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Papa Francesco: Gesù è il vivente

Nel messaggio pasquale ‘Urbe et Orbi’ con voce flebile, ma ferma papa Francesco impartisce la benedizione ai 35.000 fedeli riuniti nell’emiciclo del Bernini che poco prima hanno partecipato alla Messa di Pasqua presieduta, su delega del pontefice, dal card. Angelo Comastri, facendo riecheggiare la parola dell’Alleluja della vittoria sulla morte:
“Oggi nella Chiesa finalmente risuona l’alleluia, riecheggia di bocca in bocca, da cuore a cuore, e il suo canto fa piangere di gioia il popolo di Dio nel mondo intero. Dal sepolcro vuoto di Gerusalemme giunge fino a noi l’annuncio inaudito: Gesù, il Crocifisso, ‘non è qui, è risorto’. Non è nella tomba, è il vivente! L’amore ha vinto l’odio. La luce ha vinto le tenebre. La verità ha vinto la menzogna. Il perdono ha vinto la vendetta. Il male non è scomparso dalla nostra storia, rimarrà fino alla fine, ma non ha più il dominio, non ha più potere su chi accoglie la grazia di questo giorno”.
La morte è vinta perché Dio si è fatto carico del male nel mondo: “Sorelle e fratelli, specialmente voi che siete nel dolore e nell’angoscia, il vostro grido silenzioso è stato ascoltato, le vostre lacrime sono state raccolte, nemmeno una è andata perduta! Nella passione e nella morte di Gesù, Dio ha preso su di sé tutto il male del mondo e con la sua infinita misericordia l’ha sconfitto: ha sradicato l’orgoglio diabolico che avvelena il cuore dell’uomo e semina ovunque violenza e corruzione”.
Nella resurrezione, quindi, sta la speranza, la quale non delude: “Sì, la risurrezione di Gesù è il fondamento della speranza: a partire da questo avvenimento, sperare non è più un’illusione. No. Grazie a Cristo crocifisso e risorto, la speranza non delude! Spes non confundit! E non è una speranza evasiva, ma impegnativa; non è alienante, ma responsabilizzante.
Quanti sperano in Dio pongono le loro fragili mani nella sua mano grande e forte, si lasciano rialzare e si mettono in cammino: insieme con Gesù risorto diventano pellegrini di speranza, testimoni della vittoria dell’Amore, della potenza disarmata della Vita”.
In un mondo di morte la vita vince: “Cristo è risorto! In questo annuncio è racchiuso tutto il senso della nostra esistenza, che non è fatta per la morte ma per la vita. La Pasqua è la festa della vita! Dio ci ha creati per la vita e vuole che l’umanità risorga! Ai suoi occhi ogni vita è preziosa! Quella del bambino nel grembo di sua madre, come quella dell’anziano o del malato, considerati in un numero crescente di Paesi come persone da scartare.
Quanta volontà di morte vediamo ogni giorno nei tanti conflitti che interessano diverse parti del mondo! Quanta violenza vediamo spesso anche nelle famiglie, nei confronti delle donne o dei bambini! Quanto disprezzo si nutre a volte verso i più deboli, gli emarginati, i migranti! In questo giorno, vorrei che tornassimo a sperare e ad avere fiducia negli altri, anche in chi non ci è vicino o proviene da terre lontane con usi, modi di vivere, idee, costumi diversi da quelli a noi più familiari, poiché siamo tutti figli di Dio!”
Ed il pensiero va alla Terra Santa: “Vorrei che tornassimo a sperare che la pace è possibile! Dal Santo Sepolcro, Chiesa della Risurrezione, dove quest’anno la Pasqua è celebrata nello stesso giorno da cattolici e ortodossi, s’irradi la luce della pace su tutta la Terra Santa e sul mondo intero. Sono vicino alle sofferenze dei cristiani in Palestina e in Israele, così come a tutto il popolo israeliano e a tutto il popolo palestinese. Preoccupa il crescente clima di antisemitismo che si va diffondendo in tutto il mondo.
In pari tempo, il mio pensiero va alla popolazione e in modo particolare alla comunità cristiana di Gaza, dove il terribile conflitto continua a generare morte e distruzione e a provocare una drammatica e ignobile situazione umanitaria. Faccio appello alle parti belligeranti: cessate il fuoco, si liberino gli ostaggi e si presti aiuto alla gente, che ha fame e che aspira ad un futuro di pace!”
Ed anche alla popolazione libanese: “Preghiamo per le comunità cristiane in Libano e in Siria che, mentre quest’ultimo Paese sperimenta un passaggio delicato della sua storia, ambiscono alla stabilità e alla partecipazione alle sorti delle rispettive Nazioni. Esorto tutta la Chiesa ad accompagnare con l’attenzione e con la preghiera i cristiani dell’amato Medio Oriente”.
Però non ha dimenticato né Yemen né Ucraina: “Un pensiero speciale rivolgo anche al popolo dello Yemen, che sta vivendo una delle peggiori crisi umanitarie ‘prolungate’ del mondo a causa della guerra, e invito tutti a trovare soluzioni attraverso un dialogo costruttivo. Cristo Risorto effonda il dono pasquale della pace sulla martoriata Ucraina e incoraggi tutti gli attori coinvolti a proseguire gli sforzi volti a raggiungere una pace giusta e duratura”.
Nei pensieri del papa è anche la situazione caucasica: “In questo giorno di festa pensiamo al Caucaso Meridionale e preghiamo affinché si giunga presto alla firma e all’attuazione di un definitivo Accordo di pace tra l’Armenia e l’Azerbaigian, che conduca alla tanto desiderata riconciliazione nella Regione”.
Ha chiesto pace nei Balcani: “La luce della Pasqua ispiri propositi di concordia nei Balcani occidentali e sostenga gli attori politici nell’adoperarsi per evitare l’acuirsi di tensioni e crisi, come pure i partner della Regione nel respingere comportamenti pericolosi e destabilizzanti”.
E nella Repubblica del Congo: “Cristo Risorto, nostra speranza, conceda pace e conforto alle popolazioni africane vittime di violenze e conflitti, soprattutto nella Repubblica Democratica del Congo, in Sudan e Sud Sudan, e sostenga quanti soffrono a causa delle tensioni nel Sahel, nel Corno d’Africa e nella Regione dei Grandi Laghi, come pure i cristiani che in molti luoghi non possono professare liberamente la loro fede.
Insomma la pace non può esistere senza libertà religiosa e disarmo: “Nessuna pace è possibile laddove non c’è libertà religiosa o dove non c’è libertà di pensiero e di parola e il rispetto delle opinioni altrui. Nessuna pace è possibile senza un vero disarmo! L’esigenza che ogni popolo ha di provvedere alla propria difesa non può trasformarsi in una corsa generale al riarmo”.
L’appello papale si conclude con l’invito alla liberazione dei prigionieri: “Non venga mai meno il principio di umanità come cardine del nostro agire quotidiano. Davanti alla crudeltà di conflitti che coinvolgono civili inermi, attaccano scuole e ospedali e operatori umanitari, non possiamo permetterci di dimenticare che non vengono colpiti bersagli, ma persone con un’anima e una dignità. E in quest’anno giubilare, la Pasqua sia anche l’occasione propizia per liberare i prigionieri di guerra e quelli politici!”
E nella celebrazione eucaristica è riecheggiata la resurrezione: “Cristo è risorto, è vivo! Egli non è rimasto prigioniero della morte, non è più avvolto nel sudario, e dunque non si può rinchiuderlo in una bella storia da raccontare, non si può fare di Lui un eroe del passato o pensarlo come una statua sistemata nella sala di un museo! Al contrario, bisogna cercarlo e per questo non possiamo stare fermi. Dobbiamo metterci in movimento, uscire per cercarlo: cercarlo nella vita, cercarlo nel volto dei fratelli, cercarlo nel quotidiano, cercarlo ovunque tranne che in quel sepolcro”.
E’ un invito a cercare Gesù: “Cercarlo sempre. Perché, se è risorto dalla morte, allora Egli è presente ovunque, dimora in mezzo a noi, si nasconde e si rivela anche oggi nelle sorelle e nei fratelli che incontriamo lungo il cammino, nelle situazioni più anonime e imprevedibili della nostra vita. Egli è vivo e rimane sempre con noi, piangendo le lacrime di chi soffre e moltiplicando la bellezza della vita nei piccoli gesti d’amore di ciascuno di noi”.
