo capire insieme come fare perché i nostri oratori continuino ad essere un luogo sano per i nostri ragazzi”.

“Il Signore ci ha chiesto, a ciascuno personalmente e insieme come comunità del COR, di servirlo nella speciale vocazione all’oratorio mettendoci a disposizione della Chiesa di Roma e delle giovani generazioni” ha sottolineato da parte sua la Vicepresidente del COR, Micaela Castro, salutando il Vescovo all’inizio della celebrazione. “In ogni bambino che incontriamo riconosciamo il volto di Colui che ci ha chiamato e intendiamo accompagnarli verso un incontro personale con l’intera Trinità che abbiamo appena celebrato liturgicamente. Lo facciamo come catechisti e animatori, ma anche attraverso il servizio nei territori di questa grande e complessa città accompagnando sacerdoti e laici nella formazione e nella progettazione degli oratori”.

(Foto: COR)

Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali, un colloquio con don Cosimo Schena

“L’evoluzione dei sistemi della cosiddetta ‘intelligenza artificiale’, sulla quale ho già riflettuto nel recente Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, sta modificando in modo radicale anche l’informazione e la comunicazione e, attraverso di esse, alcune basi della convivenza civile. Si tratta di un cambiamento che coinvolge tutti, non solo i professionisti. L’accelerata diffusione di meravigliose invenzioni, il cui funzionamento e le cui potenzialità sono indecifrabili per la maggior parte di noi, suscita uno stupore che oscilla tra entusiasmo e disorientamento e ci pone inevitabilmente davanti a domande di fondo: cosa è dunque l’uomo, qual è la sua specificità e quale sarà il futuro di questa nostra specie chiamata homo sapiens nell’era delle intelligenze artificiali? Come possiamo rimanere pienamente umani e orientare verso il bene il cambiamento culturale in atto?”

Quest’anno, in occasione della 58^ Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali, in programma domenica 12 maggio, papa Francesco ha scritto il messaggio ‘Intelligenza artificiale e sapienza del cuore: per una comunicazione pienamente umana’ con l’invito a riflettere sul rapporto tra intelligenza artificiale e cuore con una citazione iniziale del filosofo cattolico Romano Guardini:

“Solo dotandoci di uno sguardo spirituale, solo recuperando una sapienza del cuore, possiamo leggere e interpretare la novità del nostro tempo e riscoprire la via per una comunicazione pienamente umana. Il cuore, inteso biblicamente come sede della libertà e delle decisioni più importanti della vita, è simbolo di integrità, di unità, ma evoca anche gli affetti, i desideri, i sogni, ed è soprattutto luogo interiore dell’incontro con Dio. La sapienza del cuore è perciò quella virtù che ci permette di tessere insieme il tutto e le parti, le decisioni e le loro conseguenze, le altezze e le fragilità, il passato e il futuro, l’io e il noi”.

Per comprendere meglio il messaggio papale abbiamo chiesto a don Cosimo Schena, parroco nella parrocchia ‘San Francesco d’Assisi’ a Brindisi, con 180.000 follower su instagram, però anche attivo su facebook, youtube e spotify con lo scopo di raggiungere le persone, soprattutto i giovani, che si trovano lontane dalla Chiesa e dal Vangelo, e di offrire loro un messaggio di speranza e di vicinanza, condividendo le sue poesie, accompagnate da musiche e immagini, che raccontano la bellezza dell’amore di Dio e della vita.

Allora per tale occasione chiediamo di spiegarci quale rapporto ci può essere tra intelligenza artificiale e la sapienza del cuore: “L’interazione tra intelligenza artificiale e la profondità emotiva dell’essere umano è affascinante. Consideriamo l’Intelligenza Artificiale come un alleato potenziale nel nostro percorso verso il bene comune.

Se guidata dalla saggezza intrinseca del cuore umano, l’Intelligenza Artificiale può diventare uno strumento per manifestare la compassione e l’empatia. Tuttavia, va ricordato che l’Intelligenza Artificiale non può replicare la complessità delle emozioni umane, ma può aiutarci a comprendere meglio noi stessi e gli altri”.

L’intelligenza artificiale permette di crescere in umanità?

“L’Intelligenza Artificiale offre promettenti opportunità per il progresso umano. Se utilizzata con discernimento e orientata verso valori etici e morali, può migliorare la nostra qualità di vita, rendendo l’apprendimento più accessibile e promuovendo una maggiore comprensione tra le persone. Tuttavia, è fondamentale che l’umanità mantenga il controllo su come l’Intelligenza Artificiale viene sviluppata e utilizzata, assicurandosi che gli aspetti umani e spirituali siano sempre al centro di ogni innovazione”.

E’ vero che la rivoluzione digitale rende più liberi?

“La rivoluzione digitale ci offre un universo di possibilità, consentendoci di accedere a un’enorme quantità di informazioni e di comunicare in modi che erano impensabili solo pochi decenni fa. Questo potenziale di liberazione è straordinario, ma richiede anche una profonda riflessione sul modo in cui utilizziamo queste tecnologie. La vera libertà non è solo l’accesso illimitato, ma anche la capacità di fare scelte consapevoli e responsabili, orientate al bene comune e al rispetto degli altri”.

‘Credo che la Chiesa abbia bisogno di esplorare nuove strade per essere più inclusiva e accogliente nei confronti di coloro che hanno bisogno di riscoprire o trovare la fede. Così questo libro è per me un nuovo tentativo di costruire un ponte di speranza, di portare Dio nella vita di tutti’: così scrive nel libro ‘Dio è il mio coach. Consigli evangelici su misura per te’ con la prefazione di mons. Lucio Adrián Ruiz, segretario del Dicastero per la Comunicazione, in cui interagisce con i giovani attraverso consigli evangelici pratici per superare le difficoltà e ricominciare ad apprezzare il presente, con le sue sfide ma anche con i momenti felici che spesso diamo per scontati. Per quale motivo Dio è un coach?

