Eraldo Affinati racconta ai ragazzi Gesù

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“In una fortezza nell’alto dei cieli gli angeli della Guardia Reale, guerrieri dello spirito, soldati azzurri con giubbe e calzari, fanatici delle missioni esclusive, sono riuniti, in attesa del prossimo incarico. La chiamata arriva, il prescelto è Gabriele, che dovrà far brillare nuovamente l’alleanza tra Dio e gli uomini, annunciando l’arrivo del Figlio”.

Comincia così ‘Il Vangelo degli Angeli’, il nuovo romanzo di Eraldo Affinati, uno dei principali autori italiani, che sin dall’esordio tolstojano, ha scelto di credere nell’educazione dedicando le proprie energie agli alunni più difficili e ai minorenni non accompagnati, i giovani migranti da lui spesso definiti ‘i ragazzi di Barbiana di oggi’. In questo libro di piena maturità espressiva invita a tornare a Gesù, maestro e profeta, con occhi nuovi.

Il viaggio dello scrittore parte dalle fonti ed ad esse resta fedele, pur trasfigurandole in un’opera assolutamente originale dove si troverà, sullo sfondo dello straordinario paesaggio palestinese, tutti gli episodi del testo sacro, dalla nascita alla crocefissione e oltre ancora, filtrati dalla sensibilità dell’autore, al tempo stesso affascinato e coinvolto.

A lui chiediamo di spiegarci cosa racconta il libro: “E’ una riscrittura, creativa ma fedele, del Vangelo di Luca e Giovanni. Ho utilizzato anche qualche lettera di Paolo e gli Atti degli Apostoli.

Pur restando legato alle fonti, ho rivissuto l’intera vicenda evangelica in modo personale, interrogandomi sul senso profondo del cristianesimo. I miei angeli vanno e vengono dalle loro stazioni orbitali recando messaggi e proteggendo l’umanità del Nazareno, anche se non possono intervenire troppo perché, se lo facessero, minerebbero il libero arbitrio”.

In quale modo vedere Gesù oggi?

“Io l’ho visto come un grande maestro, ma non ho disertato la dimensione metafisica che Egli incarna. Al contrario, ho immaginato i Quartieri Generali del Cosmo nell’andirivieni dei messaggeri fra terra e cielo. Sono rimasto affascinato dalla dimensione quotidiana di Gesù, per questo l’ho ritratto nei suoi momenti più intimi, quando parla coi bambini, i malati, le persone semplici.

In particolare ho messo in risalto la qualità della relazione umana a cui sempre punta il Nazareno: ogni persona che incontra per lui diventa essenziale. Nel mio libro si intrecciano tre dimensioni: narrativa, speculativa e lirica”.

Cosa significa avere fede?

“Secondo me significa scegliere. Senza illudersi di poter uscire dall’inquietudine. Prendere posizione anche di fronte al male umano, mettendo in conto la dialettica della Storia. Andare in campo aperto. Assumersi la giusta dose di rischio. ‘Credere in ciò che si spera’ scrisse Dante Alighieri. Cercare nella forza della domanda (di senso) la vera risposta.

Nel ripercorrere il Vangelo passo passo, ho ritrovato tutti i miei temi, gli stessi presenti nei precedenti libri da me pubblicati: perché la giustizia umana non ci basta? Cosa vuol dire esercitare la responsabilità nei confronti degli altri? Perché le parole non possono essere vane e devono corrispondere alla nostra vita?”

Nell’incontro conclusivo del Meeting dell’amicizia tra i popoli, svoltosi ad agosto a Rimini, aveva affermato che ‘non si può parlare se non hai una vita dietro, una vita fatta di scelte’: come educare i giovani alla libertà?

“Bisogna fargli capire che per essere liberi dobbiamo accettare i nostri limiti, non scavalcarli. Sembra paradossale, ma se non facessimo così, alla lunga rischieremmo il delirio, lo smarrimento.

Questo concetto l’educatore non può proclamarlo in teoria, deve viverlo: solo allora i giovani lo seguiranno. Oggi più che mai i ragazzi hanno bisogno di modelli coi quali confrontarsi, anche in modo dialettico, superando quella che io definisco la ‘finzione pedagogica’: far finta di ascoltare ciò che ti dice l’adulto senza lasciarsi coinvolgere davvero”.

In  quale modo oggi la scuola può essere credibile?

“La scuola, in questa fase storica, ha di fronte due compiti ineludibili: da una parte è chiamata a ripristinare le gerarchie di valore all’interno della Rete, mostrando agli studenti i sentieri luminosi offerti dalla tradizione culturale; dall’altra deve rifondare l’esperienza della realtà, che non può essere soltanto virtuale, anche perché un conto è l’informazione, un altro conto è la conoscenza. La prima può essere rapida, la seconda implica dedizione e fatica”.

Perché ha fondato la scuola ‘Penny Wirton’?

“Per insegnare, gratuitamente, la lingua italiana agli immigrati. La nostra scuola, il cui nome riprende il titolo di un romanzo di Silvio D’Arzo, è concepita in un rapporto uno a uno fra docente e studente. Senza voti, senza classi, senza burocrazia. Accogliamo tutti, dal minorenne non accompagnato alle ragazze madri.

Imparare la lingua vuol dire cominciare ad inserirsi nella società. Nata a Roma tredici anni fa, la Penny Wirton conta oggi una cinquantina di associazioni, diffuse in ogni parte d’Italia, che si richiamano al suo stile educativo. Abbiamo centinaia di volontari, giovani e anziani: persone di grande cuore, ma anche assai motivate, provenienti da esperienze diverse.

Utilizziamo un manuale, composto da me e mia moglie, Anna Luce Lenzi: ‘Italiani anche noi’ (Erickson). Chi viene da noi trova soprattutto il sorriso, oltre alla competenza. Ricevere la gratitudine di chi arriva da lontano, reduce da guerra e povertà, lo consideriamo il compenso più bello”.

(Tratto da Aci Stampa)

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