In questo anno giubilare risuona la speranza della vita: “Fratelli e sorelle, ecco la speranza più grande della nostra vita: possiamo vivere questa esistenza povera, fragile e ferita aggrappati a Cristo, perché Lui ha vinto la morte, vince le nostre oscurità e vincerà le tenebre del mondo, per farci vivere con Lui nella gioia, per sempre… Il Giubileo ci chiama a rinnovare in noi il dono di questa speranza, a immergere in essa le nostre sofferenze e le nostre inquietudini, a contagiarne coloro che incontriamo sul cammino, ad affidare a questa speranza il futuro della nostra vita e il destino dell’umanità”.
E’ un invito a non rincorrere alle illusioni: “E perciò non possiamo parcheggiare il cuore nelle illusioni di questo mondo o rinchiuderlo nella tristezza; dobbiamo correre, pieni di gioia. Corriamo incontro a Gesù, riscopriamo la grazia inestimabile di essere suoi amici. Lasciamo che la sua Parola di vita e di verità illumini il nostro cammino”.
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco: annunciare a tutti la Pasqua

“E’ notte quando il cero pasquale avanza lentamente fino all’altare. E’ notte quando il canto dell’Inno apre i nostri cuori all’esultanza, perché la terrà è inondata di così grande splendore: la luce del Re eterno ha vinto le tenebre del mondo”: con il Preconio pasquale è inizia nella basilica di san Pietro la veglia pasquale celebrata dal card. Giovanni Battista Re, decano del Collegio cardinalizio.
Nell’omelia letta papa Francesco ha sottolineato che al buio della notte succede l’alba del giorno: “Sul finire della notte avvengono i fatti narrati nel Vangelo appena proclamato: la luce divina della Risurrezione si accende e la Pasqua del Signore accade quando il sole sta ancora per spuntare; ai primi chiarori dell’alba si vede che la grande pietra, posta sul sepolcro di Gesù, è stata ribaltata e alcune donne arrivano in quel luogo portando il velo del lutto. Il buio avvolge lo sconcerto e la paura dei discepoli. Tutto succede nella notte”.
La luce rischiara la notte: “Così, la Veglia pasquale ci ricorda che la luce della Risurrezione rischiara il cammino passo dopo passo, irrompe nelle tenebre della storia senza clamore, rifulge nel nostro cuore in modo discreto. E ad essa corrisponde una fede umile, priva di ogni trionfalismo. La Pasqua del Signore non è un evento spettacolare con cui Dio afferma sé stesso e obbliga a credere in Lui; non è una mèta che Gesù raggiunge per una via facile, aggirando il Calvario; e nemmeno noi possiamo viverla in modo disinvolto e senza esitazione interiore. Al contrario, la Risurrezione è simile a piccoli germogli di luce che si fanno strada a poco a poco, senza fare rumore, talvolta ancora minacciati dalla notte e dall’incredulità”.
Questo è lo ‘stile’ di Dio che non elimina la notte ma la rischiara: “Questo ‘stile’ di Dio ci libera da una religiosità astratta, illusa dal pensare che la risurrezione del Signore risolva tutto in maniera magica. Tutt’altro: non possiamo celebrare la Pasqua senza continuare a fare i conti con le notti che portiamo nel cuore e con le ombre di morte che spesso si addensano sul mondo”.
La luce consente alla speranza di germogliare: “Cristo ha vinto il peccato e ha distrutto la morte ma, nella nostra storia terrena, la potenza della sua Risurrezione si sta ancora compiendo. E questo compimento, come un piccolo germoglio di luce, è affidato a noi, perché lo custodiamo e lo facciamo crescere. Fratelli e sorelle, questa è la chiamata che, soprattutto nell’anno giubilare, dobbiamo sentire forte dentro di noi: facciamo germogliare la speranza della Pasqua nella nostra vita e nel mondo!”
E’ un invito a non perdere la speranza: “Quando sentiamo ancora il peso della morte dentro il nostro cuore, quando vediamo le ombre del male continuare la loro marcia rumorosa sul mondo, quando sentiamo bruciare nella nostra carne e nella nostra società le ferite dell’egoismo o della violenza, non perdiamoci d’animo, ritorniamo all’annuncio di questa notte: la luce lentamente risplende anche se siamo nelle tenebre; la speranza di una vita nuova e di un mondo finalmente liberato ci attende; un nuovo inizio può sorprenderci benché a volte ci sembri impossibile, perché Cristo ha vinto la morte”.
La resurrezione è un annuncio del Regno di Dio: “Questo annuncio, che allarga il cuore, ci riempie di speranza. In Gesù Risorto abbiamo infatti la certezza che la nostra storia personale e il cammino dell’umanità, pur immersi ancora in una notte dove le luci appaiono fioche, sono nelle mani di Dio; e Lui, nel suo grande amore, non ci lascerà vacillare e non permetterà che il male abbia l’ultima parola. Allo stesso tempo, questa speranza, già compiuta in Cristo, per noi rimane anche una mèta da raggiungere: a noi è stata affidata perché ne diventiamo testimoni credibili e perché il Regno di Dio si faccia strada nel cuore delle donne e degli uomini di oggi”.
Riprendendo sant’Agostino il papa ha invitato ad essere ‘costruttori di speranza’: “Riprodurre la Pasqua nella nostra vita e diventare messaggeri di speranza, costruttori di speranza mentre tanti venti di morte soffiano ancora su di noi. Possiamo farlo con le nostre parole, con i nostri piccoli gesti quotidiani, con le nostre scelte ispirate al Vangelo. Tutta la nostra vita può essere presenza di speranza”.
Soprattutto per chi ha smarrito la speranza: “Vogliamo esserlo per coloro ai quali manca la fede nel Signore, per chi ha smarrito la strada, per quelli che si sono arresi o hanno la schiena curva sotto i pesi della vita; per chi è solo o si è chiuso nel proprio dolore; per tutti i poveri e gli oppressi della Terra; per le donne umiliate e uccise; per i bambini mai nati e per quelli maltrattati; per le vittime della guerra. A ciascuno e a tutti portiamo la speranza della Pasqua!”
E’ un invito ad annunciare la Pasqua: “Il Cristo risorto è la svolta definitiva della storia umana. Lui è la speranza che non tramonta. Lui è l’amore che ci accompagna e ci sostiene. Lui è il futuro della storia, la destinazione ultima verso cui camminiamo, per essere accolti in quella nuova vita in cui il Signore stesso asciugherà ogni nostra lacrima ‘e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno’. E questa speranza della Pasqua, questa ‘svolta nelle tenebre’, dobbiamo annunciarla a tutti. Sorelle, fratelli, il tempo di Pasqua è stagione di speranza”.
(Foto: Santa Sede)
Venerdì Santo: sulla croce l’amore di Dio salva

Nell’omelia della celebrazione della Passione del Signore nella basilica di San Pietro, presieduta dal prefetto del dicastero per le Chiese Orientali, card. Claudio Gugerotti, delegato del Papa, il predicatore della Casa Pontificia, fra Roberto Pasolini, ha ricordato che il cammino di salvezza indicato da Cristo è aperto a chiunque disposto a ‘fidarsi fino in fondo del Padre, lasciandosi guidare dalla sua volontà anche nei passaggi più oscuri’:
“Al centro del Triduo Pasquale palpita un cuore, quello del Venerdì Santo. Tra il bianco della Cena del Signore e quello della sua Risurrezione, la liturgia interrompe la continuità cromatica tingendo di rosso tutti i paramenti e invitando i nostri sensi a sintonizzarsi sulle tonalità intense e drammatiche dell’amore più grande”.
Nella Lettera agli Ebrei san Paolo scrive che le preghiere di Gesù furono da Dio esaudite per il suo ‘pieno abbandono’: “Dio non ha risparmiato a Cristo la sofferenza, ma ha sostenuto il suo cuore, rendendolo capace di consegnarsi alle esigenze dell’amore più grande, quello che non si ferma neppure davanti ai nemici”.
Il primo momento sottolineato riguarda la frase ‘Sono io’: “Nei momenti in cui la nostra vita subisce qualche battuta d’arresto (un imprevisto doloroso, una grave malattia, una crisi nelle relazioni) anche noi possiamo provare ad abbandonarci a Dio con la stessa fiducia, accogliendo ciò che ci turba e ci appare minaccioso”. Così facendo, “il peso della vita si fa più leggero, e la sofferenza, pur restando reale, smette di essere inutile e inizia a generare vita”.