“La visione di Dio come un coach spirituale è affascinante e toccante. Immaginare Dio come colui che ci guida con amore e saggezza attraverso le sfide della vita, incoraggiandoci a realizzare il nostro pieno potenziale e ad abbracciare i valori spirituali, ci offre conforto e ispirazione. Questa prospettiva ci invita a vedere ogni esperienza come un’opportunità di crescita e di avvicinamento a Dio”.

Quali strade deve esplorare la Chiesa per comunicare il Vangelo?

“La Chiesa si trova di fronte a nuove sfide e opportunità nella comunicazione del Vangelo nell’era digitale. Esplorare piattaforme come i social media, le app e le piattaforme digitali può essere un modo efficace per raggiungere un pubblico più ampio e diversificato. Tuttavia, è essenziale che la Chiesa mantenga la sua autenticità e fedeltà al messaggio evangelico, adattando le sue modalità di comunicazione senza compromettere la sua identità e la sua missione spirituale”.

Come comunicare il messaggio evangelico attraverso la rete?

“Per comunicare il messaggio evangelico in modo efficace online, dobbiamo essere presenti nei luoghi virtuali dove le persone si riuniscono. Utilizzare un linguaggio chiaro e accessibile è importante, così come condividere storie ed esperienze che risuonino con le sfide e le gioie della vita quotidiana delle persone. In questo modo, possiamo trasmettere il messaggio evangelico in modo autentico e significativo, offrendo speranza e ispirazione a coloro che incontriamo online”.

Allora, è possibile coniugare la fede con il mondo digitale?

“Coniugare religione e digitale significa poter vivere la propria fede anche online e nei modi più diversi in un connubio che fa da propulsore per una maggiore partecipazione ed in un impegno profuso all’interno della comunità, che, in tal modo, si estende ben oltre i limiti fisici. Ho compreso che i nuovi media sono strumenti efficaci per diffondere la Parola di Dio, soprattutto in un momento storico che spinge fortemente verso l’individualismo e dove emerge sempre di più la drammaticità della solitudine, il bisogno di amare ed essere amati, ascoltare ed essere ascoltati.

Non dobbiamo dimenticare che noi siamo stati creati dall’amore, di conseguenza non possiamo non amare. L’arte dell’ascolto crea ponti solidi ed invita a considerare e a rispettare ogni essere umano per la sua unicità e la preziosa testimonianza del vissuto di cui ciascuno è portatore”.

(Tratto da Aci Stampa)

Milano e gli oratori, una storia che racconta anche la città oggi

Nello scorso febbraio all’Ambrosianeum di Milano è stato presentato ‘Il posto degli oratori – Una mappa delle proposte educative e ricreative per gli adolescenti di Milano’, uno studio qualitativo e quantitativo che offre una panoramica sulle proposte educative e ricreative offerte dai 146 oratori presenti nei 12 decanati in cui è suddivisa la città, realizzato tra maggio 2022 e gennaio 2023, anche attraverso la somministrazione di questionari online, da docenti e ricercatori dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca e del Politecnico.

Introducendo la ricerca la prof.ssa Rosangela Lodigiani, docente di sociologia dei processi economici e del lavoro, e la dott.ssa Veronica Riniolo, ricercatrice di sociologia, entrambe all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, hanno sottolineato la necessità della sfida educativa, divenuta urgenza dopo il Covid: “La sfida educativa, infatti, è divenuta ancora più centrale con la pandemia  Covid-19, quando perfino il diritto di accesso alle proposte educative è vacillato ed il benessere psico-fisico degli adolescenti ha subito un forte contraccolpo…

Inoltre, le fasi di lockdown e la spinta alla remotizzazione dell’insegnamento hanno fatto risaltare ancor di più le disuguaglianze sociali, riflesse nella mancanza di dispositivi elettronici, dell’accesso ad Internet e delle condizioni minime per poter fruire della didattica a distanza, che hanno riguardato soprattutto gli adolescenti, provenienti da famiglie svantaggiate da un punto di vista socio-economico, spesso appartenenti alle minoranze etniche”.

Dallo studio emerge la distribuzione fitta e capillare degli oratori all’interno del comune di Milano, capace di offrire un servizio di prossimità, accessibile a piedi in 5-10 minuti in ogni quartiere. Inoltre una parte importante dello studio ha cercato di delineare l’identikit di chi frequenta l’oratorio e di individuare le motivazioni di tale scelta.

Accanto ai bambini e ai preadolescenti coinvolti nell’iniziazione cristiana (destinatari della pastorale giovanile ‘classica’) si osserva che, con l’aumentare dell’età, la presenza in oratorio diventa una presenza ‘ingaggiata’, ovvero impegnata a frequentare in modo attivo le proposte. Meno presenti dei bambini in termini numerici, i più grandi hanno una presenza più attiva:

“L’indagine fa emergere una apertura all’accoglienza e all’integrazione che nei fatti si realizza negli spazi aperti e nelle attività informali dell’oratorio, nelle attività educative e ricreative più strutturate e persino, anche se più raramente, nei percorsi di educazione alla fede, con soluzioni di inclusione anche molto diversificate tra loro. Soluzioni che riflettono la capacità ma anche la creatività di alcuni responsabili di oratorio, coadiutori, laici impegnati come catechisti o educatori, nel rendere inclusive le proposte”.

Una seconda parte della ricerca è dedicata ad esplorare i segni lasciati dalla pandemia anche nei preadolescenti e adolescenti che frequentano l’oratorio e le conseguenze sulla proposta educativa: si osserva che l’emergenza sanitaria ha spinto a sviluppare nuovi linguaggi, consentendo di innovare non tanto i contenuti ma il metodo delle proposte educative e ricreative instaurando rapporti più diretti con gli educatori, gli animatori e i volontari: è risultato così più facile entrare in contatto con le fragilità nascoste o meno visibili.

