Dal mondo
Colpita a Gaza la chiesa: atto vile

Ieri papa Leone XIV ha rinnovato il suo appello per ‘un immediato cessate il fuoco’ nella Striscia di Gaza esprimendo la ‘profonda speranza’ di ‘dialogo, riconciliazione e pace durevole nella regione’ in un telegramma a firma del segretario di Stato, card. Pietro Parolin, dopo l’attacco militare israeliano contro la chiesa cattolica della Sacra Famiglia a Gaza, provocando morti e diversi feriti, tra questi ultimi il parroco padre Gabriel Romanelli, ferito lievemente a una gamba e soccorso nel locale ospedale Al-Ahli di Gaza City.
La caduta dei blocchi di cemento ha ucciso il portinaio Saad Issa Kostandi Salameh e Foumia Issa Latif Ayyad. Nella clinica sono stati portati gli altri dieci feriti, di cui tre gravi, tra loro Suhail abu Dawod, giornalista e collaboratore dei media vaticani, curando la rubrica settimanale ‘Vi scrivo da Gaza’ sull’Osservatore romano: “E’ una tragedia enorme. Ma sappiamo che sarebbe potuta andare molto peggio. Di norma nel cortile stavano decine di persone. Se padre Gabriel non avesse chiesto di stare dentro, sarebbe stato un massacro”.
Anche la Cei ha espresso condanna per l’attacco israeliano alla chiesa ‘Sacra Famiglia’ di Gaza: “Apprendiamo con sgomento dell’inaccettabile attacco alla chiesa della Sacra Famiglia di Gaza. Esprimiamo vicinanza alla comunità della parrocchia colpita, con un particolare pensiero a coloro che soffrono e ai feriti, tra i quali padre Gabriel Romanelli”.
Per questo i vescovi italiani ha rivolto un appello per la pace: “Nel condannare fermamente le violenze che continuano a seminare distruzione e morte tra la popolazione della Striscia, duramente provata da mesi di guerra, rivolgiamo un appello alle parti coinvolte e alla comunità internazionale affinché tacciano le armi e si avvii un negoziato, unica strada possibile per giungere alla pace”.
Infine un ringraziamento alla presidente Di Segni: “Ringraziamo la Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Noemi Di Segni, per il suo messaggio di solidarietà e quanti, in queste ore, stanno manifestando la loro prossimità alla Chiesa cattolica”.
Infatti l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI) ha espresso cordoglio per quanto “avvenuto a seguito dell’incidente in cui è stata colpita la Chiesa della Sacra Famiglia a Gaza, luogo di culto e di preghiera, uno spazio tanto più essenziale in un contesto profondamente segnato da un conflitto lungo e lacerante. Ci uniamo alle preghiere per i feriti, manifestiamo la nostra vicinanza alla Chiesa, al Patriarcato Latino di Gerusalemme, a Padre Romanelli e a tutti i fedeli colpiti. Il rispetto e la protezione dei luoghi religiosi, di qualunque fede essi siano, sono fondamentali per la convivenza, la dignità umana e la speranza di pace”.
Anche il patriarcato latino di Gerusalemme ha pubblicato un comunicato di condanna per l’attacco da parte dell’esercito israeliano: “Le persone del Complesso della Sacra Famiglia hanno trovato nella Chiesa un rifugio, sperando che gli orrori della guerra potessero almeno risparmiare loro la vita, dopo che le loro case, i loro beni e la loro dignità erano già stati strappati via. A nome di tutta la Chiesa di Terra Santa, esprimiamo le nostre più sentite condoglianze alle famiglie colpite dal lutto e, da qui, offriamo le nostre preghiere per la rapida e completa guarigione dei feriti”.
Per il patriarcato latino di Gerusalemme c’è bisogno che tutti i leader mondiali prendano posizione contro questa guerra: “Morte, sofferenza e distruzione sono ovunque. E’ giunto il momento che i leader alzino la voce e facciano tutto il necessario per porre fine a questa tragedia, umanamente e moralmente ingiustificata. Questa guerra orribile deve giungere alla fine, affinché possiamo iniziare il lungo lavoro di ripristino della dignità umana”.
Solidarietà è espressa dalle Acli, che hanno parlato di violazione delle leggi umanitarie: “In quella chiesa non c’era alcun terrorista, e alcuna minaccia alla sicurezza di Israele, che sta diventando un’ossessione cui vengono offerti veri e propri sacrifici umani, e che sta moltiplicando irresponsabilmente i fronti di intervento, come quello con il nuovo Governo siriano. Non è possibile parlare di ‘errori di tiro’ in questo quotidiano stillicidio di violenza sconsiderata”.
Riprendendo il comunicato della Caritas del Patriarcato latino di Gerusalemme le Acli hanno chiesto hanno chiesto “alla comunità internazionale, ed in particolare al Governo italiano di voler intervenire con una ferma condanna delle azioni del Governo e dell’esercito israeliano, che ormai si configurano quali veri e propri crimini di guerra, adottando tutte le misure necessarie perché cessino queste violenze indiscriminate, gli ostaggi ancora in mano ad Hamas (vivi o morti che siano) vengano rilasciati e si arrivi ad una tregua permanente”.
Mentre l’Azione Cattolica Italiana ha parlato di ‘atto ignobile’: “Non si può più parlare di incidenti isolati, né di danni collaterali. La sistematicità di questi attacchi contro scuole, ospedali, campi profughi, e ora una chiesa cattolica (l’unica di Gaza, rifugio per cristiani e musulmani) testimonia un disprezzo crescente verso ogni principio di umanità e diritto internazionale.
Persino chi fino a ieri taceva o balbettava oggi è costretto a parlare. Giorgia Meloni ammette finalmente che ‘nessuna azione militare può giustificare un tale atteggiamento’. Tajani parla di ‘atto grave contro un luogo di culto cristiano’. Parole tardive, ma necessarie.
Quindi è necessario parlare di ‘crimine’: “Se la comunità internazionale non avrà il coraggio di fermare questa spirale di brutalità, sarà complice. Chi continua a coprire l’operato del governo israeliano, chi rifiuta di pronunciare la parola ‘crimine’, dovrà guardare in faccia le vittime (oggi cristiane, ieri musulmane, tutte umane) e spiegare perché il loro sangue non vale quanto quello di altri. La guerra non giustifica tutto. Il diritto di Israele a esistere non può mai significare il diritto a distruggere tutto e tutti. Serve un sussulto morale. Serve giustizia. Subito”.
(Foto: Acli)
Di Mattei (ordine degli psicologi Lombardia): attivato il gruppo di lavoro psicotraumatologia e crisi umanitarie

Le notizie delle guerre in corso – in Ucraina, a Gaza, e le crescenti tensioni in Iran – stanno alimentando un senso diffuso di incertezza, vulnerabilità e impotenza. Non si tratta solo di scenari geopolitici lontani: questi conflitti entrano ogni giorno nelle nostre case attraverso le immagini, i racconti, i social media, e riattivano paure antiche, ferite mai del tutto rimarginate, ansie individuali e collettive.
“Viviamo immersi in una narrazione di emergenza permanente. Eventi drammatici come le guerre, anche se apparentemente lontani, generano un’onda lunga che colpisce le nostre comunità e lascia segni profondi. La nostra professione ha il compito – e la responsabilità – di leggere questi segnali e offrire risposte all’altezza delle sfide del presente. In questo scenario, l’OPL ha attivato il gruppo di lavoro Psicotraumatologia e Crisi Umanitarie, coordinato dal dott. Ivan Giacomel, con un focus specifico sui traumi complessi legati a guerre, migrazioni forzate e conflitti armati.