Il secondo momento è la manifestazione del bisogno da parte di Gesù in croce, il suo “Ho sete”, prima di morire: “Gesù muore non prima di aver manifestato, senza alcuna vergogna, tutto il suo bisogno. Si congeda dalla storia compiendo uno dei gesti più umani e insieme più difficili: chiedere ciò che da soli non siamo in grado di darci. Il corpo di Cristo, spogliato di tutto, manifesta il bisogno più umano: quello di essere amato, accolto, ascoltato”.
Il suo corpo ‘manifesta il bisogno più umano: quello di essere amato, ascoltato, accolto’. Anche noi “possiamo prendere bene quegli istanti in cui emerge con chiarezza che non bastiamo a noi stessi”, quando “il dolore, la stanchezza, la solitudine o la paura ci mettono a nudo”.
Infine con le ultime parole, ‘è compiuto’, Gesù dona la sua vita e il suo Spirito mostra che “non è la forza a salvare il mondo, ma la debolezza dell’amore, che non trattiene nulla”. In un tempo segnato dalla prestazione, è difficile “riconoscere i momenti di sconfitta o di passività come luoghi possibili di compimento, perché quando la croce ci toglie il fiato e ci immobilizza, tendiamo a sentirci sbagliati”.
Quindi seguire l’esempio e le parole di Cristo non è semplice, “quando il male ci raggiunge, quando la sofferenza ci visita, quando ci sentiamo soli o abbandonati”. Aiuta allora ‘accostarci con piena fiducia alla croce’. Oggi, in questo Giubileo, “nel quale il papa ci ha ricordato che ‘Cristo è l’ancora della nostra speranza’, noi cristiani scegliamo la via della croce come unica direzione possibile della nostra vita”.
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco: nella Via Crucis l’attesa della vita

“La via del Calvario passa in mezzo alle nostre strade di tutti i giorni. Noi, Signore, andiamo solitamente nella direzione opposta alla tua. Proprio così può capitarci di incontrare il tuo volto, di incrociare il tuo sguardo. Noi procediamo come sempre e tu vieni verso di noi. I tuoi occhi ci leggono il cuore. Allora esitiamo a proseguire come se nulla fosse successo. Possiamo voltarci, guardarti, seguirti. Possiamo immedesimarci nel tuo cammino e intuire che è meglio cambiare direzione”: lo ha scritto papa Francesco nell’introduzione al testo delle meditazioni e delle preghiere, preparate da lui, per la Via Crucis, presieduta dal delegato del Santo Padre, il card. Baldassare Reina, vicario generale per la diocesi di Roma.
Nell’introduzione delle meditazioni papa Francesco ha sottolineato che occorre uscire dalla ‘città’ per ‘cambiare il mondo’: “Nei tuoi passi che escono dalla città c’è il nostro esodo verso una terra nuova. Sei venuto a cambiare il mondo: significa per noi cambiare direzione, vedere la bontà delle tue tracce, lasciare lavorare nel nostro cuore la memoria dei tuoi occhi”.
La Via Crucis è una ‘preghiera’ di chi accoglie l’invito di Gesù a mettersi in movimento: “La Via Crucis è la preghiera di chi si muove. Interrompe i nostri percorsi consueti, affinché dalla stanchezza andiamo verso la gioia. E’ vero, ci costa la via di Gesù: in questo mondo che calcola tutto, la gratuità ha un caro prezzo. Nel dono, però, tutto rifiorisce: una città divisa in fazioni e lacerata dai conflitti va verso la riconciliazione; una religiosità inaridita riscopre la fecondità delle promesse di Dio; persino un cuore di pietra può cambiarsi in un cuore di carne. Soltanto, occorre ascoltare l’invito: ‘Vieni! Seguimi!’ E fidarsi di quello sguardo d’amore”.
Per questo suo annuncio di libertà è stato condannato a morte: “Non andò così. Non ti rimise in libertà. Eppure, sarebbe potuta andare diversamente. E’ il drammatico gioco delle nostre libertà. Quello per cui, Signore, tanto ci hai stimati. Hai dato fiducia a Erode, a Pilato, ad amici e nemici. Sei irrevocabile nella fiducia con cui ti metti nelle nostre mani. Possiamo trarne meraviglie: liberando chi è ingiustamente accusato, approfondendo la complessità delle situazioni, contrastando i giudizi che uccidono. Persino Erode avrebbe potuto seguire la santa inquietudine che lo attraeva a te: non lo ha fatto, nemmeno quando si trovò finalmente in tua presenza. Pilato avrebbe potuto liberarti: già ti aveva assolto. Non lo ha fatto.
La via della croce, Gesù, è una possibilità che già troppe volte abbiamo lasciato cadere. Lo confessiamo: prigionieri dei ruoli da cui non siamo voluti uscire, preoccupati dei fastidi di un cambio di direzione. Tu sei ancora, silenziosamente, davanti a noi: in ogni sorella e in ogni fratello esposti a giudizi e pregiudizi. Ritornano argomenti religiosi, cavilli giuridici, l’apparente buon senso che non si coinvolge nel destino altrui: mille ragioni ci tirano dalla parte di Erode, dei sacerdoti, di Pilato e della folla. Eppure, può andare diversamente. Tu, Gesù, non te ne lavi le mani. Ami ancora, in silenzio. La tua scelta l’hai fatta, e ora tocca a noi”.
Per non rischiare di prendere posizione Gesù è condannato a morte: “Da mesi, forse da anni, quel peso era sulle tue spalle, Gesù. Quando ne parlavi, nessuno ti dava retta: resistenza invincibile, anche solo a intuire. Non te la sei cercata, ma hai sentito la croce venire verso di te, sempre più distintamente. Se l’hai accolta, è perché ne avvertivi, oltre che il peso, la responsabilità. La strada della tua croce, Gesù, non è solo in salita. È la tua discesa verso coloro che hai amato, verso il mondo che Dio ama. E’ una risposta, un’assunzione di responsabilità. Costa, come costano i legami più veri, gli amori più belli. Il peso che porti racconta il respiro che ti muove, quello Spirito ‘che è Signore e dà la vita’.
Chissà perché temiamo persino di interrogarti, su questo. In realtà, siamo noi ad avere il fiato corto, a forza di evitare responsabilità. Basterebbe non scappare e restare: tra coloro che ci hai dato, nei contesti in cui ci hai posto. Legarci, sentendo che solo così smettiamo di essere prigionieri di noi stessi. Pesa più l’egoismo della croce. Pesa più l’indifferenza della condivisione. Lo aveva annunciato il profeta: Anche i giovani faticano e si stancano, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano in te riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi”.
Ma in questo calvario c’è il sostegno doloroso della Madre: “Tua madre c’è, sulla via della croce: fu lei la tua prima discepola. Con delicata determinazione, con la sua intelligenza che nel cuore custodisce e ripensa, tua madre c’è. Dall’istante in cui le fu proposto di accoglierti in grembo si voltò, si convertì a te. Piegò le sue vie alle tue. Non fu una rinuncia, ma una scoperta continua, fino al Calvario: seguirti è lasciarti andare; averti è fare spazio alla tua novità. Lo sa ogni madre: un figlio sorprende. Figlio amato, tu riconosci che tua madre e tuoi fratelli sono quelli che ascoltano e si lasciano cambiare. Non parlano, ma fanno. In Dio le parole sono fatti e le promesse sono realtà: sulla via della croce, o Madre, sei fra le poche che lo ricorda.
Ora è il Figlio che ha bisogno di te: lui sente che tu non disperi. Sente che stai generando ancora nel tuo grembo la Parola. Anche noi, Gesù, riusciamo a seguirti generati da chi ti ha seguito. Anche noi siamo rimessi al mondo dalla fede di tua madre e di innumerevoli testimoni che generano anche là dove tutto parla di morte. Quella volta, in Galilea, erano stati loro a volerti vedere. Ora, salendo al Calvario, tu stesso cerchi lo sguardo di chi ascolta e mette in pratica. Indicibile intesa. Alleanza indissolubile”.