Per quale motivo una ricerca sugli oratori a Milano o, meglio, una mappatura territoriale?

“Nel 2021 c’è stata profonda ridefinizione dei confini dei decanati cittadini. Ridotti da 21 a 12 sono divenuti territori molto vasti di cui è importante conoscere le caratteristiche. Gli oratori sono ‘sentinelle’ e ‘sensori’ dei territori e delle comunità che li abitano, operano al fianco e talvolta in sinergia con altre realtà educative. La ricerca ha mappato le proposte educative e ricreative rivolte a adolescenti tra gli 11 e i 19 anni, studiando le principali caratteristiche socio-demografiche e urbanistiche i contesti in esse cui si situano e considerando, insieme agli oratori, le proposte provenienti anche da altri soggetti impegnati sul fronte educativo, del pubblico (centri di aggregazione giovanile, centri di aggregazione multifunzionali, biblioteche), e del privato profit (scuole di teatro, piscine e palestre) e non profit (associazioni e cooperative sociali)”.

In questo scenario gli oratori che ‘posto’ occupano? Come riescono a esprimere la loro unicità, ad annunciare il Vangelo?

“La mappatura ha evidenziato che gli oratori sono diffusi in modo capillare ed esteso su tutto il territorio di Milano rappresentando, in alcune aree, gli unici spazi aggregativi per i più giovani, rivelandosi preziosi specie per quanti hanno minore capitale culturale ed economico e vivono in contesti più svantaggiati. Da qualunque punto della città ci si metta in cammino, in massimo 10 minuti a piedi si può raggiungere un oratorio.

La prossimità che offrono gli oratori non è solo spaziale: l’oratorio assicura un luogo di accoglienza a ‘bassa soglia’, con accesso libero e gratuito, con tempi e spazi di incontro sia organizzati sia informali, con proposte strutturate e occasioni spontanee di condivisione, aperte a tutti ma non per questo aspecifiche. E’ anche tramite questa apertura che nella concretezza dei gesti quotidiani si testimonia e trasmette la fedeltà al Vangelo.

La tensione tra dentro e fuori, vicini e lontani resta però una costante che chiede di sperimentare linguaggi e forme nuove tanto per attrarre quanto per uscire. La pandemia è stata da questo punto di vista l’occasione per avviare cammini di condivisione per sottrarsi al ripiegamento autoreferenziale; cammini di apertura per lasciarsi provocare; cammini di comunità, convivialità, condivisione, co-protagonismo: quelle che la ricerca chiama le ‘4 C’ dell’oratorio”.

Come si caratterizza l’offerta educativa e ricreativa degli oratori?

“L’offerta degli oratori integra finalità diverse: di evangelizzazione e formazione cristiana, educative e formative, ricreative e di socializzazione, e lo fa attraverso un’ampia varietà di proposte: dall’oratorio estivo ai percorsi di formazione cristiana, dal gioco libero alle attività ricreative strutturate, a partire da quelle sportive, le più diffuse, dai ritiri alle esperienze di vita in comune, ai campi estivi e alle vacanze formative.

Con un mix modulato in funzione delle diverse fasce d’età e delle relative esigenze di accompagnamento, educazione personale e spirituale. Dal canto loro, ragazzi e ragazze esprimono chiaramente il bisogno di essere di confrontarsi su temi decisivi per la propria vita, con adulti significativi, ma anche di essere maggiormente protagonisti, di sperimentare spazi di autonomia, di ‘poter contare’ anche nella costruzione delle proposte a loro rivolte”.

Come si caratterizza la popolazione di giovani che frequenta gli oratori?

“Gli oratori accolgono con un universo giovanile plurale e frastagliato in cui si intrecciano appartenenze culturali, etniche e perfino religiose diverse (la presenza di giovani con background migratorio è ormai strutturale), ma anche differenze di genere e di età, differenti capacità e bisogni speciali, differenti desideri di protagonismo e di accompagnamento, nella fede, nella crescita personale. Di conseguenza all’oratorio spetta oggi più che mai di trovare la via per valorizzare questa pluralità, rafforzando le competenze educative per saper promuovere percorsi di integrazione e inclusione, di fatto rappresentando un laboratorio di cittadinanza plurale”.

(Tratto da Aci Stampa)

Giornata per le Vocazioni: chiamati a seminare speranza

“La Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni ci invita, ogni anno, a considerare il dono prezioso della chiamata che il Signore rivolge a ciascuno di noi, suo popolo fedele in cammino, perché possiamo prendere parte al suo progetto d’amore e incarnare la bellezza del Vangelo nei diversi stati di vita. Ascoltare la chiamata divina, lungi dall’essere un dovere imposto dall’esterno, magari in nome di un’ideale religioso; è invece il modo più sicuro che abbiamo di alimentare il desiderio di felicità che ci portiamo dentro: la nostra vita si realizza e si compie quando scopriamo chi siamo, quali sono le nostre qualità, in quale campo possiamo metterle a frutto, quale strada possiamo percorrere per diventare segno e strumento di amore, di accoglienza, di bellezza e di pace, nei contesti in cui viviamo”.

Domenica 21 Il 21 aprile si celebra la 61^ Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni sul tema ‘Chiamati a seminare la speranza e a costruire la pace’, come ha scritto nel messaggio papa Francesco, indicandola come ‘bella occasione’: “Penso alle mamme e ai papà che non guardano anzitutto a sé stessi e non seguono la corrente di uno stile superficiale, ma impostano la loro esistenza sulla cura delle relazioni, con amore e gratuità, aprendosi al dono della vita e ponendosi al servizio dei figli e della loro crescita.

