Card. Pizzaballa: pace è il linguaggio per la Terra Santa

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Ieri è stato inaugurato il nuovo anno accademico dell’Università Cattolica a Roma con la prolusione del patriarca di Gerusalemme dei Latini, card. Pierbattista Pizzaballa, che ha tracciato alcune proposte per superare l’impasse in Terra Santa, dove dal 7 ottobre oltre alla guerra è avvenuto anche ‘uno spartiacque nel dialogo interreligioso, che non potrà essere più come prima, almeno tra cristiani, musulmani ed ebrei’:

“Dal 7 ottobre a oggi, siamo stati presi nel vortice degli eventi e abbiamo visto morte, distruzione, ferite, violenza, rancore, desiderio di vendetta, pur cercando, con l’aiuto di Dio, di essere ponte, di tentare una mediazione, di tenere appese a un filo l’ultima speranza di trattative…

Certamente quanto avvenuto mi ha legato ancor più al gregge di cui sono indegnamente pastore, nonostante le tante fatiche e tensioni che spingono da una parte e dall’altra, anche all’interno della nostra Chiesa. La nostra terra è ancora ferita e sanguinante, la nostra gente in preda al terrore, al panico, all’incertezza del futuro. Molti hanno di fronte a sé solo macerie”.

Il cardinale non ha fatto l’analisi politica della situazione, ma ha raccontato l’impatto della guerra sulla popolazione: “Ciascuno oggi è chiuso nel proprio contesto di vita, all’interno delle rispettive comunità di appartenenza, chiuso nel proprio dolore, spesso anche arrabbiato, deluso, senza fiducia.

E’ chiaro a tutti, dunque, che si dovrà ricominciare daccapo per ricostruire, con pazienza, tenendo conto degli errori del passato, delle tante e troppe ferite del passato e del presente, che forse non erano state prese sufficiente considerazione, e che i tempi di una guarigione, saranno necessariamente lunghi, avranno bisogno di percorsi complessi, ma che saranno comunque decisamente necessari.

Si dovrà prendere atto che le parole giustizia, verità, riconciliazione e perdono non potranno essere (come forse è stato fino ad oggi) solo auspici, ma dovranno trovare contesti realmente vissuti, con una interpretazione condivisa, e tornare ad essere espressioni credibili e desiderate, senza le quali sarà difficile pensare ad un futuro diverso. Si dovrà credere che, nonostante tutto, sia possibile avere un futuro diverso da quanto guerra e violenza prospettano”.

Il cuore è pieno di odio che non permette di vedere il dolore dell’altro: “E’ forse questa una delle difficoltà, di cui ho parlato spesso, di questo nostro tempo, almeno in Terra Santa. Il proprio cuore è talmente pieno, invaso, lacerato dal dolore, da non riuscire a trovare spazio per il dolo-re dell’altro. Ciascuno vede se stesso come vittima, la sola vittima, di questa guerra atroce.

Vuole e chiede empatia per la propria situazione, e spesso percepisce nell’esprimere sentimenti di comprensione verso altri da sé, un tradimento o almeno un mancato ascolto della propria sofferenza. Una situazione in tutti i sensi lacerante. Forse sarebbe meglio il silenzio dinanzi a tutto questo. Eppure, se il silenzio è quanto mai opportuno, oggi mi si chiede una parola che non posso esimermi dal pronunciare”.

E’ in questa situazione che la Chiesa deve essere profetica: “Se la Chiesa perde tale dimensione, parla semplicemente di ciò che la gente vuol sentire, che è un rischio ricorrente, soprattutto in Medio Oriente, il rischio di seguire la corrente, anziché orientarla. Al contrario, ciò che è peculiare dei profeti biblici è che spiazzano sempre le attese del popolo.

Quando esso è tranquillo e sereno, adagiato nelle sue borghesi sicurezze, il profeta scardina i suoi schemi e lo chiama a conversione, minacciando future sventure se questa non avvenga. Quando, tuttavia, il popolo è in esilio, senza speranza, e le sue città ridotte a un cumulo di rovine, il profeta stranamente lo spiazza ancora: gli dona consolazione e speranza”.

Però anche il profeta vive il dramma del proprio popolo: “Certo, il profeta è pur sempre lacerato interiormente: come uomo di Dio deve annunciare la sua Parola, come uomo tra gli uomini e donne della sua generazione subisce la stessa sorte del popolo e deve vedere sangue e distruzione.

La vita del profeta contiene sempre un elemento drammatico: appartenendo tutto a Dio e tutto al popolo, egli è dilaniato dall’appartenenza ad entrambi, spesso solo, chiamato ad essere voce che grida fuori dal coro: voce di minaccia e di consolazione, che da una parte ferisce e dall’altra consola”.

Ecco il motivo per cui i drammi vanno riconciliati: “Le ferite non vanno eliminate, ma trasfigurate, e ciò non vale solo a livello di fede, ma anche a livello umano. Non si tratta quindi di dimenticare, come se nulla fosse accaduto.

Per guardare al futuro con speranza e in pace, è necessario non dimenticare, non attendere cioè che il problema si risolva da sé, ma fare un percorso di purificazione della memoria, cioè del ricordo del male compiuto e/o subìto, rivederne l’interpretazione alla luce della coscienza attuale, assumerlo per poi superarlo.

