Dialogo tra cattolici ed ebrei: Dio realizza la promessa
La Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei a Roma si svolge oggi nel Museo Ebraico all’interno del Tempio Maggiore in un dialogo tra il rabbino capo della comunità ebraica di Roma, rav Riccardo Di Segni, e il card. José Tolentino de Mendonça, archivista e bibliotecario della Santa Sede.
La Giornata del dialogo tra cattolici ed ebrei ha radici nelle indicazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II e nel Decreto Nostra Aetate. In questo spirito, la Conferenza episcopale italiana nel settembre 1989, volle istituirla dandole cadenza annuale il 17 gennaio, alla vigilia della ‘Settimana di preghiere per l’unità dei cristiani’. Intendeva così rimarcare la radice primigenia della loro stessa identità.
Scopo della Giornata del dialogo tra cattolici ed ebrei è quello di sensibilizzare i cristiani verso il rispetto, il dialogo e la conoscenza della tradizione ebraica, aprendoli ai doni e alle suggestioni del popolo dell’ ‘Alleanza mai revocata’, in un incontro fraterno che arricchisca anche i fratelli e sorelle ebrei di una conoscenza nuova dei cattolici e della loro vita.
Nel messaggio si evidenza il valore della Giornata: “La Giornata è una significativa opportunità per sottolineare il vincolo particolare che lega Chiesa e Israele e per guardare alle comunità ebraiche attuali con la certezza che ‘Dio continua ad operare nel popolo dell’Antica Alleanza e fa nascere tesori di saggezza che scaturiscono dal suo incontro con la Parola divina’.
Negli ultimi anni i temi del dialogo sono stati dedicati alle Dieci parole e alle Meghilloth; ora, alla luce della pandemia e delle sue conseguenze, desideriamo intraprendere un cammino sulla Profezia. Proponiamo la lettura di un passo del profeta Geremia che ci pare particolarmente in sintonia con il tempo complesso che stiamo attraversando”.
Il brano di riflessione è preso dal libro di Geremia, in cui il profeta scrive una lettera agli esiliati: “In questa lettera Geremia reinterpreta l’esilio vissuto dal popolo quasi si trattasse di un ‘nuovo esodo’: Israele si trova in mezzo ai pagani, ben distante dalla ‘terra della promessa’, senza il tempio, eppure proprio in quella situazione drammatica ritrova il senso autentico della propria vocazione…
Alle indicazioni su come vivere il tempo dell’esilio è legata una promessa per il futuro: chi sceglie di conservare tutto e resta attaccato a un passato glorioso, rischia di perdere anche se stesso, mentre chi è disponibile ad abbandonare ogni falsa sicurezza riavrà i suoi giorni”.
Nel messaggio si evidenzia il rischio di perdere la speranza: “La comunità in esilio aveva una duplice tentazione: perdere ogni speranza e costruire una comunità chiusa, distaccata e ripiegata su se stessa. Nella pandemia, come credenti, abbiamo avuto le stesse tentazioni: perdere la speranza e chiuderci in comunità sempre più autoreferenziali.
Le stesse tentazioni le proviamo di fronte alla situazione di esculturazione del fenomeno religioso (o, per lo meno, del cristianesimo): rischiamo di perdere la speranza e di creare comunità sempre più chiuse in se stesse”.
La sfida proposta dal profeta Geremia è quella generativa: “Come cristiani e come ebrei possiamo aiutarci ad affrontare tale sfida, perché la Promessa resta costante nella storia. Il Signore lavora per ‘rigenerare’, per ‘far ricominciare’. Egli è fedele e non abbandona il suo popolo. Ogni crisi è una buona occasione, un tempo favorevole da ‘non sprecare’: essere seminatori di speranza”.
Per questo gli ‘esiliati’ sono una risorsa: “Gli esiliati si danno da fare per il paese, lavorano, investono energie per la terra, persino pregano il Signore per il benessere di quel paese. Questo ci ricorda che ‘colui che viene da fuori’, l’ospite e lo straniero, è una risorsa per il paese; che lo straniero è una benedizione e che l’ospitalità, così centrale nelle tradizioni ebraica e cristiana, può essere lo ‘stile’ con cui oggi i credenti stanno nella storia e animano la società”.