Penso a quanti svolgono con dedizione e spirito di collaborazione il proprio lavoro; a coloro che si impegnano, in diversi campi e modi, per costruire un mondo più giusto, un’economia più solidale, una politica più equa, una società più umana: a tutti gli uomini e le donne di buona volontà che si spendono per il bene comune.

Penso alle persone consacrate, che offrono la propria esistenza al Signore nel silenzio della preghiera come nell’azione apostolica, talvolta in luoghi di frontiera e senza risparmiare energie, portando avanti con creatività il loro carisma e mettendolo a disposizione di coloro che incontrano. E penso a coloro che hanno accolto la chiamata al sacerdozio ordinato e si dedicano all’annuncio del Vangelo e spezzano la propria vita, insieme al Pane eucaristico, per i fratelli, seminando speranza e mostrando a tutti la bellezza del Regno di Dio”.

Il pensiero del papa si rivolge anche ai giovani: “Ai giovani, specialmente a quanti si sentono lontani o nutrono diffidenza verso la Chiesa, vorrei dire: lasciatevi affascinare da Gesù, rivolgetegli le vostre domande importanti, attraverso le pagine del Vangelo, lasciatevi inquietare dalla sua presenza che sempre ci mette beneficamente in crisi. Egli rispetta più di ogni altro la nostra libertà, non si impone ma si propone: lasciategli spazio e troverete la vostra felicità nel seguirlo e, se ve lo chiederà, nel donarvi completamente a Lui”.

Tale Giornata di preghiera è fondamentale per riconoscere la propria vocazione nella Chiesa: “La polifonia dei carismi e delle vocazioni, che la Comunità cristiana riconosce e accompagna, ci aiuta a comprendere pienamente la nostra identità di cristiani: come popolo di Dio in cammino per le strade del mondo, animati dallo Spirito Santo e inseriti come pietre vive nel Corpo di Cristo, ciascuno di noi si scopre membro di una grande famiglia, figlio del Padre e fratello e sorella dei suoi simili. Non siamo isole chiuse in sé stesse, ma siamo parti del tutto. Perciò, la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni porta impresso il timbro della sinodalità: molti sono i carismi e siamo chiamati ad ascoltarci reciprocamente e a camminare insieme per scoprirli e per discernere a che cosa lo Spirito ci chiama per il bene di tutti”.

Una vocazione che pone in cammino: “Il senso del pellegrinaggio cristiano è proprio questo: siamo posti in cammino alla scoperta dell’amore di Dio e, nello stesso tempo, alla scoperta di noi stessi, attraverso un viaggio interiore ma sempre stimolato dalla molteplicità delle relazioni. Dunque, pellegrini perché chiamati: chiamati ad amare Dio e ad amarci gli uni gli altri.

Così, il nostro camminare su questa terra non si risolve mai in un affaticarsi senza scopo o in un vagare senza meta; al contrario, ogni giorno, rispondendo alla nostra chiamata, cerchiamo di fare i passi possibili verso un mondo nuovo, dove si viva in pace, nella giustizia e nell’amore. Siamo pellegrini di speranza perché tendiamo verso un futuro migliore e ci impegniamo a costruirlo lungo il cammino”.

Una vocazione che chiama ad essere ‘pellegrini di speranza’: “Essere pellegrini di speranza e costruttori di pace, allora, significa fondare la propria esistenza sulla roccia della risurrezione di Cristo, sapendo che ogni nostro impegno, nella vocazione che abbiamo abbracciato e che portiamo avanti, non cade nel vuoto. Nonostante fallimenti e battute d’arresto, il bene che seminiamo cresce in modo silenzioso e niente può separarci dalla meta ultima: l’incontro con Cristo e la gioia di vivere nella fraternità tra di noi per l’eternità.

Questa chiamata finale dobbiamo anticiparla ogni giorno: la relazione d’amore con Dio e con i fratelli e le sorelle inizia fin d’ora a realizzare il sogno di Dio, il sogno dell’unità, della pace e della fraternità. Nessuno si senta escluso da questa chiamata! Ciascuno di noi, nel suo piccolo, nel suo stato di vita può essere, con l’aiuto dello Spirito Santo, seminatore di speranza e di pace”.

Quindi il messaggio del papa è un invito ad uscire dall’indifferenza nell’esempio di don Oreste Benzi: “Svegliamoci dal sonno, usciamo dall’indifferenza, apriamo le sbarre della prigione in cui a volte ci siamo rinchiusi, perché ciascuno di noi possa scoprire la propria vocazione nella Chiesa e nel mondo e diventare pellegrino di speranza e artefice di pace!

Appassioniamoci alla vita e impegniamoci nella cura amorevole di coloro che ci stanno accanto e dell’ambiente che abitiamo. Ve lo ripeto: abbiate il coraggio di mettervi in gioco! Don Oreste Benzi, un infaticabile apostolo della carità, sempre dalla parte degli ultimi e degli indifesi, ripeteva che nessuno è così povero da non aver qualcosa da dare, e nessuno è così ricco da non aver bisogno di ricevere qualcosa”.

Il martirio di Don Giuseppe Diana, una storia da non dimenticare

“Desidero, dunque, rivolgere un pensiero paterno all’intera Comunità diocesana e specialmente ai fedeli della Parrocchia di Casal di Principe che, nel fare memoria di don Peppe, come affettuosamente veniva chiamato, vuole vivere la sua stessa speranza di camminare insieme incarnando la profezia cristiana, che ci invita a costruire un mondo libero dal giogo del male e da ogni tipo di prepotenza malavitosa. La mia riconoscenza va anche a coloro che continuano l’opera pastorale che don Diana ha avviato come assistente spirituale di associazioni e di gruppi di fedeli, in particolare di giovani e di realtà legate agli scout”: con queste parole papa Francesco ha ricordato il trentesimo anniversario di don Giuseppe Diana, richiamando l’omelia del sacerdote pronunciata nel Natale del 1991, ‘Per amore del mio popolo’.