E’ necessaria una volontà precisa, un’azione positiva di incontro con il male, ma senza rimanere fermi al male subito e /o commesso, senza che questo resti l’unica e l’ultima parola pronunciata. Le ferite, se non sono curate, assunte, elaborate, condivise, continueranno a produrre dolore anche dopo anni o addirittura secoli. Creano, infatti, un atteggiamento di vittimismo e di rabbia, che rendono difficile, se non impossibile, la riconciliazione”.

Ciò è possibile se si adotta un ‘altro’ linguaggio: “In particolare, quanti hanno una responsabilità pubblica hanno il dovere di orientare le loro rispettive comunità con un linguaggio appropriato, che da un lato sia capace di esprimere i sentimenti e la percezione comune, ma dall’altro sia anche capace di orientare il pensiero e, se necessario, limitare la deriva di odio e sfiducia che spesso nei media dilagano con facilità, con parole che sono co-me frecce che colpiscono al cuore. Non si deve inseguire la corrente, insomma, ma saperla orientare, accettando anche la responsabilità dell’incomprensione e della solitudine”.

Occorre riscoprire un linguaggio liberato dall’odio: “E’ necessario, in breve, di preservare il senso di umanità, innanzitutto nel proprio linguaggio, in privato e in pubblico nell’uso dei social media, che hanno un effetto dirompente sull’opinione pubblica, e che allo stesso tempo non consentono di dare profondità e prospettive a situazioni così complesse come quella che stiamo vivendo. Il linguaggio crea opinione, pensiero, può alimentare speranza, ma anche odio. Ed è quello che almeno nelle prime fasi della guerra è purtroppo accaduto.

Siamo tutti stati invasi da filmati, messaggi, emails, e molto altro che hanno alimentato enorme-mente il sentimento di odio. Abbiamo ascoltato e continuiamo a sentire affermazioni durissime, anche da personaggi con alte responsabilità civili, che negano fatti gravissimi, o che incitano alla distruzione, o che gioiscono pubblicamente alla notizia di morti e violenza. Tutto ciò ha un impatto enorme sull’opinione pubblica. L’umanità, cioè la necessità di rimanere umani, di conservare il senso di rispetto per la dignità della persona, del suo diritto alla vita e alla giustizia, inizia con il linguaggio”.

E’ una guerra che rischia di minare anche il dialogo interreligioso: “Questa guerra è anche uno spartiacque nel dialogo interreligioso, che non potrà essere più come prima, almeno tra cristiani, musulmani ed ebrei. Il mondo ebraico non si è sentito sostenuto da parte dei cristiani e lo ha espresso in maniera chiara. I cristiani a loro volta, divisi come sempre su tutto, incapaci di una parola comune, si sono distinti se non divisi sul sostegno ad una parte o all’altra, oppure incerti e disorientati. I musulmani si sentono attaccati, e ritenuti conniventi con gli eccidi commessi il 7 ottobre… insomma dopo anni di dialogo interreligioso, ci siamo ritrovati a non intenderci l’un l’altro. E’ per me, personalmente, un grande dolore, ma anche una grande lezione”.

Invece le fedi sono fondamentali per una convivenza pacifica: “Partendo da questa esperienza, dovremo ripartire, coscienti che le religioni hanno un ruolo centrale anche nell’orientare, e che il dialogo tra noi dovrà forse fare un passaggio importante, e partire dalle attuali in-comprensioni, dalle nostre differenze, dalle nostre ferite. Non potrà essere più un dialogo solo tra appartenenti alla cultura occidentale, come è stato fino ad oggi, ma dovrà tenere in conto le varie sensibilità, i vari approcci culturali non solo europei, ma innanzitutto locali. E’ molto più difficile, ma da lì si dovrà ripartire”.

Per questo è necessario diventare ‘artigiani’ di pace: “La pace che dobbiamo invocare e costruire come Chiesa è la pace di Gerusalemme, che è lo shalom universale offerto da Cristo risorto nel Cenacolo. Una pace questa che, lungi dall’essere soppressione delle differenze e delle minoranze, tregua o mero patto di non-belligeranza (che sarebbe pur sempre un auspicabile traguardo nelle attuali circostanze!), divenga accoglienza e apertura sincera dell’altro, volontà ‘ostinata’ di ascolto e di dialogo, in cui la paura e il sospetto cedano il passo alla conoscenza, all’incontro e alla fiducia, ove le differenze siano ricchezza e non pretesto di conflitto”.

Questo è il ‘ruolo’ della Chiesa: “In un ambiente segnato da lacerazioni e contrasti, possiamo diventa-re, come Chiesa, luogo ed esperienza della pace possibile. Se abbiamo poca possibilità di sedere ai tavoli internazionali, abbiamo però il dovere di edificare comunità riconciliate e ospitali, aperte e disponibili all’incontro, autentici spazi di fraternità condivisa e di dialogo sincero. Le nostre pur legittime distinzioni, se non vanno negate o confuse, non devono mai separarci o opporci.

Non si tratta di favorire un ecumenismo di facciata o di comodo, ma di dare forza a quell’ecumenismo vissuto, fatto d’incontri, di collaborazione, di reciproco sostegno e di sofferenza condivisa, cui con tanta convinzione ci invita Papa Francesco. Vi è un ecumenismo della sofferenza. Ed è solo partire dalla comunione nella sofferenza che possiamo capire l’altro e andare incontro a lui”.

(Foto: Università Cattolica)

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