Gli obiettivi sono ambiziosi ma necessari: costruire un ‘Libro Bianco’ di buone pratiche psicologiche per contesti di guerra e post-conflitto; mappare le realtà operative lombarde che lavorano sul campo o in ambito di accoglienza; rafforzare la formazione degli psicologi dell’emergenza, promuovendo competenze aggiornate e capaci di rispondere in modo etico ed efficace a situazioni altamente traumatiche; contribuire a sviluppare una cultura professionale integrata, sistemica e sensibile alle crisi contemporanee”, osserva Valentina Di Mattei, presidente dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia.
“Occorre uno sguardo lucido e insieme compassionevole, conclude Di Mattei. Serve la capacità di collegare il singolo disagio alla sua cornice storica, sociale, culturale. È questa la direzione in cui vogliamo muoverci come Ordine: consapevoli che la salute psicologica non può più essere letta come un fatto individuale, ma come parte di un ecosistema complesso, vulnerabile e interdipendente.
Questo vale in particolare per i traumi, che spesso affondano le radici in esperienze collettive o sistemiche, e che richiedono risposte non solo cliniche ma anche sociali, educative e politiche. Riconoscerne la portata e costruire contesti di cura e prevenzione è una responsabilità che ci interpella tutti”.
Non dimentichiamo i siriani! La voce di AVSI al Parlamento Europeo

Martedì 24 giugno, AVSI ha partecipato alla tavola rotonda ‘Non dimentichiamo i siriani’, per discutere dei bisogni concreti e delle prospettive future per la Siria, promossa dall’europarlamentare e vice-presidente del gruppo del Partito Popolare Europeo Massimiliano Salini, con la partecipazione di Dubravka Šuica, Commissaria per il Mediterraneo.
Mentre l’attenzione internazionale si concentra sulla transizione politica in Siria, il popolo siriano chiede aiuto, oggi più che mai. Questo è un momento cruciale per il Paese e finalmente gli interventi emergenziali ancora necessari possono integrarsi e man mano cedere il passo ad azioni di ricostruzione.
La decisione dell’Unione Europea di non rinnovare le sanzioni in settori chiave dell’economia siriana, la risoluzione del Parlamento Europeo che sollecita un sostegno dell’UE per una transizione e una ricostruzione giuste, insieme alla IX Conferenza di Bruxelles ‘Al fianco della Siria: soddisfare i bisogni per una transizione di successo’, testimoniano un rinnovato impegno europeo nei confronti della Siria, inserito nel più ampio quadro del Nuovo Patto per il Mediterraneo.
In questo scenario, le voci siriane giocano un ruolo fondamentale nella messa a fuoco dei bisogni reali presenti ora e nella promozione di un dialogo tra diversi attori, a partire da esperienze concrete. La discussione si è concentrata sulle condizioni indispensabili per costruire il futuro della Siria: sicurezza, pace, accesso a educazione e salute per le generazioni cresciute in guerra, per gli sfollati interni e per i rifugiati che stanno tornando a casa; l’impatto delle sanzioni; la trasformazione dell’aiuto umanitario in sviluppo sostenibile; la partecipazione attiva della società civile e su come l’Unione Europea può agire per concorrere a rendere tutto questo possibile.
I lavori sono stati aperti da Dubravka Šuica, Commissaria per il Mediterraneo: “Don’t forget Syrians. Non potrei essere più d’accordo con il titolo scelto. Perché la Siria è un paese è molto importante, a maggior ragione in questo momento così complesso in Medio Oriente. L’Unione europea può giocare un ruolo chiave nell’assicurare la ricostruzione e la ripartenza dopo la guerra, che tenga conto delle tempistiche del nuovo governo, delle esigenze dei siriani e che includa tutte minoranze”.
Mentre il segretario generale dell’AVSI, Giampaolo Silvestri, ha sottolineato i bisogni dei siriani: “La situazione umanitaria è in costante peggioramento e su una popolazione totale di 23.700.000 persone, 16.500.000 necessitano aiuto umanitario. I siriani hanno bisogno in primis di cibo, educazione, cure sanitarie, lavoro, sicurezza. Sono necessari interventi integrati per riportare a scuola i bambini e ragazzi e per garantire loro insegnanti preparati e con salari giusti; i siriani hanno fame, hanno bisogno di cure, hanno bisogno di opportunità di lavoro e quindi di formazione al lavoro, e di attività generatrici di reddito. I siriani hanno bisogno di poter muoversi, di infrastrutture e di sicurezza che permetta anche a chi si è rifugiato all’estero di ritornare in sicurezza”.
Quindi ha chiesto cosa può fare l’Europa?
“Mentre le condizioni economiche del paese vanno peggiorando, ci sono due dati positivi ora da cui possiamo partire: il mancato rinnovo delle sanzioni, da parte dalle principali istituzioni internazionali, tra cui l’Unione Europea; la proposta della Commissaria Suica di stanziare 175 milioni di euro per sostenere la ripresa sociale ed economica della Siria. Sono due condizioni fondamentali per avviare la ricostruzione e lo sviluppo del Paese dopo anni di emergenza, è un momento favorevole per ribaltare le attuali condizioni; portare a una stabilizzazione del Paese; consentire l’emergere di uno Stato unito e responsabile; favorire il ritorno dei siriani fuggiti all’estero; contenere la continua fuga all’estero di chi cerca mezzi di sostentamento e sicurezza”.
Ed ha chiesto maggior attenzione per una ricostruzione del Paese: “Ma occorre vigilare, l’Europa può e deve farlo, per governare bene questi fermenti ed evitare un rischio che si mostra già: il rischio che la ricostruzione sia pensata e finanziata come ricostruzione di infrastrutture fisiche, economiche, finanziarie, che sia un grande giro di investimenti e di affari, e dimentichi o metta in secondo piano la ricostruzione del capitale più importante, il capitale umano.
Questa ricostruzione ‘materiale’ è necessaria, fondamentale, ma deve essere accompagnata e integrata alla ricostruzione del tessuto sociale: vanno rimesse al centro le persone con i loro bisogni autentici e integrali, soprattutto il bisogno di un presente e un futuro di pace”.
Inoltre ha citato una testimonianza particolare: “Vorrei condividere una testimonianza particolare. Nei giorni scorsi, nel sud del Libano, dove operiamo, abbiamo avuto modo di incontrare alcuni rifugiati siriani a Marj el Khok, area nei pressi del confine con Israele. Ebbene ci hanno raccontato che in molti dopo l’8 dicembre scorso, dopo la caduta di Assad, sono rientrati in Siria, ma poi sono ritornati in Libano: hanno preferito tornare a vivere su di una collina, vicino al confine israeliano, in una tenda, con acqua e luce incerta e guadagnando (quando un lavoro c’è) 1,5 usd l’ora le donne e 2,5 usd gli uomini. Una testimonianza che ci costringe a fare i conti con la realtà: bisogna dare ascolto alle persone, non si possono fare progetti a prescindere da loro. Bruxelles lo può fare”.
Ed ha concluso l’intervento con alcune raccomandazioni: “L’esperienza di questi anni ci ha insegnato che occorre partire da ciò che funziona, da progetti pilota e di successo, per avere impatto nella realtà. E qui vorrei evidenziare alcuni ambiti precisi ed esperienze connesse in cui ogni euro investito potrà divenire efficace:
Educazione. I nostri progetti mostrano che occorre agire su riabilitazione fisica delle strutture scolastiche, e insieme su formazione degli insegnanti e coinvolgimento delle famiglie, insieme istituzioni e osc. Partiamo da quanto funziona e allarghiamo il campo di azione: occorre proseguire con l’educazione formale, stabilire un dialogo sul rinnovamento dei curriculum con il governo.