Parole che richiamano altre parole: ‘Il 19 marzo è morto un prete, ma è nato un popolo’, quelle di  mons. Antonio Riboldi, vescovo di Acerra, nei funerali di don Peppe Diana, assassinato dalla criminalità organizzata nel 1994. Infatti quel giorno nacque un popolo che si identifica nella lotta alla criminalità organizzata, alle ingiustizie, alle disparità, in nome di quel sacerdote che non aveva avuto paura di fronteggiare i ‘cattivi’, come ha detto il coordinatore del Comitato ‘Don Peppe Diana’, Salvatore Cuoci.

Don Giuseppe Diana nasce a Casal di Principe il 4 luglio del 1958. Il papà, Gennaro e la mamma Iolanda di Tella, vivono lavorando la terra. Giuseppe è il primo di tre figli. Gli altri due sono Emilio e Marisa. Giuseppe entra nel seminario vescovile di Aversa nell’ottobre del 1968, appena compiuto i dieci anni di età,  dove consegue la licenza media e quella classica liceale. La famiglia faceva enormi sacrifici per farlo studiare. Il padre doveva pagare una retta. Ma ai genitori interessava innanzitutto toglierlo dalla strada. Casal di Principe era un paese difficile.  Tornava a casa solo a Pasqua e a Natale.

Conseguì la licenza liceale con ottimi voti. Tanto che vinse anche una borsa di studio. Il Vescovo dell’epoca, mons. Antonio Cece, diceva che Giuseppe non era un prete come gli altri e  che doveva fare carriera, doveva andare a Roma. Fu ordinato sacerdote il 14 marzo del 1982. Don Diana, da giovane prete, aveva un rapporto speciale con i ragazzi.

Anche perché nel frattempo era diventato uno scout. Era il responsabile diocesano dell’Agesci, gli scout cattolici, ed era anche cappellano dell’Unitalsi. Accompagnava i malati nei viaggi a Lourdes, perché era anche assistente nazionale del settore Foulard Blanc. Il 19 settembre del 1989 è nominato parroco della parrocchia di San Nicola a Casal di Principe.

Don Giuseppe Diana fu ucciso dalla camorra a Casal di Principe il 19 marzo del 1994, poco dopo le ore 7,20 del mattino, nel giorno del suo onomastico nella sua chiesa della parrocchia di San Nicola di Bari. Gli spararono contro quattro colpi di pistola mentre si preparava per celebrare la messa. Per l’uccisione di don Giuseppe Diana, il 4 marzo 2004, la Corte di Cassazione ha condannato all’ergastolo Mario Santoro e Francesco Piacenti quali coautori dell’omicidio, mentre ha riconosciuto come autore materiale dell’omicidio il boss Giuseppe Quadrano condannandolo a 14 anni, perché collaboratore di Giustizia.  Decisiva la testimonianza di Augusto Di Meo.

A 30 dalla morte abbiamo chiesto a Salvatore Cuoci di spiegarci il significato di ricordare un uomo che ha lottato per il Vangelo: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce della Chiesa: così inizia la Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo ‘Gaudium et Spes’, il documento conciliare promulgato da san Paolo VI nel 1965 che riflette, tra l’altro, sull’urgenza del tempo di manifestare un impegno comune per la pace e la giustizia.

Quella stessa pace e giustizia per cui si è battuto don Peppe Diana, accogliendo gli immigrati nella sua parrocchia, donando ai ragazzi del quartiere un orizzonte più vivibile, contrastando la camorra ed i soprusi di cui si nutriva, spezzando il cerchio dell’indifferenza e le catene che tenevano imprigionato un popolo. Perché la Chiesa non è cosa altra rispetto al territorio, ma lo vive fino in fondo, con le medesime urgenze e le stesse attese della gente. E per questo suo impegno di incarnare il Vangelo, don Peppe è stato ucciso dalla camorra. Farne memoria, significa rinnovare il suo impegno dentro un percorso di libertà”.

Per quale motivo non ha taciuto?

Nel documento ‘Per amore del mio popolo’, don Peppe scrive che ‘Dio ci chiama ad essere profeti. Il nostro impegno di denuncia non può venir meno. Il profeta fa da sentinella, vede l’ingiustizia e la denuncia’. Don Peppe ha incarnato fino in fondo il messaggio di Isaia, non nascondendosi dietro la tunica né voltandosi dall’altra parte di fronte allo strapotere dei camorristi, ma affrontando con le armi del Vangelo, con la forza della parola, il male che circondava il territorio, cercando nell’annuncio le parole da gridare dai tetti, nella testimonianza e nell’agire coraggioso, il senso pieno della vita. Non poteva tacere don Peppe, ha scelto di non farlo, per amore del suo popolo, solo per amore”.

Quale era il suo rapporto con i giovani?

“Don Peppe amava i giovani, erano il suo nutrimento, la sua gioia ed anche il suo tormento perché non ne riusciva a salvare abbastanza. La  parrocchia era piena di ragazzi, giovani che hanno imparato a saper stare con altri giovani, che hanno imparato, in quegli anni complicati, le prime regole di convivenza, a stare fuori casa ai primi campi scuola, che hanno imparato a camminare da soli. Li amava don Peppe i giovani, e li rimproverava anche, con il suo carattere forte, diretto, schietto, salvo poi prenderli per mano e con una carezza, continuare a camminare insieme”.

Quanti frutti sono nati dall’uccisione di don Peppe Diana?