Ma anche il sostegno, forse non cercato, dell’uomo di strada come il cireneo, che si lascia coinvolgere: “Non si offrì, lo fermarono. Simone tornava dal suo lavoro e gli misero addosso la croce di un condannato. Avrà avuto il fisico adatto, ma certo la sua direzione era un’altra, il suo programma era un altro. In Dio ci si può imbattere così. Chissà perché, Gesù, quel nome – Simone di Cirene – divenne presto indimenticabile fra i tuoi discepoli. Sulla via della croce loro non c’erano e noi nemmeno, Simone invece sì. Vale fino a oggi: mentre qualcuno offre tutto di sé, si può essere altrove, persino in fuga, oppure si può venire coinvolti. Noi crediamo, Gesù, di ricordare il nome di Simone perché quell’imprevisto lo cambiò per sempre. Non smise più di pensarti. Diventò parte del tuo corpo, testimone di prima mano della tua differenza da qualsiasi altro condannato.
E tu, Gesù, ami coinvolgerci nel tuo lavoro, che dissoda la terra, perché sia nuovamente seminata. Noi abbiamo bisogno di questa sorprendente leggerezza. Abbiamo bisogno di chi ci fermi, talvolta, e ci metta sulle spalle qualche pezzo di realtà che va semplicemente portato. Si può lavorare tutto il giorno, ma senza di te si disperde. Invano faticano i costruttori, invano veglia il custode della città che Dio non costruisce. Ecco: sulla via della croce sorge la Gerusalemme nuova. E noi, come Simone di Cirene, cambiamo strada e lavoriamo con te”.
O la Veronica che porta sollievo al condannato: “Nel tuo volto, Gesù, vediamo il tuo cuore. La tua decisione ti si legge negli occhi, scava il tuo viso, rende i tuoi lineamenti espressione di un’attenzione inconfondibile. Ti accorgi di Veronica, come di me. Io cerco il tuo volto, che racconta la decisione di amarci sino all’ultimo respiro: e anche oltre, perché forte come la morte è l’amore. A cambiarci il cuore è il tuo volto, che vorrei fissare e custodire. Tu ti consegni a noi, giorno dopo giorno, nel volto di ogni essere umano, memoria viva della tua incarnazione.
Ogni volta che ci volgiamo al più piccolo, infatti, diamo attenzione alle tue membra e tu resti con noi. Così ci illumini il cuore e l’espressione del viso. Invece di respingere, ora accogliamo. Sulla via della croce il nostro volto, come il tuo, può finalmente diventare raggiante e diffondere benedizione. Ne hai impressa in noi la memoria, presentimento del tuo ritorno, quando ci riconoscerai al primo sguardo, uno a uno. Allora, forse, ti somiglieremo. E saremo faccia a faccia, in un dialogo senza fine, nell’intimità di cui mai saremo stanchi, famiglia di Dio”.
Nonostante l’ingiusta condanna l’Uomo giusto sa consolare chi piange: “Nelle donne hai riconosciuto da sempre, Gesù, una particolare corrispondenza col cuore di Dio. Per questo, nella grande moltitudine di popolo che quel giorno cambiò direzione e ti seguiva, immediatamente vedesti le donne e, ancora una volta, stabilisti con loro un’intesa speciale. La città è diversa quando se ne portano gli abitanti in grembo, quando se ne allattano i bambini: quando, insomma, non si conosce soltanto il registro del dominio, ma le cose si vivono dal di dentro. Alle donne che per dovere svolgono il rito della compassione, tu colpisci il cuore…
La nostra convivenza ferita, o Signore, in questo mondo a pezzi, ha bisogno di lacrime sincere, non di circostanza. Altrimenti si avvera quanto predissero gli apocalittici: non generiamo più nulla e poi tutto crolla. La fede, invece, sposta le montagne. Monti e colli non ci cadono addosso, ma in mezzo a loro si apre una strada. E’ la tua strada, Gesù: una via in salita, su cui gli apostoli ti hanno abbandonato, ma le tue discepole (madri della Chiesa) ti hanno seguito”.
In questa via crucis di Gesù tutto si conclude con l’attesa del giorno nuovo, che arriverà nel ‘terzo giorno’: “In un sistema che non si ferma mai, Gesù, tu vivi il tuo sabato. Lo vivono anche le donne, alle quali aromi e profumi vorrebbero già parlare di risurrezione. Insegnaci a non fare niente, quando ci è chiesto solo di aspettare. Educaci ai tempi della terra, che non sono quelli dell’artificio. Deposto nel sepolcro, Gesù, condividi la condizione che tutti ci accomuna e raggiungi gli abissi che tanto ci spaventano.
Vedi come li sfuggiamo, moltiplicando le nostre attività. Giriamo spesso a vuoto, ma il sabato splende con le sue luci: ci educa e ci chiede riposo. Vita divina, vita a misura d’uomo, quella che conosce la pace del sabato… Gesù, che sembri dormire nel mondo in tempesta, portaci tutti nella pace del sabato. Allora la creazione intera ci apparirà molto bella e buona, destinata alla risurrezione. E sarà pace sul tuo popolo e fra tutte le nazioni”.
Ed ecco l’invocazione conclusiva, che riprende il tema delle sue encicliche, modellato dalla preghiera di san Francesco: “Abbiamo percorso la Via della Croce; ci siamo volti all’amore da cui nulla potrà separaci. Ora, mentre il Re dorme e un grande silenzio scende su tutta la terra, facendo nostre le parole di san Francesco invochiamo il dono della conversione del cuore: Alto e glorioso Dio, illumina le tenebre del cuore mio. Dammi fede retta, speranza certa, carità perfetta e umiltà profonda. Dammi, Signore, senno e discernimento per compiere la tua vera e santa volontà. Amen”.
Papa Francesco invita i sacerdoti ad essere annunciatori di speranza

“Carissimi Vescovi e sacerdoti, cari fratelli e sorelle! ‘L’Alfa e l’Omega, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente’ è Gesù. Proprio il Gesù che Luca ci descrive nella sinagoga di Nazaret, tra coloro che lo conoscono fin da bambino e ora si stupiscono di Lui. La rivelazione (‘apocalisse’) si offre nei limiti del tempo e dello spazio: ha la carne come cardine che sostiene la speranza. La carne di Gesù e la nostra. L’ultimo libro della Bibbia racconta questa speranza. Lo fa in modo originale, sciogliendo tutte le paure apocalittiche al sole dell’amore crocifisso. In Gesù si apre il libro della storia e lo si può leggere”.
E’ iniziata con queste parole l’omelia scritta da papa Francesco e letta dal card. Domenico Calcagno, presidente emerito dell’APSA, che ha presieduto, nella Basilica Vaticana, la Santa Messa Crismale, a motivo della convalescenza, invitando la leggere la propria vita:
“Anche noi sacerdoti abbiamo una storia: rinnovando il Giovedì Santo le promesse dell’Ordinazione, confessiamo di poterla leggere soltanto in Gesù di Nazaret… Quando lasciamo che sia Lui a istruirci, il nostro diventa un ministero di speranza, perché in ognuna delle nostre storie Dio apre un giubileo, cioè un tempo e un’oasi di grazia. Chiediamoci: sto imparando a leggere la mia vita? Oppure ho paura a farlo?”
Nell’omelia il papa ha sottolineato l’importanza del sacerdozio per i fedeli: “E’ un popolo intero a trovare ristoro, quando il giubileo inizia nella nostra vita: non una volta ogni venticinque anni (speriamo!) ma in quella prossimità quotidiana del prete alla sua gente in cui le profezie di giustizia e di pace si adempiono. ‘Ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre’: ecco il popolo di Dio. Questo regno di sacerdoti non coincide con un clero”.
Il sacerdozio coincide con una nuova visione di popolo: “Il ‘noi’ che Gesù plasma è un popolo di cui non vediamo i confini, in cui cadono i muri e le dogane. Colui che dice: ‘Ecco, io faccio nuove tutte le cose’ ha squarciato il velo del tempio e ha in serbo per l’umanità una città- giardino, la nuova Gerusalemme che ha porte sempre aperte. Così, Gesù legge e ci insegna a leggere il sacerdozio ministeriale come puro servizio al popolo sacerdotale, che abiterà presto una città che non ha bisogno di tempio”.