Salute. scaliamo il modello “Ospedali aperti”, un progetto che ha permesso di formare personale e avere attrezzature adeguate in tre ospedali: l’Ospedale Italiano e quello Francese di Damasco e l’Ospedale St. Louis di Aleppo e 6 Centri Sanitari, chiamati Dispensari della speranza, nelle località di Kassab, Dwela, Kashkoul, Safita, Lattakya e Souedia. Questo è un esempio concreto di collaborazione tra strutture private che, adeguatamente sostenute, possono continuare a rispondere con servizi sanitari a un’amplissima domanda di aiuto e al contempo favorire una ricucitura del tessuto sociale siriano.
Lavoro. un progetto pilota ad Aleppo con un’importante fondazione italiana è stato pensato per riabilitare centri formativi per i giovani e procedere con formazione professionale volta all’inserimento nel mercato del lavoro. Questo attraverso una collaborazione tra imprese locali e internazionali, europee che possano trasferire il loro know how, rappresentando anche un pre-posizionamento strategico per il futuro delle imprese nel Paese e nella regione. Favorire l’autoimprenditorialità è la chiave per offrire ai giovani alternative concrete alla partenza o alla radicalizzazione.
Agricoltura. investiamo in agricoltura sostenibile per garantire sicurezza alimentare e autonomia economica alle famiglie favorendo il protagonismo dei beneficiari, lavorando sulla smart agriculture nelle aree rurali, che non possono essere lasciate indietro.
Tutela delle minoranze. Il tessuto sociale siriano è complesso, ma continuare a sostenere le minoranze è essenziale per verificare la loro accettazione nella società siriana che si trova in una nuova fase politica.
Approccio regionale. Nei paesi limitrofi in cui vivono siriani come la Giordania, il Libano e l’Iraq in cui lavoriamo, percepiamo la preoccupazione di un sempre più difficile rapporto tra ospiti e ospitanti. Si scatena una sorta di “guerra dei poveri”. I ritorni possono avvenire solo se creiamo condizioni di vivibilità, sicurezza, altrimenti come l’esempio di Marj el Khok, non rientreranno.
Approccio integrato e partecipativo. Dobbiamo coinvolgere la società civile siriana, le comunità locali, la diaspora e tutti gli attori della cooperazione internazionale. Le istituzioni devono farsi garanti di processi decisionali più veloci e meno burocratici, in questa fase è fondamentale sbloccare fondi per le organizzazioni locali, continuare a lavorare sulla revisione delle sanzioni, per sbloccare i settori chiave della ripresa e facilitare il ritorno volontario e sicuro dei rifugiati”.
(Foto: AVSI)
L’Ucraina nel racconto del presidente dell’Azione Cattolica di Bologna Daniele Magliozzi

Da Bologna e Vicenza i giovani dell’Azione Cattolica Italiana nei mesi scorsi hanno visitato i giovani ucraini per ‘coltivare la speranza’ in un tempo in cui la guerra continua incessante, colpendo soprattutto i civili, grazie ad un gemellaggio, nato 2 anni fa, fra l’Azione Cattolica di Bologna e la chiesa greco cattolica ucraina; al ritorno in Italia hanno raccontato la loro esperienza: “L’idea del viaggio nasce dall’Azione Cattolica di Bologna, che (su iniziativa della Presidenza nazionale dell’Azione Cattolica Italiana) in questi anni ha ospitato molte volte gruppi di giovani ucraini. Un viaggio che ha toccato le città di Lviv, Ternopil, Bucha e Kiev, ed abbracciato la Chiesa greco-cattolica ed i suoi giovani che in questi anni non hanno mai perso di vista il bene, pur sperimentando l’orrore della guerra”.
La delegazione dell’Azione Cattolica di Bologna e dell’Azione Cattolica nazionale era composta dal presidente diocesano felsineo, Daniele Magliozzi, dall’assistente diocesano, don Stefano Bendazzoli, da Nicola Fava e Andrea Alberoni, rappresentanti del settore giovani dell’Azione Cattolica diocesana, e da Emanuela Gitto, vice presidente nazionale del settore giovani dell’associazione. Quindi abbiamo chiesto al presidente dell’Azione Cattolica della diocesi di Bologna, Daniele Magliozzi, di raccontare alcune impressioni:
“Tutte le associazioni laicali giovanili ucraine, anche le più piccole, si sono attivate per creare dei luoghi accoglienti di cura per tutti, a partire dai più piccoli. La Chiesa locale di Ternopil è vivissima e super impegnata, come i suoi giovani. Tutti, sin dal primo momento, hanno supportato le attività legate all’emergenza. Alcuni dei loro soci sono al fronte, ci hanno raccontato, quasi tutti hanno parenti stretti o amici in combattimento.
Superata la fase critica dei primi mesi di guerra, oggi servono la propria comunità con rinnovato slancio: c’è chi promuove attività estive per i figli dei militari, chi si è mosso per raccogliere fondi per sostenere le necessità urgenti delle famiglie, e chi continua ad accompagnare le domande di vita dei giovani. A Kyiv abbiamo incontrato i giovani della diocesi accolti lo scorso anno dall’Ac di Bologna. Non senza emozione, ci troviamo nei sotterranei della Cattedrale della Risurrezione, per chi è in presenza. Molti altri infatti si collegano su zoom, perché nelle loro città sono in corso allarmi aerei, e per questo non ci hanno potuto raggiungere. Siamo stati anche al santuario di Zarvanitsya per pregare e affidare alla Madonna una preghiera per la pace”.
Cosa avete sperimentato a Kiev?
“Nella visita abbiamo potuto constatare di persona i danni che la guerra sta facendo e l’opera fondamentale e straordinaria che la Chiesa cattolica ucraina sta compiendo; un lavoro enorme di supporto del tessuto sociale colpito da lutti, sofferenze fisiche e psicologiche. Abbiamo visitato molte città piene di manifesti di ragazzi giovani caduti in guerra, abbiamo incontrato gruppi giovanili che, nonostante le ferite enormi nei loro occhi e nei loro volti, hanno l’entusiasmo, la voglia di ripartire e di sognare. Siamo andati a Buča vicino Kyiv e abbiamo potuto vedere gli orrori e i massacri della guerra.
Arrivati in Ucraina siamo stati accolti da p. Roman Demush vice presidente della Commissione patriarcale per gli affari giovanili della Chiesa Cattolica ucraina, che ci ha ringraziato per la visita: ‘Questa visita di solidarietà è una prova molto preziosa del sostegno degli ucraini, della nostra Chiesa e, in particolare, dei giovani.
Quando i giovani ucraini dei territori più colpiti dalle ostilità hanno partecipato alle varie iniziative del progetto ‘Gli abbracci guariscono’, gli amici italiani hanno assicurato loro che li avrebbero ricordati nelle preghiere e che sarebbero venuti in visita in Ucraina. Questa visita è stata un mantenere la promessa fatta. Durante i nostri incontri con vari gruppi di giovani, ho ringraziato i rappresentanti dell’Azione Cattolica per la loro coraggiosa testimonianza di vicinanza. Dopotutto, venire in Ucraina ora è una decisione coraggiosa che ha stupito i nostri giovani’. Abbiamo anche incontrato il nunzio apostolico, mons. Visvaldas Kulbokas”.