“Quando i camorristi uccisero don Diana, lo fecero con l’intento di uccidere anche la speranza perché questi territori dovevano restare imprigionati dalla criminalità, condannati a restare terre di camorra e di malaffare. Invece quella morte, quel sangue versato ha cominciato a produrre frutti, cambiamenti, resistenze, lotte di libertà.

Ci siamo ripresi dapprima i terreni confiscati ai mafiosi, li abbiamo messi a coltura e abbiamo prodotto frutti buoni e giusti; dalla pasta al vino, dall’olio ai sottaceti, dalla cioccolata ai succhi di frutta, dalla passata di pomodoro fino al pacco alla camorra, un contenitore non solo di prodotti della terra, ma ricco di storie, di narrazioni sociali, di cambiamenti, di sogni, giunti perfino al Parlamento Europeo.

Poi ci siamo ripresi anche le loro case e ne abbiamo fatto centri di aggregazione, luoghi di incontro e di accoglienza, punti di lettura, di presentazione di libri e film, sedi di dibattiti, seminari, teatro, laboratori, mostre. E’ il segno concreto e tangibile che  ‘si può fare’ che è possibile sperare che un giorno possiamo essere tutti liberi dalla camorra”. 

A 30 anni dalla sua uccisione quale è l’eredità di don Diana?

“Don Diana ci lascia un patrimonio di impegno e di verità, uno sguardo fiero, autentico, rivolto al futuro che viene e al presente che viviamo. Ci lascia la voglia di esserci, il grido di libertà e la risalita sui tetti per annunciare parole di vita. Don Peppe ci lascia tutto se  stesso, la sua vita per riscattare le nostre imprigionate dalle mafie e dalle camorre”. 

A quale punto si trova la causa di beatificazione di don Diana?

“Siamo tra i promotori dell’inizio del percorso di beatificazione di Don Peppe. Otto anni fa abbiamo presentato una lettera accolta dal vescovo, con cui si diede il via ad una raccolta di testimonianze, scritti, documenti. E’ una strada che tutto sommato appare già tracciata. A noi interessa il riconoscimento della storia di un sacerdote che viene ucciso da camorristi, il riconoscimento di un martirio accertato. Ma guai a pensare a don Peppe su un piedistallo! Noi vogliamo don Peppe che continui a stimolarci, che continui a prenderci per mano per spronarci. Un ‘don Peppe’ vivo!”

Cosa è il Festival dell’impegno civile?

“Il Festival dell’Impegno civile, promosso dal Comitato ‘Don Peppe Diana’ e da ‘Libera’ Caserta, è una manifestazione unica in Italia che promuove il riutilizzo dei beni confiscati alla criminalità organizzata lungo il solco di una economia sociale come antidoto dell’economia criminale. E’ un festival itinerante che fa tappa in diversi beni confiscati o beni comuni per sensibilizzarne il riutilizzo sociale attraverso concerti, dibattiti, seminari, film e che vede la partecipazione delle comunità locali, delle associazioni e di tanti artisti che animano le serate. Ha ricevuto l’alto patrocinio del Presidente della Repubblica”.

Per quale ragione nasce il Comitato don Peppe Diana?

“L’associazione di promozione sociale ‘Comitato don Peppe Diana’ è nata ufficialmente il 25 aprile 2006, come frutto di un percorso di diversi anni, che ha coinvolto persone e organizzazioni unite dal desiderio di non dimenticare il martirio di un sacerdote morto per amore del suo popolo. Il comitato ‘Don Peppe Diana’ fu costituito da sette organizzazioni attive nel sociale, che avevano degli obiettivi comuni: la costruzione della memoria di don Giuseppe Diana, contestualizzando la sua vita di persona comune in una realtà problematica; la realizzazione di azioni educative e didattiche sui temi dell’impegno civile e sociale per una cittadinanza attiva; la promozione nelle nuove generazioni della speranza, dell’impegno e dell’assunzione di responsabilità per continuare a costruire comunità alternative alla camorra”.

(Tratto da Aci Stampa)

La vista ad Limina della Chiesa nelle Marche, come far tornare i giovani alla fede?

‘Parole sincere, schiette, dirette, da uomo vicino alle problematiche concrete della nostra vita’: così a conclusione della visita ad limina dei vescovi marchigiani mons. Nazzareno Marconi, presidente della Conferenza Episcopale marchigiana, ha definito l’incontro dei vescovi marchigiani con papa Francesco, che aveva espresso solidarietà ‘per la situazione che le nostre diocesi vivono per il terremoto, l’alluvione… Situazioni acuite durante il tempo del Covid’, riferendo che il dialogo si era concentrato sulle ‘sfide pastorali di questo tempo di grandi cambiamenti’, in modo particolare la vicinanza alle famiglie e ai giovani e la difficoltà di trasmettere la fede tra le generazioni.  

Parole ribadite anche nel comunicato dalla Conferenza Episcopale delle Marche: “Papa Francesco ha risposto alle domande, incoraggiando il cammino comune delle Chiese marchigiane, solidarizzando con i nostri problemi, in particolare la complessa ricostruzione materiale e soprattutto sociale dopo terremoto, pandemia ed alluvione. Il papa ha confermato i vescovi nella coscienza del compito complesso di traghettare la Chiesa marchigiana, da un passato di tradizione e fede vissuto soprattutto nelle piccole parrocchie, ad un futuro molto diverso”.

Inoltre mons. Nazzareno Marconi, vescovo della diocesi di Macerata, ha definito ‘arricchente’ l’incontro con il papa: “E’ stato indubbiamente positivo ed arricchente che in una settimana tutti i vescovi delle Marche abbiano guardato insieme al presente e al futuro delle nostre Chiese, sotto molteplici punti di vista. Ciò che la Chiesa insegna; ciò che celebra; ciò che dona al mondo: dall’azione in favore dei poveri a quella di accoglienza ed accompagnamento all’incontro con Dio e con l’umanità di bambini, ragazzi, giovani, famiglie, lavoratori ed anziani. Ogni età della vita è preziosa per la Chiesa e mai, neppure da vecchi o da malati, le persone sono per noi meno importanti, o peggio, da scartare”.