L’anno giubilare è un nuovo inizio: “L’anno giubilare rappresenta così, per noi sacerdoti, una specifica chiamata a ricominciare nel segno della conversione. Pellegrini di speranza, per uscire dal clericalismo e diventare annunciatori di speranza. Certo, se Alfa e Omega della nostra vita è Gesù, anche noi potremo incontrare il dissenso da Lui sperimentato a Nazaret. Il pastore che ama il suo popolo non vive alla ricerca di consenso e approvazione a ogni costo. Eppure, la fedeltà dell’amore converte, lo riconoscono per primi i poveri, ma lentamente inquieta e attrae anche gli altri”.
E’ un invito a ‘ritornare’ a Nazareth: “Siamo qui radunati, carissimi, a fare nostro e ripetere questo ‘Sì, Amen!’ E’ la confessione di fede del popolo di Dio: ‘Sì, è così, tiene come una roccia!’ Passione, morte e risurrezione di Gesù, che ci apprestiamo a rivivere, sono il terreno che sostiene saldamente la Chiesa e, in essa, il nostro ministero sacerdotale. E che terreno è questo? In che humus noi possiamo non soltanto reggere, ma fiorire? Per comprenderlo bisogna ritornare a Nazaret, come intuì tanto acutamente San Charles de Foucauld”.
Ma occorre essere ‘innamorati’ della Parola di Dio: “Abbiamo qui evocate almeno due abitudini: quella a frequentare la sinagoga e quella a leggere. La nostra vita è sostenuta da buone abitudini. Esse possono inaridirsi, ma rivelano dov’è il nostro cuore. Quello di Gesù è un cuore innamorato della Parola di Dio: a dodici anni lo si capiva già e ora, divenuto adulto, le Scritture sono casa sua. Ecco il terreno, l’humus vitale che troviamo diventando suoi discepoli”.
La Sacra Scrittura offre ad ognuno una Parola da portare a termine: “Cari sacerdoti, ognuno di noi ha una Parola da adempiere. Ognuno di noi ha un rapporto con la Parola di Dio che viene da lontano. Lo mettiamo a servizio di tutti solo quando la Bibbia rimane la nostra prima casa. Al suo interno, ciascuno di noi ha delle pagine più care. Questo è bello e importante!
Aiutiamo anche altri a trovare le pagine della loro vita: forse gli sposi, quando scelgono le Letture del loro matrimonio; o chi è nel lutto e cerca dei brani per affidare alla misericordia di Dio e alla preghiera della comunità la persona defunta. C’è una pagina della vocazione, in genere, all’inizio del cammino di ciascuno di noi. Per suo tramite, Dio ci chiama ancora, se la custodiamo, perché non si intiepidisca l’amore”.
E’ un invito ad invocare lo Spirito Santo: “E’ questo lo Spirito che invochiamo sul nostro sacerdozio: ne siamo stati investiti e proprio lo Spirito di Gesù rimane silenzioso protagonista del nostro servizio. Il popolo ne avverte il soffio quando in noi le parole diventano realtà. I poveri, prima degli altri, e i bambini, gli adolescenti, le donne e anche coloro che nel rapporto con la Chiesa sono stati feriti, hanno il ‘fiuto’ dello Spirito Santo: lo distinguono da altri spiriti mondani, lo riconoscono nella coincidenza in noi tra l’annuncio e la vita.
Noi possiamo diventare una profezia adempiuta, e questo è bello! Il sacro Crisma, che oggi consacriamo, sigilla questo mistero trasformativo nelle diverse tappe della vita cristiana. E attenzione: mai scoraggiarsi, perché è un’opera di Dio. Credere, sì! Credere che Dio non fallisce con me! Dio non fallisce mai. Ricordiamo quella parola nell’Ordinazione: «Dio porti a compimento l’opera che in te ha iniziato». E lo fa”.
E’ un invito a compiere l’opera di Dio: “E’ l’opera di Dio, non la nostra: portare ai poveri un lieto messaggio, ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, la libertà agli oppressi. Se Gesù nel rotolo ha trovato questo passo, oggi lo continua a leggere nella biografia di ognuno di noi. Primariamente perché, fino all’ultimo giorno, è sempre Lui a evangelizzarci, a liberarci dalle prigioni, ad aprirci gli occhi, a sollevare i pesi caricati sulle nostre spalle.
E poi perché, chiamandoci alla sua missione e inserendoci sacramentalmente nella sua vita, Egli libera anche altri attraverso di noi. In genere, senza che ce ne accorgiamo. Il nostro sacerdozio diventa un ministero giubilare, come il suo, senza suonare il corno né la tromba: in una dedizione non gridata, ma radicale e gratuita”.
Al contempo ha invitato ad essere ‘operai’ di Dio: “Dio solo sa quanto la messe sia abbondante. Noi operai viviamo la fatica e la gioia della mietitura. Viviamo dopo Cristo, nel tempo messianico. Bando alla disperazione! Restituzione, invece, e remissione dei debiti; ridistribuzione di responsabilità e di risorse: il popolo di Dio si attende questo. Vuole partecipare e, in forza del Battesimo, è un grande popolo sacerdotale. Gli oli che in questa solenne celebrazione consacriamo sono per la sua consolazione e la gioia messianica”.
Ma per essere ‘operai’ è necessario assaporare la ‘gioia’ di Dio: “Il campo è il mondo. La nostra casa comune, tanto ferita, e la fraternità umana, così negata, ma incancellabile, ci chiamano a scelte di campo. Il raccolto di Dio è per tutti: un campo vivo, in cui cresce cento volte più di quello che si è seminato. Ci animi, nella missione, la gioia del Regno, che ripaga ogni fatica. Ogni contadino, infatti, conosce stagioni in cui non si vede nascere nulla. Non ne mancano anche nella nostra vita. È Dio che fa crescere e che unge i suoi servi con olio di letizia”.
Ed infine ha chiesto ai fedeli la preghiera: “Cari fedeli, popolo della speranza, pregate oggi per la gioia dei sacerdoti. Venga a voi la liberazione promessa dalle Scritture e alimentata dai Sacramenti. Molte paure ci abitano e tremende ingiustizie ci circondano, ma un mondo nuovo è già sorto. Dio ha tanto amato il mondo da dare a noi il suo Figlio, Gesù. Egli unge le nostre ferite e asciuga le nostre lacrime”.
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco: l’amore è una relazione di speranza

Nella catechesi preparata per l’udienza generale, annullata per la convalescenza a Casa Santa Marta, dopo il ricovero di oltre un mese al Policlinico Gemelli, papa Francesco ha riflettuto sulla parabola del figlio prodigo e invita i fedeli a domandarsi in quale ‘posizione’ ci si trova nella parabola: “Partiamo dalla parabola più famosa, quella che tutti noi ricordiamo forse da quando eravamo piccoli: la parabola del padre e dei due figli. In essa troviamo il cuore del Vangelo di Gesù, cioè la misericordia di Dio.
L’evangelista Luca dice che Gesù racconta questa parabola per i farisei e gli scribi, i quali mormoravano per il fatto che Lui mangiava con i peccatori. Per questo si potrebbe dire che è una parabola rivolta a coloro che si sono persi, ma non lo sanno e giudicano gli altri”.
Nella catechesi il papa ha sottolineato il messaggio di speranza della parabola: “Il Vangelo vuole consegnarci un messaggio di speranza, perché ci dice che dovunque ci siamo persi, in qualunque modo ci siamo persi, Dio viene sempre a cercarci! Ci siamo persi forse come una pecora, uscita dal sentiero per brucare l’erba, o rimasta indietro per la stanchezza.
O forse ci siamo persi come una moneta, che magari è caduta per terra e non si trova più, oppure qualcuno l’ha messa da qualche parte e non ricorda dove. Oppure ci siamo persi come i due figli di questo padre: il più giovane perché si è stancato di stare dentro una relazione che sentiva come troppo esigente; ma anche il maggiore si è perso, perché non basta rimanere a casa se nel cuore ci sono orgoglio e rancore”.
Per questo il papa ha sottolineato che amare significa disporsi all’incontro: “L’amore è sempre un impegno, c’è sempre qualcosa che dobbiamo perdere per andare incontro all’altro. Ma il figlio minore della parabola pensa solo a sé stesso, come accade in certe fasi dell’infanzia e dell’adolescenza. In realtà, intorno a noi vediamo anche tanti adulti così, che non riescono a portare avanti una relazione perché sono egoisti. Si illudono di ritrovare sé stessi e invece si perdono, perché solo quando viviamo per qualcuno viviamo veramente”.