Cosa significa aver visitato Bucha?
“Il desiderio di ricostruire è forte, come ha raccontato Veronika Diakovych, la responsabile della ‘National Ukrainian Youth Association’ (Numo), che è in dialogo con le istituzioni per contribuire alla formulazione di una legge per le politiche giovanili. La loro missione è quella di creare ambienti sicuri, dove ragazzi e giovani possano crescere in serenità. Insieme a lei abbiamo visitato Bucha, la città martire nota per il massacro di civili durante l’occupazione russa.
Entrando, ci siamo subito accorti che i segni di distruzione stanno lasciando il posto a case di nuova costruzione. Qui ricostruire è segno di speranza, significa allontanare da sé le ferite di quei giorni di follia omicida. La Chiesa ortodossa al centro della città ha ancora segni dei colpi di mortaio e di mitragliatrice. Alle sue spalle, la stele con i nomi di tutti coloro che persero la vita nella strage e un elenco dei dispersi, come ci ha raccontato p. Roman: Bucha è diventata luogo di pellegrinaggio”.
In quale modo alimenterete questa amicizia con gli ucraini?
“Capire che siete qui mi dà la speranza che non siamo sole, ci ha detto una delle ragazze.
L’obiettivo che ci siamo dati come Azione Cattolica diocesana è quello di non dimenticarci mai di loro nella preghiera e di continuare in questo gemellaggio importante cercando di programmare alcune attività di accoglienza che possano aiutare i giovani ucraini a vivere più serenamente gli anni della loro vita”.
(Tratto da Aci Stampa)
Gaza è a corto di acqua: la carenza di carburante minaccia di paralizzare i rifornimenti nel sud del Paese

La crisi umanitaria già senza precedenti si sta ulteriormente aggravando. Una grave carenza di carburante in tutta la Striscia di Gaza, infatti, sta per paralizzare la fornitura di acqua potabile in diverse aree meridionali, soprattutto a Khan Younis, dove il 96% dell’acqua distribuita ogni giorno rischia di scomparire.
Secondo le valutazioni dell’equipe di Azione Contro la Fame sul campo, la distribuzione giornaliera di acqua da parte dei fornitori pubblici ha registrato un deficit di oltre il 60% e di quasi l’85% per i fornitori privati. Questa situazione rischia di compromettere criticamente l’accesso all’acqua potabile per almeno 78.000 persone nel sud del Paese nei prossimi giorni.
Dall’inizio della guerra, circa il 90% delle infrastrutture idriche e igienico-sanitarie di Gaza sono state danneggiate o distrutte, compresi oltre 230 pozzi d’acqua e parti essenziali della principale conduttura idrica di Gaza, la conduttura Mekerot. Gli impatti sugli impianti di desalinizzazione, sui pozzi d’acqua e i sistemi di pompaggio hanno più che dimezzato la produzione di acqua dei livelli pre-crisi, lasciando quasi la totalità della popolazione di Gaza senza accesso all’acqua potabile.
Se non sarà possibile accedere alle riserve di carburante, si stima che oltre 120 strutture municipali, tra cui pozzi e stazioni di pompaggio delle acque reflue, rimarranno senza carburante entro la fine di giugno, con un impatto evidente sulle modalità di sostegno ad 1.000.000 di persone in tutta Gaza.
Senza carburante, infatti, le infrastrutture umanitarie e la fornitura di servizi non potranno regolarmente funzionare e migliaia di persone non avranno accesso all’acqua potabile. Per esempio: gli impianti di trattamento dell’acqua hanno bisogno di 10.000 litri di carburante al giorno per funzionare; un’organizzazione umanitaria che distribuisce acqua ha bisogno di 260 litri di carburante al giorno; un’azienda locale che distribuisce acqua nell’area centrale e meridionale ha bisogno di oltre 440 litri al giorno per funzionare regolarmente; solo un accesso umanitario immediato e senza ostacoli (a tutti i valichi di Gaza, ai movimenti all’interno di Gaza, alle famiglie bisognose e alle scorte di carburante) eviterà una grave catastrofe.
Azione Contro la Fame gestisce più di 100 punti di rifornimento idrico a Gaza, Deir el Balah e nel sud, mentre tutti i punti nel nord di Gaza sono attualmente soggetti a ordini di spostamento e le restrizioni di movimento continuano a influenzare le operazioni. In più, Azione Contro la Fame continua a sostenere i centri sanitari e i campi per sfollati con attività di educazione alimentare, igienico-sanitaria, assistenza in denaro per le famiglie e fornitura di cibo in collaborazione con le cucine comunitarie.
Sebbene Azione Contro la Fame continui a rimuovere i rifiuti solidi, le squadre locali hanno osservato una netta diminuzione della quantità di rifiuti prodotti. Ciò è in parte dovuto al fatto che i rifiuti vengono spesso bruciati e usati come combustibile, una pratica pericolosa e tossica che testimonia la crescente inaccessibilità e scarsità di risorse nella Striscia.
Azione Contro la Fame è un’organizzazione umanitaria internazionale impegnata a garantire a ogni persona il diritto a una vita libera dalla fame. Specialisti da 46 anni, prevediamo fame e malnutrizione, ne curiamo gli effetti e ne preveniamo le cause. Siamo in prima linea in 57 paesi del mondo per salvare la vita dei bambini malnutriti e rafforzare la resilienza delle famiglie con cibo, acqua, salute e formazione. Guidiamo con determinazione la lotta globale contro la fame, introducendo innovazioni che promuovono il progresso, lavorando in collaborazione con le comunità locali e mobilitando persone e governi per realizzare un cambiamento sostenibile. Ogni anno sono aiutate 26.500.000 persone.
Italia-Egitto: 50 anni di cooperazione scientifica e tecnologica

Quest’anno ricorre il 50° anniversario della firma dell’accordo di cooperazione scientifica e tecnologica bilaterale tra l’Italia e la Repubblica Araba d’Egitto, la terza più grande economia del mondo arabo dopo l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti.
Per valorizzare questa intesa, firmata nel 1975 dal Governo Moro IV (1974-76), l’Ambasciata d’Italia al Cairo, in collaborazione con l’Autorità egiziana per il finanziamento della scienza, della tecnologia e dell’innovazione (STDF), ha organizzato sabato prossimo nella sua sede un workshop con l’obiettivo di presentare i progetti di collaborazione italo-egiziana in corso e che rientrano nel “Programma Scientifico Esecutivo 2024-2026” e illustrarne le opportunità di formazione e di sviluppo professionale.
L’accordo con l’Egitto che, a tutt’oggi, costituisce il terzo produttore di petrolio e di gas nell’ambito dei paesi del Nord Africa, è uno fra i tanti che vengono predisposti per favorire anche il dialogo tra il mondo accademico e l’industria espressione di contesti nazionali, talvolta molto diversi fra loro come nel caso in questione.
L’evento sarà anche l’occasione per discutere delle prospettive future di cooperazione scientifica e tecnologica tra Italia ed Egitto attraverso l’elaborazione dei prossimi Programmi Esecutivi triennali, previsti appunto dall’accordo del 1975, i quali sono pensati per finanziare progetti di ricerca in aree prioritarie individuate congiuntamente dalle parti.
Il programma del workshop che, come detto, avrà luogo per tutta la giornata del 7 luglio a El Cairo, inizierà alle ore 11.30 con i discorsi di apertura dell’Ambasciatore d’Italia in Egitto Michele Quaroni e del Ministro egiziano dell’Istruzione Superiore e della Ricerca Scientifica Mohamed Ayman Ashour.