Per i vescovi marchigiani il papa è stato attento al racconto dei vescovi marchigiani: “Il papa si è mostrato attento e interessato su tutto, davvero partecipe della fatica di trasmettere la fede alle nuove generazioni che, come vescovi, è la nostra prima e più grande preoccupazione. Perché siamo certi che il mondo e quello giovanile in particolare, ha un gran bisogno della ‘gioia del Vangelo’ dell’esortazione apostolica ‘Evangelii gaudium’, per vivere nel bene e per operare bene. Tanta insoddisfazione, tristezza, costante lamentela, ha la sua radice più profonda in vite che si sono allontanate da Dio e dalla vita buona del Vangelo, e non riescono a ritrovare la strada di casa”.

Nell’udienza papa Francesco ha esortato i vescovi marchigiani a ‘traghettare’ la Chiesa marchigiana verso un futuro diverso: mons. Nazzareno Marconi, qual è questo futuro di fede?

“In occasione della Visita ad Limina il papa, e anche i suoi più stretti collaboratori, hanno incontrato tutti i Vescovi Ordinari della Regione Ecclesiastica Marchigiana. In quell’occasione tutti abbiamo avuto un forte incoraggiamento a vedere la nostra Chiesa con uno sguardo verso il futuro. Ciò che abbiamo potuto constatare in quei giorni è che la Chiesa non può chiudersi in sé stessa ma ha una vocazione universale soprattutto con i più lontani.

In un tempo in cui tutti erano cresciuti in una cultura cristiana si poteva stare in chiesa ad aspettare perché si sapeva che qualcuno sarebbe arrivato, in una cultura secolarizzata come la nostra bisogna adoperarsi e rimparare ad evangelizzare in modo nuovo. La Pasqua appena trascorsa insegna che la Risurrezione cambia il futuro, ma anche il presente. Tutti siamo chiamati a vivere il presente in modo nuovo. Invece di immaginare di andare verso la morte e farci trascinare verso la disperazione possiamo camminare con fede ogni giorno. Piccoli passi possibili”.

Come è la fede dei marchigiani?

“La fede delle nostre zone è simile a tante altre parti d’Italia. Tante persone sono smarrite a causa degli eventi negativi che vive il nostro tempo. In questo disorientamento le persone cercano di aggrapparsi a delle certezze a volte, purtroppo, estremizzando la propria posizione, questo accade anche nella relazione con Dio. Già il Concilio Vaticano II aveva esortato a un impegno di tutti i cristiani verso l’evangelizzazione con la propria testimonianza. L’uomo ha bisogno di scoprire la relazione d’amore che Dio a nei suoi confronti attraverso un accompagnamento personale, possiamo scordarci le grandi massa di persone”.

A quali sfide pastorali è chiamata la Chiesa marchigiana?

“La Visita ad Limina Apostolorum, da poco conclusa, si è svolta dopo circa 10 anni dall’ultimo incontro. In questi anni la Chiesa marchigiana ha dovuto affrontare numerose sfide che hanno colpito tutto il territorio regionale in particolare: il terremoto e le alluvioni, sfide acuite durante il tempo del Covid. Papa Francesco, come un padre amorevole, ha intercettato queste nostre preoccupazioni esprimendo solidarietà e vicinanza. Anche con il papa il dialogo si è concentrato sulle sfide pastorali di questo tempo di grandi cambiamenti, in modo particolare la vicinanza alle famiglie e ai giovani e la difficoltà di trasmettere la fede tra le generazioni”.

Perché la messa non è più un fenomeno di massa?

“Nel mondo globalizzato in cui viviamo la cultura non è più cristiana. L’uomo di oggi pretende di avere sempre, tutto e subito, sono cambiati i tempi e i modi di relazionarci con l’altro e di conseguenza è cambiata anche la relazione con l’Altro. In questo contesto la Chiesa è chiamata ad essere lievito che, seppur piccolo, insignificante addirittura invisibile fa fermentare la massa”.

Quale formazione offre la Chiesa marchigiana alla luce dell’esortazione apostolica ‘Evangelii Gaudium’?

“Nell’esortazione apostolica ‘Evangelii Gaudium’ papa Francesco pone di nuovo al centro la persona di Gesù Cristo, il primo evangelizzatore, che oggi chiama ognuno di noi a partecipare con lui all’opera della salvezza. In quel documento papa Francesco si rivolge alle Chiese particolari perché conoscono il contesto, le sfide e le opportunità ma chiede anche a tutta la Chiesa un cammino partecipato e condiviso secondo una metodologia comune.

La nostra regione ecclesiastica sta cercando di camminare verso queste due direzioni: lasciando ad ogni Diocesi la libertà di proporre un cammino diversificato in relazione al proprio contesto ma allo stesso tempo insieme stiamo cercando di condividere un cammino formativo comune. Nell’ultimo anno pastorale evidenzio solamente un frutto di questo cammino: l’unificazione dell’insegnamento teologico in Ancona in cui laici e seminaristi provenienti da più centri di formazione, secolare e religiosa, stanno condividendo un percorso comune. Questo processo sta portando ottimi frutti di conoscenza, collaborazione e aiuto reciproco”.

(Tratto da Aci Stampa)

Papa Francesco invita ad avere compassione per chi soffre

Oggi papa Francesco ha ricevuto in udienza i membri della fondazione ‘Sant’Angela Merici’ di Siracusa, in occasione dei 50 anni di fondazione, che continua l’impegno di mons. Gozzo a servizio delle persone più fragili: “La vostra storia, e tutto ciò che nei diversi Centri operativi portate avanti con tanta generosità, si radica in quell’evento che ha segnato la città di Siracusa quando, nel 1953, un quadretto raffigurante la Madonna iniziò a lacrimare nella casa dei coniugi Iannuso”.