Quindi l’amore è una condizione relazionale: “Questo figlio più giovane, come tutti noi, ha fame di affetto, vuole essere voluto bene. Ma l’amore è un dono prezioso, va trattato con cura. Egli invece lo sperpera, si svende, non si rispetta. Se ne accorge nei tempi di carestia, quando nessuno si cura di lui. Il rischio è che in quei momenti ci mettiamo a elemosinare l’affetto e ci attacchiamo al primo padrone che capita.
Sono queste esperienze che fanno nascere dentro di noi la convinzione distorta di poter stare in una relazione solo da servi, come se dovessimo espiare una colpa o come se non potesse esistere l’amore vero. Il figlio minore, infatti, quando ha toccato il fondo, pensa di tornare a casa del padre per raccogliere da terra qualche briciola d’affetto”.
Ed ha richiamato un quadro di Rembrandt: “Solo chi ci vuole veramente bene può liberarci da questa visione falsa dell’amore. Nella relazione con Dio facciamo proprio questa esperienza. Il grande pittore Rembrandt, in un famoso dipinto, ha rappresentato in maniera meravigliosa il ritorno del figlio prodigo. Mi colpiscono soprattutto due particolari: la testa del giovane è rasata, come quella di un penitente, ma sembra anche la testa di un bambino, perché questo figlio sta nascendo di nuovo. E poi le mani del padre: una maschile e l’altra femminile, per descrivere la forza e la tenerezza nell’abbraccio del perdono”.
Inoltre la parabola focalizza l’attenzione anche sul figlio maggiore: “Ma è il figlio maggiore che rappresenta coloro per i quali la parabola viene raccontata: è il figlio che è sempre rimasto a casa con il padre, eppure era distante da lui, distante nel cuore. Questo figlio forse avrebbe voluto andarsene anche lui, ma per timore o per dovere è rimasto lì, in quella relazione. Quando però ti adatti contro voglia, cominci a covare rabbia dentro di te, e prima o poi questa rabbia esplode”.
Il ‘problema’ del figlio maggiore consiste nel non comprendere la misericordia come forma di giustizia, che è apertura alla speranza: “Paradossalmente, è proprio il figlio maggiore che alla fine rischia di rimanere fuori di casa, perché non condivide la gioia del padre. Il padre esce anche incontro a lui. Non lo rimprovera e non lo richiama al dovere. Vuole solo che senta il suo amore.
Lo invita a entrare e lascia la porta aperta. Quella porta rimane aperta anche per noi. E’ questo, infatti, il motivo della speranza: possiamo sperare perché sappiamo che il Padre ci aspetta, ci vede da lontano, e lascia sempre la porta aperta”.
Tale parabola può essere letta anche per noi: “Cari fratelli e sorelle, chiediamoci allora dove siamo noi in questo meraviglioso racconto. E chiediamo a Dio Padre la grazia di poter ritrovare anche noi la strada per tornare verso casa”.
Inoltre sul mensile ‘Piazza San Pietro’, diretto da p. Enzo Fortunato, il papa ha risposto ad una domanda sui costi eccessivi dei voli che impediscono a molte famiglie di celebrare le feste con i figli lontani: “Le famiglie vanno sostenute per stare insieme. In questo cambiamento d’epoca, molti giovani, molti figli hanno trovato lavoro lontano dai genitori e non possono trascorrere con loro nemmeno le feste di Natale e Pasqua.
A volte anche la distanza allenta i rapporti, crea incomprensioni e difficoltà. Sarebbe bello che le grandi compagnie potessero istituire dei bonus per il ricongiungimento familiare, almeno per le festività di Natale e Pasqua. Sarebbe un atto di umanità e di fraternità, a cui è chiamato anche il mondo dell’economia e delle imprese”.
Però ha suggerito alle famiglie anche l’uso della tecnologia: “Possiamo usare la videochiamata, durante la quale possiamo anche pregare insieme a distanza, confrontarci con la Parola di Dio, e crescere nella comunione. Non può essere la regola, ma in qualche caso possiamo far ricorso a questi nuovi strumenti, ad esempio anche attraverso l’uso di una chat familiare, nella quale ogni giorno si propone di condividere e meditare una frase del Vangelo, per supportarci anche a distanza nel cammino di fede”.
Papa Francesco aggiorna la formazione dei diplomatici

Con il Chirografo dello scorso 25 marzo 2025 è stato aggiornato il percorso di formazione della Pontificia Accademia Ecclesiastica, istituzione che dal 1701 prepara i diplomatici della Santa Sede, in linea con l’orientamento riformatore promosso da papa Francesco per le istituzioni accademiche ecclesiastiche; e come delineato nella Costituzione Apostolica ‘Veritatis Gaudium’, la Pontificia Accademia Ecclesiastica è stata configurata quale Istituto di alta formazione accademica nel settore delle Scienze Diplomatiche.
La Pontificia Accademia Ecclesiastica offrirà un curriculum formativo che integra competenze giuridiche, storiche, politologiche, economiche e linguistiche, con una solida base scientifica, con l’obiettivo di fornire agli alunni (giovani sacerdoti provenienti da diocesi di tutto il mondo) una preparazione completa e adeguata alla missione diplomatica loro affidata dalla Santa Sede.
In questo modo l’itinerario formativo delineato per i futuri Rappresentanti Pontifici coniuga le competenze teoriche con un metodo di lavoro e uno stile di vita capaci di garantire una comprensione profonda delle complesse dinamiche delle relazioni internazionali; tale percorso richiede competenza e capacità interpretative, una solida attitudine al discernimento e la disponibilità a confrontarsi con le sfide di una Chiesa chiamata a vivere in modo sempre più sinodale.
In questo quadro, risultano imprescindibili qualità personali quali la prossimità, l’ascolto, la testimonianza coerente, il dialogo e una disposizione fraterna, da coniugare con l’umiltà e la mitezza che contraddistinguono la vocazione sacerdotale sull’esempio del Buon Pastore. Tali elementi sono costitutivi di un’azione diplomatica ispirata al Vangelo, capace di costruire ponti, superare ostacoli e promuovere percorsi concreti di pace, libertà religiosa e cooperazione tra le Nazioni.
Quindi la ‘scuola degli ambasciatori del Papa’ cambia forma, diventa un istituto di formazione universitaria in linea con gli standard del ‘processo di Bologna’, conferendo i gradi accademici di Secondo e Terzo Ciclo in Scienze Diplomatiche, ovvero l’equivalente del Master Degree e del Dottorato (PhD). Ma, soprattutto, diventa parte integrante della Segreteria di Stato:
“Nel costante servizio di portare ai popoli e alle Chiese la vicinanza del Papa, sono punti di riferimento i Rappresentanti Pontifici inviati nelle diverse Nazioni e territori. Sono essi custodi di quella sollecitudine che dal centro si muove verso le periferie, per renderle partecipi dello slancio missionario della Chiesa, per poi farvi ritorno con necessità, riflessioni e aspirazioni… Chiamati a far sentire nel Paese in cui sono inviati la presenza del Vescovo di Roma ‘perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei Vescovi, sia della moltitudine dei fedeli’, svolgono un’azione pastorale che ne evidenzia lo spirito sacerdotale, le doti umane e le capacità professionali”.
Il Chirografo chiarisce il ‘compito’ dei diplomatici: “A questa azione, sacerdotale ed evangelizzatrice ad un tempo, posta a servizio delle singole Chiese, la missione affidata ai diplomatici del Papa unisce la rappresentanza presso le Autorità pubbliche. Un compito che manifesta l’effettivo esercizio di quel diritto nativo e indipendente di legazione anch’esso parte dell’ufficio petrino, che nel realizzarsi domanda il rispetto delle regole del diritto internazionale alla base della vita della Comunità delle genti”.
Quindi è un servizio diffuso nel mondo: “I nostri giorni mostrano come questo servizio non sia più limitato a quei Paesi dove l’annuncio della salvezza ha radicato la presenza della Chiesa, ma si realizza anche nei territori in cui essa è comunità nascente; o nei consessi internazionali dove, mediante i suoi rappresentanti, la Sede di Pietro si rende attenta ai dibattiti, ne valuta i contenuti e, alla luce della dimensione etica e religiosa che le è propria, offre una lettura sui grandi temi che coinvolgono l’oggi e il futuro della famiglia umana”.