Fra i relatori italiani ai due successivi seminari che si terranno alle ore 13 (dal titolo: Il Programma Scientifico Esecutivo 2024-2026) e alle 15.30 (Programmi di formazione internazionale, opportunità di carriera, dialogo accademico-industriale e trasferimenti di tecnologie) sono previsti il prof. Valter Sergo, Ordinario del dipartimento di Ingegneria ed Architettura dell’Università di Trieste e prorettore vicario del medesimo Ateneo, la prof.ssa Maria Serena Chiucchi, Direttore del Dipartimento di Management (DIMA) e Vice Rettore dell’Università Politecnica delle Marche, il prof. Marco Paolino, docente di Storia contemporanea all’Università Pegaso, il dott. Salvatore Di Bartolo, Vice Presidente dell’Africa Commercial and Business Development della LEONARDO-Space S.p.A., il dott. Leonello Fani dell’ENI-Egitto e, infine, in videocollegamento dall’Italia, la d.ssa Chiara Sarnataro, Responsabile ENI dei Rapporti con le istituzioni universitarie.
Concluderà i lavori prima della tavola rotonda finale il video messaggio della prof.ssa Maria Cristina Pedicchio, Presidente dell’Agenzia Italiana per la Promozione della Ricerca Europea (APRE), istituzione che sostiene e accompagna la partecipazione nazionale ai programmi dell’Unione europea e l’intervento illustrativo del Panel di missioni archeologiche in Egitto del prof. Giuseppe Cecere, docente di Lingua e Letteratura Araba presso il Dipartimento di Storia, Culture, Civiltà dell’Università Alma Mater di Bologna e Direttore del Centro Archeologico Italiano.
L’importanza dell’incontro del Cairo si rileva sia per il genere e l’entità dei programmi di collaborazione previsti nel triennio 2024-2026, che ammontano ad un importo di circa 1,2 milioni di euro, nei settori della gestione delle acque, dell’agricoltura e della tecnologia alimentare, della scienza dei materiali, dell’energia rinnovabile e sostenibile e del patrimonio culturale, sia per lo slancio che il Piano Mattei sta conferendo e apporterà ancor di più nei prossimi anni all’ambito della cooperazione bilaterale italo-egiziana all’interno dell’associazione dell’Egitto all’UE e del processo di internazionalizzazione della ricerca e dell’istruzione che il Paese di al-Sisi sta, pur fra difficoltà e margini di miglioramento dal punto di vista politico-istituzionale, meritoriamente attraversando.
Cecilia Brighi: nel Myanmar guerra contro l’umanità

Da alcuni mesi nel Myanmar la giunta militare ha intensificato gli attacchi aerei contro i civili, cercando di distruggere i centri abitati che non può controllare, poiché in questi 4 anni dal colpo di stato, decine di migliaia sono i soldati morti, feriti, che si sono arresi o che hanno disertato a favore delle forze della resistenza democratica, rendendo possibile la perdita di controllo di molte basi militari e della maggior parte del territorio, a favore delle forze di opposizione che, nonostante la totale assenza di sostegni internazionali, continuano a lottare per far vincere la ‘Rivoluzione di Primavera’ e costruire uno stato democratico e federale.
Con la strategia ‘brucia tutto, uccidi tutti’, oltre 100.000 abitazioni sono state distrutte dai raid della giunta, provocando 3.600.000 persone sfollate interne, 18.000.000 persone necessitano di assistenza umanitaria e 13.300.000 persone hanno gravi livelli di insicurezza alimentare; oltre 27.694 dissidenti sono stati arrestati, oltre 50.000 sono i morti, di cui oltre 8000 civili, secondo l’Acled che ha affermato come il panorama del conflitto in Myanmar sia ‘diventato il più frammentato al mondo con oltre 2600 nuovi attori non statali, che dal 2021 partecipano al conflitto rappresentando il 21% del totale dei gruppi armati non statali attivi in tutto il mondo’.
Inoltre nell’anno scolastico, iniziato in questo mese, molti bambini non potranno frequentare le lezioni, perché l’aiuto internazionale è inadeguato, come ha dichiarato Abdurahman Sharif, direttore umanitario senior di Save the Children International: “Nonostante l’enorme portata della crisi in Myanmar la risposta della comunità internazionale è stata tristemente inadeguata. In una crisi come quella che sta vivendo il Paese, i bambini hanno bisogno di aiuti salvavita e tra questi di istruzione, che è davvero un intervento salvavita”.
Per capire meglio la situazione nel Myanmar abbiamo chiesto delucidazioni alla segretaria generale dell’associazione ‘Italia-Birmania. Insieme’, Cecilia Brighi: “Dal 1^ febbraio 2021, la giunta militare birmana, tiene sotto assedio il paese. Il suo capo, Generale Min Aung Hlaing è accusato dalla Corte Penale Internazionale di crimini di guerra e contro l’umanità, mentre alla Corte Internazionale di Giustizia è pendente una richiesta di accusa per genocidio nei confronti della popolazione Rohingya. Il presidente Win Myint, la consigliera di Stato, Aung San Suu Kyi, i membri del governo precedente e decine di migliaia di democratici sono tutt’ora in carcere in condizioni di estrema precarietà, spesso vittime di torture e maltrattamenti.
La giunta militare ha così posto fine a un decennio di governo semi-democratico. Oltre 3.600.000 sono sfollati interni. L’’UNOCHA ha dichiarato che il numero di persone bisognose in Myanmar arriverà a oltre 20.000.000 entro l’anno. Ovvero più di un terzo della popolazione del Paese. Tra loro 6.300.000 bambini e 7.100.000 donne, che stanno pagando un prezzo straordinario visto che sono spesso vittime di stupri e violenze, usate come arma di guerra. Secondo l’UNDP quasi la metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà rispetto al 27% nel 2017. La giunta militare in realtà controlla solo un terzo del Paese, con le principali città: Yangon, Mandalay e la capitale, Naypyidaw. Nonostante questo, la giunta, non vuole cedere il proprio strapotere, e per potersi legittimare a livello internazionale, ha deciso di organizzare a fine 2025 elezioni politiche illegali, che potranno tenersi solo in alcune città ancora sotto il controllo militare”.
A ciò anche il terremoto non ha risparmiato la popolazione?
“Il devastante terremoto che ha colpito il cuore del paese ha causato 4.345 morti, 7,890 feriti e 210 dispersi. Oltre 300.000 edifici sono stati distrutti come pure quasi 5.000 km di strade e oltre 1.800 scuole, che hanno subito vari gradi di danni strutturali. Ma non basta. La giunta, anziché interrompere la sua brutalità di fronte a tanto immane dolore e disastro, ha continuato a bombardare i villaggi dell’area del sisma e nel resto del paese. . Centinaia di monasteri, pagode e moschee si sono letteralmente sbriciolati o gravemente danneggiati, come pure monumenti storici e culturali. Molti di questi monumenti sono sopravvissuti per centinaia di anni, ma nonostante le richieste, come per le moschee di Mandalay, nel corso degli anni non è stato fatto nessun intervento di messa in sicurezza sismica.