Ed ha ricordato la storia di tale miracolo: “Sono le lacrime di Maria, la nostra Madre celeste, per le sofferenze e le pene dei suoi figli. Maria piange per i suoi figli che soffrono. Sono lacrime che ci parlano della compassione di Dio per tutti noi. Dobbiamo pensare a questo: la compassione di Dio. Egli, infatti, ha donato a tutti noi la sua Madre, che piange le nostre stesse lacrime per non farci sentire soli nei momenti difficili. Allo stesso tempo, attraverso le lacrime della Vergine Santa, il Signore vuole sciogliere i nostri cuori che a volte si sono inariditi nell’indifferenza e induriti nell’egoismo; vuole rendere sensibile la nostra coscienza, perché ci lasciamo toccare dal dolore dei fratelli e ci muoviamo a compassione per loro, impegnandoci a sollevarli, rialzarli, accompagnarli”.

Questa è la ‘ricchezza’ che deriva dal Vangelo: “Questa è la ricchezza della vostra storia, queste sono le radici che non dovete smarrire e, soprattutto, questo è il significato della vostra opera. La Fondazione, infatti, portando avanti un lavoro quotidiano dove si mescolano professionalità e spirito di sacrificio, esiste per esprimere in gesti concreti le lacrime versate dalla Vergine Maria e nello stesso tempo il suo desiderio materno di asciugare il pianto dei suoi figli”.

E’ stato un invito ad ‘asciugare’ le lacrime di chi soffre: “E voi, fratelli e sorelle, cercate di fare proprio questo: asciugare le lacrime di chi soffre, accompagnare chi è nel dolore, affiancare i più deboli della società, prendersi cura dei più vulnerabili, accogliere e ospitare chi vive particolari situazioni di fragilità. Fratelli e sorelle, il servizio che rendete è prezioso, e vorrei dirvi questo: la fonte della vostra opera è il Vangelo, rimanete attaccati a questa fonte!”

Inoltre ha indicato il Vangelo come fonte di compassione: “Allo stesso tempo, voi siete testimonianza viva di questo Vangelo, della compassione di Gesù, quando vi adoperate per accompagnare chi è nel dolore, proprio come il Signore ha comandato ai suoi discepoli di fare dinanzi alle folle affamate, sfinite e oppresse. Gesù infatti ci chiede di non separare mai l’amore per Dio da quello per il prossimo, in particolare per i più poveri”.

Questo è un incoraggiamento a proseguire il cammino con un invito alla commozione: “E chiedo per voi una grazia, che è la più importante di tutte: la grazia di sapersi commuovere, la capacità di piangere con chi piange. L’indifferenza, l’individualismo che ci chiude alle sorti di chi ci sta accanto, e quella anestesia del cuore che non ci fa più commuovere davanti ai drammi della vita quotidiana, queste tre cose sono i mali peggiori della nostra società. Per favore, non vergognatevi di piangere, di provare commozione per chi soffre; non risparmiatevi nell’esercitare compassione con chi è fragile, perché in queste persone è presente Gesù”.

Infine un invito a rendere grazie per questo gesto di volontariato, che fa germogliare la vita: “Andate avanti! E non scoraggiatevi, anzi, ringraziate se il vostro lavoro rimane nascosto ed esige un sacrificio silenzioso e quotidiano: il bene fatto a chi non può ricambiare si espande in modo sorprendente e inatteso, come un piccolo seme nascosto nel terreno che prima o poi fa germogliare una vita nuova”.

In seguito ha incontrato i volontari della Croce Rossa in occasione del 160^ anniversario della fondazione: “Il vostro impegno, ispirato ai principi di umanità, imparzialità, neutralità, indipendenza, volontariato, unità e universalità, è anche segno visibile che la fraternità è possibile. Se si mette al centro la persona, si può dialogare, lavorare insieme per il bene comune, andando oltre le divisioni, abbattendo i muri dell’inimicizia, superando le logiche dell’interesse e del potere che accecano e rendono l’altro un nemico. Per il credente ogni persona è sacra”.

E’ stato un ringraziamento per la difesa dei soggetti vulnerabili: “Ogni creatura umana è amata da Dio e, per questo, portatrice di diritti inalienabili. Animate da questa convinzione, tante persone di buona volontà si incontrano, riconoscendo il valore supremo della vita e, quindi, la necessità di difendere soprattutto i più vulnerabili. Su questa realtà dei più vulnerabili vorrei dirvi una cosa: sono i bambini. Qui in Italia sono arrivati tanti bambini a causa della guerra in Ucraina. Sapete una cosa? Che questi bambini non sorridono, hanno dimenticato la capacità di sorridere. E’ brutto questo per un bambino”.

Inoltre ha ricordato l’importanza del loro slogan: “Nel ringraziarvi per il vostro servizio insostituibile nelle aree di conflitto e nelle zone colpite da disastri ambientali, nell’ambito della formazione e della salute, così come per quello che fate a favore dei migranti, degli ultimi e dei più vulnerabili, voglio incoraggiarvi a proseguire in questa grande opera di carità che abbraccia l’Italia e il mondo.

Possa la Croce Rossa restare sempre simbolo eloquente di un amore per i fratelli che non ha confini, né geografici, né culturali, sociali, economici o religiosi. Non a caso, lo slogan che avete scelto per celebrare il 160° anniversario è ‘Ovunque per chiunque’. E’ una cosa universale. Si tratta di un’espressione che, mentre racconta un impegno, descrive anche uno stile, un modo di essere e di esserci”.

(Foto: Santa Sede)

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