Quindi la Chiesa fornisce un metodo di lavoro per l’azione diplomatica: “L’Accademia realizzerà la sua funzione nelle forme più avanzate oggi richieste alla formazione e alla ricerca nel particolare settore disciplinare delle scienze diplomatiche, a cui concorre lo studio delle discipline giuridiche, storiche, politologiche, economiche, quello delle lingue in uso nelle relazioni internazionali e la competenza scientifica. In tale rinnovamento si avrà cura di prevedere che i programmi di insegnamento abbiano una stretta connessione con le discipline ecclesiastiche, con il metodo di lavoro della Curia Romana, con le necessità delle Chiese locali e più ampiamente con l’opera di evangelizzazione, l’azione della Chiesa e la sua relazione con la cultura e la società umana.
Sono questi, infatti, altrettanti elementi costitutivi dell’azione diplomatica della Sede Apostolica e della sua capacità di operare, mediare, superare barriere e così sviluppare percorsi concreti di dialogo e negoziato per garantire la pace, la libertà di religione per ogni credente e l’ordine tra le Nazioni”.
Papa Francesco invita a seguire Gesù sulla croce

“Oggi, Domenica delle Palme, nel Vangelo abbiamo ascoltato il racconto della Passione del Signore secondo Luca… Indifeso e umiliato, l’abbiamo visto camminare verso la croce con i sentimenti e il cuore di un bambino aggrappato al collo del suo papà, fragile nella carne, ma forte nell’abbandono fiducioso, fino ad addormentarsi, nella morte, tra le sue braccia”: questo è stato il testo letto prima della recita dell’angelus della Domenica delle Palme, quando papa Francesco Papa è arrivato in piazza san Pietro augurando ‘Buona domenica delle Palme, buona Settimana Santa’.
Nel testo il papa ha evidenziato il tema del dolore: “Sono sentimenti che la liturgia ci chiama a contemplare e a fare nostri. Tutti abbiamo dolori, fisici o morali, e la fede ci aiuta a non cedere alla disperazione, non chiuderci nell’amarezza, ma ad affrontarli sentendoci avvolti, come Gesù, dall’abbraccio provvidente e misericordioso del Padre”.
Inoltre ha ricordato il conflitto in Sudan e nel Libano: “Il 15 aprile ricorrerà il secondo triste anniversario dell’inizio del conflitto in Sudan, con migliaia di morti e milioni di famiglie costrette ad abbandonare le proprie case. La sofferenza dei bambini, delle donne e delle persone vulnerabili grida al cielo e ci implora di agire.
Rinnovo il mio appello alle parti coinvolte, affinché pongano fine alle violenze e intraprendano percorsi di dialogo, e alla Comunità internazionale, perché non manchino gli aiuti essenziali alle popolazioni. E ricordiamo anche il Libano, dove 50 anni fa cominciò la tragica guerra civile: con l’aiuto di Dio possa vivere in pace e prosperità”.
Nella celebrazione eucaristica il card, Leonardo Sandri, vice decano del Collegio Cardinalizio, ha letto l’omelia del papa: “Oggi anche noi abbiamo seguito Gesù, prima con un corteo festoso e poi su una via dolorosa, inaugurando la Settimana Santa che ci prepara a celebrare la passione, morte e risurrezione del Signore. Mentre guardiamo, tra la folla, i volti dei soldati e le lacrime delle donne, la nostra attenzione viene attirata da uno sconosciuto, il cui nome entra nel Vangelo all’improvviso: Simone di Cirene…
Arrivava in quel momento dalla campagna, passava di là, e si è imbattuto in una vicenda che lo travolge, come il pesante legno sulle sue spalle. Mentre siamo in cammino verso il Calvario, riflettiamo un momento sul gesto di Simone, cerchiamo il suo cuore, seguiamo il suo passo accanto a Gesù”.
Ed hanno preso un passante: “Da un lato, infatti, il Cireneo viene obbligato a portare la croce: non aiuta Gesù per convinzione, ma per costrizione. Dall’altro, egli si trova a partecipare in prima persona alla passione del Signore. La croce di Gesù diventa la croce di Simone.
Non però di quel Simone detto Pietro che aveva promesso di seguire sempre il Maestro… Simone di Galilea dice, ma non fa. Simone di Cirene fa, ma non dice: tra lui e Gesù non c’è alcun dialogo, non viene pronunciata una parola. Tra lui e Gesù c’è solo il legno della croce”.
E’ stato un invito a guardare il ‘cuore’: “Per sapere se il Cireneo ha soccorso o detestato l’esausto Gesù, col quale deve spartire la pena, per capire se porta o sopporta la croce, dobbiamo guardare al suo cuore. Mentre sta per aprirsi il cuore di Dio, trafitto da un dolore che rivela la sua misericordia, il cuore dell’uomo resta chiuso. Non sappiamo cosa abiti nel cuore del Cireneo”.
E’ un invito a mettersi ‘nei suoi panni’: “Mettiamoci nei suoi panni: sentiamo rabbia o pietà, tristezza o fastidio? Se ricordiamo che cosa ha fatto Simone per Gesù, ricordiamo pure che cosa ha fatto Gesù per Simone (come per me, per te, per ognuno di noi): ha redento il mondo. La croce di legno, che il Cireneo sopporta, è quella di Cristo, che porta il peccato di tutti gli uomini. Lo porta per amore nostro, in obbedienza al Padre, soffrendo con noi e per noi. E’ proprio questo il modo, inatteso e sconvolgente, col quale il Cireneo viene coinvolto nella storia della salvezza, dove nessuno è straniero, nessuno è estraneo”.
E’ stato un invito a seguire questo Cireneo: “Seguiamo allora il passo di Simone, perché ci insegna che Gesù viene incontro a tutti, in qualsiasi situazione. Quando vediamo la moltitudine di uomini e donne che odio e violenza gettano sulla via del Calvario, ricordiamoci che Dio trasforma questa via in luogo di redenzione, perché l’ha percorsa dando la sua vita per noi. Quanti cirenei portano la croce di Cristo! Li riconosciamo? Vediamo il Signore nei loro volti, straziati dalla guerra e dalla miseria? Davanti all’atroce ingiustizia del male, portare la croce di Cristo non è mai vano, anzi, è la maniera più concreta di condividere il suo amore salvifico”.
Infine un invito ad essere abbracciati dalla misericordia di Dio: “La passione di Gesù diventa compassione quando tendiamo la mano a chi non ce la fa più, quando solleviamo chi è caduto, quando abbracciamo chi è sconfortato. Fratelli, sorelle, per sperimentare questo grande miracolo della misericordia, scegliamo lungo la Settimana Santa come portare la croce: non al collo, ma nel cuore. Non solo la nostra, ma anche quella di chi soffre accanto a noi; magari di quella persona sconosciuta che il caso (ma è proprio un caso?) ci ha fatto incontrare. Prepariamoci alla Pasqua del Signore diventando cirenei gli uni per gli altri”.
La Basilica di san Pietro è più sicura per dare maggior bellezza

“La Fabbrica di San Pietro proverbialmente non si ferma mai e cerca di ricambiare la fede e l’amore dei pellegrini e dei visitatori che entrano in Basilica. Vogliamo restituire quello che ci viene dato e quello che ci ha lasciato nei secoli questo luogo dello spirito. Anche e soprattutto nell’Anno Giubilare”: con queste parole iniziali è stata fatta dal card. Mauro Gambetti, arciprete della Basilica Papale di San Pietro in Vaticano, vicario Generale di Sua Santità per la Città del Vaticano e Presidente della Fabbrica di San Pietro, insieme ad Alberto Capitanucci, responsabile dell’Area Tecnica e beni Culturali della Fabbrica di San Pietro, Pietro Zander, responsabile della Sezione Necropoli e Beni Artistici della Fabbrica di San Pietro e Stefano Marsella, direttore centrale per l’innovazione tecnologica e risorse logistiche del Dipartimento dei Vigili del Fuoco italiano, la presentazione dei restauri dei monumenti funebri dei pontefici Paolo III e Urbano VIII e la riqualificazione illuminotecnica della Necropoli, delle Sale archeologiche e delle Grotte Vaticane.