Il Paese non ha un sistema avanzato di allarme e di pianificazione sismica. Pochissimi sono gli strumenti scientifici operativi, tanto che le stime iniziali dello slittamento della faglia sono state calcolate utilizzando solo letture di sismografi lontani. La corruzione endemica ha poi autorizzato uno sviluppo urbanistico di cartone, concausa del crollo generalizzato di palazzi e case, compresa la nuova scintillante capitale, crollata come se fosse di burro, perchè pur essendo stata inaugurata nel 2005 è stata costruita senza rispettare alcuna misura antisismica pur sapendo che era al centro di una faglia importantissima. Non solo la giunta bombarda ma vi sono evidenze certe di distrazione degli aiuti umanitari. La corruzione che domina nell’esercito ha fatto il resto”.
Per quale motivo la situazione del Myanmar è invisibile in Occidente?
“Il paese è al centro di straordinari interessi geopolitici da parte di Cina e Russia che intendono controllare il Mar delle Andamane garantendo la sicurezza dei loro traffici commerciali e il controllo militare con un occhio all’Oceano Pacifico che è dietro l’angolo. L’invasione dell’Ucraina da parte di Putin e il conflitto mediorientale ha distolto l’attenzione globale e se si guarda all’Europa si è ritenuto di non voler disturbare la Cina, nei confronti della quale ci sono enormi interessi commerciali.
Se si aggiunge il fatto che Cina e Russia da sempre hanno bloccato l’adozione di misure vincolanti al Consiglio di Sicurezza Onu, il risultato è una paralisi e una indifferenza molto pericolosa, soprattutto perché ormai i tempi stringono e se la giunta come ha dichiarato intende indire le elezioni per il prossimo dicembre, pur in una parte residuale del paese, il risultato sarà che i paesi ASEAN e Cina, Russia e India le ratificheranno, garantendo una nuova legittimità ad una giunta in abiti civili. Oggi e non chi sa quando, l’Europa e i paesi democratici dovrebbero svegliarsi e sostenere con risorse economiche robuste l’opposizione democratica di quel paese.
Già da gennaio 2026 sarà troppo tardi. In Italia ricordiamo sempre la lotta della resistenza al nazifascismo, e il coraggio dei nostri partigiani. In Myanmar oggi vi è una situazione simile, una lotta non violenta del Movimento di Disobbedienza Civile e una resistenza armata non solo degli eserciti degli stati etnici ma anche degli oltre 100.000 giovani e ragazze che fanno parte delle People Defence Forces, coordinati dal Governo di Unità Nazionale che, senza aiuti internazionali, sta cercando di sconfiggere la giunta e costruire un paese democratico e federale, nel rispetto delle differenze etniche, religiose e con un ruolo forte delle donne”.
Quali problemi sta causando alla popolazione il congelamento degli aiuti imposto dal presidente statunitense?
“Se per esempio si guarda alla Birmania, nel 2024 USAID aveva destinato al paese sotto una delle più violente dittature al mondo circa 238.000.000 di dollari. Il 47% per aiuti umanitari. Immediati sono stati gli impatti negativi. Gli ospedali che servivano oltre 100.000 persone nei campi profughi in Thailandia hanno sospeso a tempo indeterminato il lavoro. Joe Freeman, ricercatore di Amnesty International per la Birmania ha dichiarato: ‘La decisione ha bruscamente chiuso gli ospedali nei campi profughi, ha messo a rischio di deportazione i difensori dei diritti umani in fuga e ha messo a repentaglio i programmi che aiutano le persone a prevenire le atrocità della giunta, a sopravvivere nelle zone di conflitto e a ricostruire le proprie vite in mezzo alle continue ondate di violenza’.
Il blocco dei fondi a sostegno dei progetti per la promozione della democrazia, pari a 39 milioni ha immediatamente prodotto danni spesso irrecuperabili. Moltissime piccole associazioni locali che beneficiavano dei contributi USA per e la tutela dei dissidenti, il sostegno ai rifugiati interni, l’assistenza sanitaria dei rifugiati interni, sono state costrette a chiudere. I media e le agenzie di stampa indipendenti birmane (dal colpo di stato ad oggi oltre 200 giornalisti sono stati arrestati) sono a rischio di sopravvivenza. Molti media democratici che si erano organizzati al confine tra Thailandia e Birmania sono stati costretti a tagliare personale e stipendi. Ko Nyan Lin Htet, caporedattore della Mekong News Agency, ha affermato che la macchina della propaganda del regime e i media statali cinesi ne trarranno vantaggio; la Cina è sempre in osservazione. Se i media indipendenti si restringono, la propaganda sostenuta dalla Cina si espanderà.
Allora per quale motivo la Cina appoggia la dittatura del Myanmar?
“Come ho accennato prima, la Cina ha straordinari interessi geopolitici, economici e commerciali. Il controllo del Mar delle Andamane, di fronte all’india è un primo motivo. La possibilità di trasportare le merci e il gas verso la provincia dello Yunnan che non ha sbocco al mare è un secondo motivo per il quale ha costruito un gasdotto e oleodotto che attraversa la Birmania. Ora sta realizzando una ferrovia una mega zona industriale e un porto profondo nello Stato Rakhine che dovrebbe avere la possibilità di dual use. Moltissimi sono gli investimenti infrastrutturali e industriali in corso.
Se si guarda alle terre rare, la Birmania è uno dei più grandi produttori di alcune terre rare pesanti la cui estrazione nel nord del paese è stata fino ad oggi in mano alla Cina. Ovviamente il primo problema per Pechino è garantire la stabilità del paese che è alle sue porte. Per questo sta attuando la politica dei due forni. Da una parte, quella prevalente, sostiene la giunta, ma aiuta anche alcuni gruppi etnici che vivono alla sua frontiera e oggi sostiene le elezioni illegali per rafforzare la giunta, visto che i paesi democratici sono deboli, divisi e scarsamente interessati ad avere una Birmania democratica”.
Quale spazio occupa la questione dei diritti umani nel Myanmar in Occidente?
“La questione dei diritti umani in generale gode di una attenzione altalenante e spesso legata ad approcci ideologici e vecchi come un vecchio approccio antimperialista legato agli USA che oggi bisogna ammettere con Trump alla Casa Bianca ha motivo per ritornare sulla cresta dell’onda, mentre poco si guarda alle aggressive politiche predatorie di Cina e Russia soprattutto in Africa, ma non solo”.
E’ possibile assicurare alla giustizia i responsabili dei crimini contro l’umanità?
“Come si è visto recentemente anche chi è accusato di genocidio o di crimini di guerra ottiene spesso un salvacondotto per viaggiare indisturbato, anzi viene rispedito a casa tranquillamente. Bisognerebbe lavorare per una revisione e rafforzamento del sistema multilaterale e per un maggiore riconoscimento internazionale e un migliore funzionamento della Corte penale internazionale e della Corte internazionale di giustizia. Stiamo invece scivolando verso quello che Cina e Russia vogliono: Un sistema multipolare, dominato dalle autocrazie e da paesi vassalli, che ha l’obiettivo di sgretolare le regole internazionali, soprattutto quelle legate ai diritti umani.
Ci dovremmo tutti svegliare prima che sia troppo tardi.
I diritti conquistati non sono inviolabili e soprattutto non sono garantiti per sempre. Quindi bisognerebbe mettere al centro delle politiche europee la dimensione sociale, dei diritti umani e dello sviluppo sostenibile. Maggiore coesione europea, voto a maggioranza, saranno centrali, senza dimenticare però che serve anche una politica di sicurezza e difesa comune. Comune e non moltiplicata per 27. Solo una Europa più forte e coesa sarà in grado di tutelare quanto abbiamo conquistato sino ad oggi sul terreno dei diritti umani”.