Tale restauro è stato reso necessario per dare più visibilità alle opere d’arte per una maggiore consapevolezza dell’arte sacra: “Vogliamo consentire ai visitatori di ammirare la Gloria di Gian Lorenzo Bernini insieme ai due grandiosi monumenti sepolcrali collocati a destra e a sinistra della Cattedra, uno di Papa Farnese, opera di Guglielmo della Porta, e l’altro di Papa Barberini, realizzato dallo stesso Bernini.
Vogliamo altresì offrire un’immersione nella storia e l’esperienza profonda del sacro. Vedremo gli spazi archeologici come li hanno visti i primi cristiani, i Papi di secoli addietro, nello splendore di chiaroscuri che rimandano alla luce delle fiaccole che illuminarono la nascita della Chiesa e la nostra strada”.
Dopo aver ringraziato coloro che hanno consentito tale restauro il card. Gambetti ha illustrato il nuovo piano della sicurezza: “La Basilica è aperta al mondo. Visitata da 12.000.000 persone ogni anno, probabilmente il doppio durante il Giubileo, ha bisogno anche di sicurezza, di far sentire tutti protetti. Anche il nuovo piano di esodo della Basilica di San Pietro, che illustreremo brevemente, è espressione concreta di quella sollecitudine pastorale che si prende cura del benessere di ogni fedele e visitatore.
Migliore gestione e velocizzazione dei flussi d’uscita garantiscono più agio e più sicurezza. Per questo lavoro non saremo mai grati abbastanza al Corpo dei Vigli del Fuoco italiano che, d’intesa con Comando dei Vigili del Fuoco del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, hanno sviluppato uno studio e un progetto che potrebbe diventare esemplare per i luoghi di culto”.
Tale restauro è stato reso necessario per ‘mostrare’ una Chiesa ‘viva’: “Sollecitati da papa Francesco ad essere ‘artigiani di speranza e restauratori di un’umanità spesso distratta e infelice’ consideriamo questi lavori non solo come necessari interventi tecnici, ma come segni di una Chiesa viva, accogliente e attenta alle ‘cose di Dio’, agli uomini e alle donne del nostro tempo assetati di amore, di pace e di gioia, assetati di spiritualità autentica”.
Mentre l’ing. Stefano Marsella, direttore centrale per l’innovazione tecnologica e risorse logistiche del Dipartimento dei Vigili del Fuoco italiano, ha sottolineato gli interventi effettuati: “Il lavoro è iniziato con l’impiego da parte di personale del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco di sistemi Laser Scanner ad alte prestazioni per effettuare il rilievo 3D con accuratezza millimetrica della quasi totalità della Basilica, sia nelle parti accessibili al pubblico, che nei potenziali percorsi di esodo. Tale attività ha consentito di riprodurre la geometria dei luoghi in modo accurato e di verificare alcuni dettagli fondamentali per la simulazione senza ricorrere a continui sopralluoghi”.
Ed ha chiarito in cosa consista il nuovo piano della sicurezza: “La valutazione della sicurezza dell’esodo, inoltre, si è basata su simulazioni realistiche che riproducono l’afflusso di persone in due scenari principali: durante le funzioni liturgiche con circa 5.000 partecipanti e in periodi di visita turistica e di pellegrini, dove il numero scende leggermente a 4.000 visitatori. E’ stato impiegato un software particolarmente adatto a simulare gli aspetti di dettaglio delle persone e dei luoghi, che ha permesso di analizzare la fluidità del movimento delle persone verso le uscite, identificando i nodi critici che potrebbero rallentare l’evacuazione in caso di emergenza”.
Grazie a tali ammodernamenti sono state eliminate le barriere architettoniche: “Tra gli elementi chiave emersi dallo studio c’è l’eliminazione di barriere fisiche e informali, che ha portato alla sostituzione di gradini ripidi con rampe, utili a ridurre i rischi e a rendere la Basilica maggiormente accessibile a tutti, compresi i disabili o persone con difficoltà motorie. Il software di simulazione dell’esodo ha permesso inoltre di visualizzare i flussi pedonali e di individuare le aree dove si formano ingorghi pericolosi”.
In conclusione è stato sottolineato che ora la Basilica di san Pietro ha maggiore sicurezza: “Le modifiche proposte riducono anche significativamente i tempi necessari ad evacuare la basilica, migliorando notevolmente le procedure precedenti. In sintesi, l’obiettivo è stato quello di trasformare uno spazio storico ma complesso in un luogo ancora più sicuro per milioni di visitatori annuali e fedeli, utilizzando innovazione tecnologica e piani progettati al dettaglio. Un esempio del come patrimoni culturali possono adattarsi alle esigenze moderne della sicurezza senza perdere la loro essenza”.
‘Opera Aperta’: la Santa Sede alla Biennale di Architettura per tessere le relazioni

Nei giorni scorsi è stato presentato alla Sala stampa vaticana il Padiglione ‘Opera Aperta’, che segna la terza partecipazione del Dicastero per la cultura e l’educazione alla Mostra Internazionale di Architettura, giunta alla 19^ edizione, in svolgimento dal 10 maggio al 23 novembre sul tema ‘Intelligens. Natural. Artificial. Collective’, introdotto dall’architetto Carlo Ratti, curatore della Biennale Architettura: “Per affrontare un mondo in fiamme, l’architettura deve riuscire a sfruttare tutta l’intelligenza che ci circonda”.
Per questo Giovanna Zabotti, curatrice del Padiglione della Santa Sede 2025, ha illustrato il Padiglione allestito dalla Santa Sede: “In una Biennale guidata da Carlo Ratti, dove il tema è Intelligens, il nostro Padiglione propone l’idea di un’intelligenza comunitaria. Ci siamo chiesti come poter rispondere a quelle che sono la missione e la filosofia che il Padiglione vuole esprimere… Questo sforzo congiunto vuole recuperare non solo un edificio, ma anche una connessione sociale…
Il Padiglione della Santa Sede è un vero cantiere, dove architetti, comunità, associazioni e visitatori della Biennale sono posti a sistema… L’intervento coinvolge un complesso di edifici rimasti vuoti per anni. Cerchiamo di restituire senso a questo silenzio, attraverso un linguaggio architettonico fatto di ascolto e di recupero. Non si tratta tanto di un Padiglione da visitare, ma da abitare”.
‘Opera Aperta’ è un “processo collaborativo che coinvolge un team internazionale e collettivi locali”, ha commentato Marina Otero Verzier, altra curatrice del Padiglione della Santa Sede che si è collegata da remoto alla conferenza stampa, mentre il card. José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, ha spiegato che l’idea è nata dall’applicazione dell’enciclica ‘Laudato sì’:
“10 anni fa, papa Francesco pubblicava la Lettera Enciclica ‘Laudato sì’, che rappresenta una pietra miliare sia nel Magistero del Santo Padre, sia nella comprensione crescente che la contemporaneità è chiamata a costruire sul nostro essere tutti abitanti di una stessa casa comune. Ma non solo; la ‘Laudato sì’ è anche un punto di riferimento nella consapevolezza che è da qui che dobbiamo partire per maturare una nuova visione culturale”.
Quindi da questa enciclica è necessaria una ‘revisione’ dei modelli di sviluppo in grado di tessere relazioni: “Oggi abbiamo bisogno di tessitori di relazioni, che credono nel valore della riparazione e della cura. Abbiamo bisogno di trovare nuove razionalità che osino pratiche sociali collaborative e rischino paradigmi più efficaci di restituzione. Tanto è che la proposta di papa Francesco, che fiduciosamente trova alleati in geografie religiose e culturali diverse, insiste sull’importanza del capire che tutto ciò che esiste si trova in relazione sistemica. ‘Tutto è collegato’, dice il papa. La situazione dell’essere umano non può dunque essere considerata senza che si tenga in conto la situazione della casa di tutti che è il pianeta”.
Ed ha presentato il padiglione della Santa Sede a Venezia: “Sarà un padiglione-parabola. Il titolo di ‘Opera Aperta’ lo presenta come un cantiere, come un processo in corso al quale tutti sono invitati a collaborare: architetti, pensatori, abitanti del sestiere, associazioni e persino, i visitatori della Biennale… Il nostro desiderio è che questo padiglione-parabola possa essere una espressione concreta, nel campo dell’architettura, delle intuizioni profetiche contenute nella ‘Laudato sì’ e diventare un laboratorio attivo di intelligenza umana collettiva, mettendo in comune: ragione e affetto, professionalità e convivialità, ricerca e vita ordinaria”.
(Foto: Vatican Media)