(Tratto da Aci Stampa)
Le due (silenziate) sentenze della Corte Suprema USA in materia di libertà educativa e difesa dei minori

Delle tre sentenze che la Corte Suprema degli Stati Uniti, la più alta autorità giudiziaria della magistratura federale, ha emesso venerdì scorso, i media hanno valorizzato quasi esclusivamente quella in tema d’immigrazione. Il focus informativo è stato quindi la possibilità riacquisita dal Presidente Trump di ridimensionare il principio dello ius soli, che ha consentito finora ai migranti negli USA di ottenere automaticamente la cittadinanza per il solo fatto di far nascere i propri figli nel territorio americano. Le altre due sentenze, in materia di libertà educativa e di difesa dei minori, ridisegnano invece molto di più l’orizzonte legale riconoscendo finalmente ai genitori il loro ruolo indispensabile all’interno della società e della famiglia.
Con la prima delle due pronunce in questione, quella in materia di libertà educativa, la Corte presieduta dal giudice John Glover Roberts Jr. (nella foto), nominato nel 2005 dal Presidente George W. Bush, ha riconosciuto ai genitori che erano ricorsi contro il Consiglio scolastico della Contea di Montgomery nel Maryland, il diritto di esentare i propri figli dalla frequentazione di lezioni che includono contenuti ispirati all’ideologia gender o comunque rientranti nell’agenda LGBTQ+.
Si tratta dello storico caso “Mahmoud v. Taylor”, deciso lo scorso anno in termini esattamente opposti dai tribunali inferiori del Maryland, stabilendo che le scuole pubbliche potevano imporre ai genitori la frequentazione dei loro figli a tali lezioni in quanto “patrimonio di tutti” e necessari presidi contro le discriminazioni degli omosessuali, transessuali, etc. In realtà i genitori del Maryland che avevano fatto causa agli istituti scolastici volevano semplicemente far escludere, in nome del Primo Emendamento della Costituzione sulla libertà di religione, i loro figli di 6/10 anni dalle classi elementari nelle quali in alcune materie venivano letti libri di fiabe con personaggi LGBTQ+.
Certo, la sentenza della Corte Suprema pur avendo ristabilito un diritto educativo fondamentale in capo a madri e padri (e nonni!), lo ha fatto in termini specifici e sulla base di presupposti non generali. Nel senso che la possibilità di tenere fuori i propri figli dalle lezioni-indottrinamento gender è riconosciuta solo per una “obiezione di coscienza religiosa”, restando fuori il diritto di tutti quei genitori che, per motivi personali, di ragione o di semplice buon senso, vorranno difendere la sana ed equilibrata crescita dei propri bambini. Siamo solo all’inizio ma comunque il solco è tracciato.
Tanto più che il giudice Samuel Alito, scrivendo la sentenza in nome della maggioranza dei 6 giudici che (contro tre) ha deliberato in senso favorevole ai genitori cristiani e musulmani, ha riaffermato un principio costituzionale di libertà che rimarrà nella storia del XXI secolo della Corte Suprema. Ovvero quello per cui la negazione della possibilità dei genitori di esentare i propri figli da lezioni scolastiche contrarie al loro modo di pensare e vivere impone un «onere incostituzionale sull’esercizio della religione», compromettendo il diritto-dovere dei genitori di proteggere lo sviluppo religioso dei loro bambini.
La decisione, invocata dall’ampia galassia di associazioni familiari e di gruppi ed esponenti che da decenni danno vita al movimento per i diritti dei genitori, è suscettibile di avere implicazioni di vasta portata in tutte le scuole nordamericane. Da ora in poi i consigli scolastici non potranno più imporre l’ideologia gender, altrimenti rischieranno di trovarsi le classi mezze vuole e, alla lunga, il crollo delle iscrizioni e la prospettiva della chiusura.
La seconda delle sentenze alla quale i grandi media hanno messo il silenziatore riguarda la difesa dei minori dalla pornografia. La Corte Suprema ha infatti confermato una legge dello Stato del Texas che impone ai siti web di contenuti pornografici di verificare l’età dei propri visitatori, rendendo così reale ed effettivo il divieto di farvi accedere bambini e ragazzi.
Con un voto anche in questo caso a maggioranza (6 contro 3), la Supreme Court of the United States (abbreviato “SCOTUS”) ha respinto la violazione al Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America, quello che garantisce in sintesi la “terzietà” della legge rispetto al culto della religione ed al suo libero esercizio, sostenendo che la protezione dei minori dai contenuti sessualmente espliciti online giustifica pienamente l’onere imposto di verifica dell’età. La decisione ripristina il valore pubblico e costituzionale della protezione della salute psichica e sessuale dei bambini rispetto alla presunta libertà di espressione asserita dai produttori e divulgatori di contenuti porno, in un’epoca in cui i contenuti digitali sono sempre più accessibili.
Attentato di Damasco: il papa esprime vicinanza

“Domenica scorsa è stato compiuto un vile attentato terroristico contro la comunità greco-ortodossa nella chiesa di Mar Elias a Damasco. Affidiamo le vittime alla misericordia di Dio ed eleviamo le nostre preghiere per i feriti e i familiari. Ai cristiani del Medio Oriente dico: vi sono vicino! Tutta la Chiesa vi è vicina! Questo tragico avvenimento richiama la profonda fragilità che ancora segna la Siria, dopo anni di conflitti e di instabilità. E’ quindi fondamentale che la comunità internazionale non distolga lo sguardo da questo Paese, ma continui a offrirgli sostegno attraverso gesti di solidarietà e con un rinnovato impegno per la pace e la riconciliazione”.
A conclusione dell’udienza generale di mercoledì scorso papa Francesco Leone XIV, a conclusione dell’udienza generale, ha espresso preoccupazione per la situazione tra Iran e Israele, auspicando che ci si adoperi per seguire ‘la via del dialogo, della diplomazia, della pace’, con l’invito ad ascoltare il profeta Isaia: “Si ascolti questa voce, che viene dall’Altissimo! Si curino le lacerazioni provocate dalle sanguinose azioni degli ultimi giorni. Si respinga ogni logica di prepotenza e di vendetta e si scelga con determinazione la via del dialogo, della diplomazia e della pace”.
Infatti domenica 22 giugno a Damasco è stata compiuta una strage durante una messa celebrata nella chiesa greco-ortodossa di Mar Elias. La chiesa colpita è uno dei luoghi di culto più frequentati della comunità greco-ortodossa di Damasco. E l’attentato rappresenta uno dei più sanguinosi contro un luogo di culto cristiano negli ultimi anni, riaprendo ferite di una comunità che ha già sofferto persecuzioni, emigrazione forzata e isolamento sociale nel contesto della guerra civile iniziata nel 2011.
In una dichiarazione di lunedì 23 giugno, l’Assemblea degli Ordinari cattolici della Terra Santa, con sede a Gerusalemme, ha espresso “profondo sgomento e profonda riprovazione» per quanto accaduto. Non esiste alcuna giustificazione per il massacro di innocenti, tanto meno in un luogo sacro”.
I vescovi cattolici hanno denunciato l’attentato come ‘un crimine contro l’umanità e un peccato davanti a Dio’: “Non esiste alcuna giustificazione (religiosa, morale o razionale) per il massacro di innocenti, tanto meno in uno spazio sacro. Una tale violenza, sotto il pretesto della fede, è una grave perversione di tutto ciò che è sacro. E’ un atto di indicibile malvagità, un crimine contro l’umanità e un peccato davanti a Dio”.
Richiamando il Documento sulla fraternità umana, firmato ad Abu Dhabi nel 2019 l’Assemblea dei vescovi cattolici hanno sottolineato il dovere di protezione dei luoghi di culto: “La protezione dei luoghi di culto (sinagoghe, chiese e moschee) è un dovere garantito dalle religioni, dai valori umani, dalle leggi e dagli accordi internazionali. Ogni tentativo di attaccare i luoghi di culto o di minacciarli con assalti violenti, attentati o distruzioni, è una deviazione dagli insegnamenti delle religioni”.
Questa non è fede: “Condanniamo fermamente questo atto barbarico e rifiutiamo le ideologie che cercano di giustificare la violenza in nome della religione. Estendiamo le nostre più sentite condoglianze al Patriarcato greco-ortodosso di Antiochia e di tutto l’Oriente ed esprimiamo la nostra solidarietà a tutte le comunità cristiane della Siria, che hanno sopportato anni di persecuzioni e sfollamenti e che ora si trovano ad affrontare una nuova paura e insicurezza”.
Ed hanno chiesto ‘misure’ per tutelare la libertà religiosa dei cristiani: “Chiediamo alle autorità siriane di prendere tutte le misure necessarie per garantire la protezione e la libertà dei cristiani in tutto il Paese, affinché possano vivere in sicurezza e contribuire pienamente alla vita della loro patria”.
Per questo Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) ha attivato una raccolta fondi per fornire aiuti di emergenza alle vittime e sostenere le comunità cristiane duramente colpite. Infatti ACS è impegnata da anni in Siria con numerosi progetti a favore delle comunità cristiane di varie confessioni, in particolare con il Patriarcato greco-ortodosso di Antiochia, suo storico partner. La Fondazione supporta la ricostruzione dei luoghi di culto, le attività pastorali e interventi umanitari urgenti, con l’obiettivo di garantire la presenza cristiana in un Paese segnato da anni di conflitto.
In questa drammatica fase, ACS rinnova il proprio appello alle autorità competenti affinché intensifichino gli sforzi per proteggere tutte le comunità religiose in Siria. La Fondazione si unisce inoltre all’invito urgente di Sua Beatitudine il Patriarca Giovanni X a tutelare i luoghi sacri e a porre fine a ogni forma di violenza.
(Foto: Vatican News)
In Afghanistan riaperte due unità sanitarie per bambini malnutriti

Chiuse per mesi a causa dei tagli USA, le strutture di Kabul e Badakhshan tornano operative in un contesto sanitario al collasso: nel 2025 previsti 3.500.000 di casi di malnutrizione infantile. Le due cliniche pediatriche di Azione Contro la Fame a Kabul e Badakhshan – fondamentali per la sopravvivenza di centinaia di bambini malnutriti – sono tornate operative dopo mesi di chiusura. I tagli ai finanziamenti statunitensi ne avevano imposto lo stop. Ora, grazie al sostegno dell’Unione Europea, le unità hanno riaperto in un momento in cui l’Afghanistan affronta una delle peggiori crisi sanitarie della sua storia recente.
Le due Unità di Alimentazione Terapeutica (UTF) erano state costrette a sospendere le attività, lasciando centinaia di bambini senza accesso alle cure salvavita di cui necessitavano. I bambini malnutriti che ricevono cure presso le nostre unità presentano un rischio di morte 12 volte superiore a quello dei bambini sani.
La chiusura aveva interrotto un servizio essenziale. Solo nel 2024, più di 1.000 bambini avevano ricevuto cure nutrizionali in queste strutture. In Afghanistan, dove il sistema sanitario è al collasso, l’accesso a trattamenti specialistici è estremamente difficile da reperire.
Da pochi giorni le unità di Kabul e Badakhshan sono state riaperte grazie al sostegno dell’UE, che giunge in un momento critico: si stima che la malnutrizione infantile in Afghanistan aumenterà del 20% nel 2025.
“L’Unione Europea ha sostenuto Azione Contro la Fame con cinque unità di alimentazione terapeutica (TFU) in tutto il Paese”, spiega Cobi Rietveld, direttore nazionale di ACF in Afghanistan. “A partire da questo mese, l’UE è intervenuta anche per sostenere le due unità di alimentazione terapeutica che erano state chiuse a causa dei tagli ai finanziamenti statunitensi. Grazie a questo sostegno, siamo in grado di salvare le vite dei bambini in condizioni critiche. Inoltre, il nostro personale sanitario dedicato alle TFU, che altrimenti rischierebbe la disoccupazione nell’attuale difficile situazione economica, può continuare a eseguire la propria professione”.
La perdita di questi posti di lavoro avrebbe colpito duramente le donne, che rappresentano il 68% del personale medico nelle strutture di Azione Contro la Fame. Wazhma N., che si è unita due anni fa al team sanitario presso l’unità di Kabul come infermiera, racconta quanto sia cruciale la struttura per il personale medico femminile: “Per molte di noi, non si tratta di un semplice posto di lavoro: è l’unico luogo in cui noi donne possiamo prestare servizio come professioniste mediche. La sua riapertura porta un immenso sollievo non solo a noi, ma anche ai pazienti che hanno un disperato bisogno di cure. Nutriamo la speranza che questa ancora di salvezza non sia temporanea, ma rimanga aperta per sempre”.
Nonostante l’intervento dell’UE permetta di garantire la continuità del servizio per i prossimi mesi, il contesto rimane critico. Dopo la sospensione dei finanziamenti statunitensi, in tutto il Paese sono stati chiusi circa 400 siti nutrizionali e oltre 400 strutture sanitarie. Le agenzie internazionali avvertono: nei prossimi mesi si rischia una grave carenza di farmaci essenziali, poiché le scorte stanno progressivamente esaurendosi.
L’Afghanistan è oggi tra i 15 Paesi con i più alti tassi di malnutrizione acuta: nel 2025, il numero di bambini sotto i cinque anni che necessitano di trattamenti nutrizionali è salito a 3,5 milioni, rispetto ai 3 milioni dell’anno precedente**. Il bisogno di aiuti umanitari resta urgente e crescente.
Donazioni per individui e famiglie
Bonifico bancario
Codice fiscale 97690300153
IBAN: IT98 W030 6909 6061 0000 0103 078
CCP: 1021764194
online attraverso il sito www.azionecontrolafame.it
bollettino postale
Conto: 1021764194
Causale: Donazione spontanea
Intestato a: Azione Contro la Fame
Donazione per aziende
Per definire possibili forme di collaborazione è possibile contattare Licia Casamassima all’indirizzo di posta elettronica lcasamassima@azionecontrolafame.it.
Agevolazioni fiscali: tutte le donazioni effettuate ad Azione Contro la Fame godono dei benefici fiscali previsti per le erogazioni liberali in favore delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS), delle organizzazioni di volontariato e delle associazioni di promozione sociale. Nel mese di marzo ti invieremo il riepilogo delle donazioni da te effettuate nell’anno fiscale precedente.
Azione Contro la Fame è un’organizzazione umanitaria internazionale impegnata a garantire a ogni persona il diritto a una vita libera dalla fame. Specialisti da 46 anni, prevediamo fame e malnutrizione, ne curiamo gli effetti e ne preveniamo le cause. Siamo in prima linea in 56 paesi del mondo per salvare la vita dei bambini malnutriti e rafforzare la resilienza delle famiglie con cibo, acqua, salute e formazione. Guidiamo con determinazione la lotta globale contro la fame, introducendo innovazioni che promuovono il progresso, lavorando in collaborazione con le comunità locali e mobilitando persone e governi per realizzare un cambiamento sostenibile. Ogni anno aiutiamo 21.000.000 persone.