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Pedagogia cristiana e nuove correnti pedagogiche: un dialogo fecondo per l’educazione contemporanea
La pedagogia cristiana, lungi dall’essere un sistema chiuso e dogmatico, si presenta oggi come una proposta educativa capace di dialogare con le nuove correnti pedagogiche, offrendo una visione integrale dell’essere umano. In un tempo segnato da pluralismo culturale, crisi valoriale e frammentazione educativa, essa si distingue per la sua capacità di coniugare verità e libertà, trascendenza e immanenza, interiorità e relazione.
Il cuore della pedagogia cristiana è l’idea che ogni persona sia unica, irripetibile e chiamata a realizzare pienamente la propria vocazione. Questo principio si traduce in un metodo educativo centrato sull’incontro, sull’ascolto e sulla valorizzazione della libertà. Come afferma Luigi Giussani, ‘educare è introdurre alla realtà totale’, ovvero accompagnare il soggetto nella scoperta del senso profondo dell’esistenza.
Le nuove correnti pedagogiche, come la pedagogia umanistica, la pedagogia dell’ascolto, la pedagogia narrativa e la pedagogia esperienziale, condividono molte delle istanze fondamentali della pedagogia cristiana. Esse pongono al centro la persona, promuovono l’empatia, la riflessione critica, la partecipazione attiva e il dialogo. Tuttavia, la pedagogia cristiana aggiunge una dimensione ulteriore: quella spirituale, che apre alla trascendenza e alla ricerca del senso ultimo della vita.
In questo contesto, l’IRC (Insegnamento della Religione Cattolica) si configura come spazio privilegiato per l’attuazione della pedagogia cristiana. Non si tratta di una catechesi scolastica, ma di una disciplina che, nel rispetto della libertà di coscienza, offre strumenti per comprendere il cristianesimo come chiave di lettura della cultura europea e come proposta di senso per l’esistenza.
L’IRC favorisce il dialogo interculturale e interreligioso, promuove la riflessione critica e stimola la ricerca personale. Come sottolinea il Documento CEI del 2019, “l’IRC contribuisce alla formazione integrale della persona, offrendo contenuti e metodi che aiutano a cogliere il nesso tra fede e vita, tra religione e cultura”.
Proposta didattica concreta. Si propone un percorso didattico interdisciplinare dal titolo ‘Il viaggio dell’uomo: tra libertà, responsabilità e trascendenza’, rivolto agli studenti della scuola secondaria di secondo grado. Il progetto prevede: Lettura e analisi di testi filosofici e religiosi (es. Guardini, Giussani, Lévinas); Laboratori narrativi in cui gli studenti raccontano esperienze significative;
Attività di role-playing su dilemmi etici e scelte di vita; Incontri con testimoni (educatori, volontari, religiosi); Produzione finale di un elaborato multimediale che esprima il percorso personale di ricerca del senso.
Questo approccio consente di integrare le istanze della pedagogia cristiana con le metodologie attive e partecipative delle nuove correnti, favorendo una formazione autentica e profonda..
Bibliografia essenziale
- Giussani, L., Il rischio educativo, Milano, Rizzoli, 1995
- Guardini, R., La coscienza cristiana, Brescia, Morcelliana, 2001
-CEI, Insegnare Religione Cattolica oggi, Roma, 2019
– Lévinas, E., Totalità e infinito, Milano, Jaca Book, 1980 –
– Lorizio, G., Pedagogia cristiana e nuove sfide educative, Roma, Città Nuova, 2020
Il prof. Savagnone racconta lo stupore dell’essere di Tommaso d’Aquino
“Il significato essenziale della cultura consiste, secondo queste parole di san Tommaso d’Aquino (‘Genus humanum arte et ratione vivit’), nel fatto che essa è una caratteristica della vita umana come tale. L’uomo vive di una vita veramente umana grazie alla cultura. La vita umana è cultura nel senso anche che l’uomo si distingue e si differenzia attraverso essa da tutto ciò che esiste per altra parte nel mondo visibile: l’uomo non può essere fuori della cultura. La cultura è un modo specifico dell’esistere e dell’essere dell’uomo. L’uomo vive sempre secondo una cultura che gli è propria, e che, a sua volta, crea fra gli uomini un legame che pure è loro proprio, determinando il carattere inter-umano e sociale dell’esistenza umana. Nell’unità della cultura, come modo proprio dell’esistenza umana, si radica nello stesso tempo la pluralità delle culture in seno alle quali l’uomo vive. In questa pluralità, L’uomo si sviluppa senza perdere tuttavia il contatto essenziale con l’unità della cultura in quanto dimensione fondamentale ed essenziale della sua esistenza e del suo essere”.
Iniziamo con questo discorso pronunciato da papa san Giovanni Paolo II alla sede Unesco di Parigi lunedì 2 giugno 1980 per presentare il libro di Giuseppe Savagnone (‘Lo stupore dell’essere. Il pensiero alternativo di Tommaso d’Aquino’), con cui invita il lettore a percorrere un cammino simile al suo, quando incontrò il pensiero dell’Aquinate in gioventù, trovandovi ‘una chiave di lettura della realtà alternativa alle mode culturali che oggi dominano la scena’, e un vivaio inesauribile di itinerari.
Il libro si compone di dodici conversazioni che concernono le questioni massime di una filosofia che si volge a tutta la realtà, senza operare esclusioni preliminari, tra cui frequente quella relativa alla trascendenza: un rapporto positivo tra ragione e fede, la scoperta dell’essere e delle sue leggi, l’esistenza di Dio, la creazione, l’identità della persona umana, il fascino del bene e le domande sull’amore. Nel percorso dell’autore si avvertono la meraviglia, la gratitudine, la responsabilità dinanzi all’essere e alla vita di cui fu testimone l’Aquinate.
Al prof. Giuseppe Savagnone chiediamo di spiegarci il titolo del libro, ‘lo stupore dell’essere’: “In questo tempo in cui la fretta e il consumismo rendono sempre più difficile fermarsi e ‘vedere’ davvero ciò che sta ogni giorno sotto il nostro sguardo distratto, il pensiero di Tommaso d’Aquino è un forte richiamo a riscoprire la meraviglia di fronte al miracolo e al mistero che ogni più piccola realtà costituisce. E lo stupore è anche all’origine della ricerca. Questo vale già per i singoli aspetti della realtà che, se li guadiamo con occhi nuovi (come Adamo all’alba della creazione) non appaiono affatto scontati.
Si racconta che Newton arrivò a scoprire la legge di gravitazione universale colpito dalla vista di una mela che cadeva dal ramo. Tommaso è rimasto stupito non dal modo in cui una cosa o l’altra sono, ma dal loro stesso essere. La domanda che egli si è posto, perciò, non è rivolta a spiegare i singoli fenomeni, ma il fatto stesso che ci sia qualcosa e non il nulla. Tutta la sua filosofia è una celebrazione dell’emergere dell’essere dal non essere, non una volta per tutte, in un lontanissimo inizio del cosmo, ma in ogni momento. E’ questo il prodigio a cui egli rinvia la nostra attenzione”.
Quale è stato il suo messaggio ‘alternativo’?
“Nella società della tecnica, dove gli strumenti sono ormai i veri protagonisti, siamo abituati a considerare tutto sotto il profilo dell’utile. Perfino le persone che incontriamo spesso sono importanti per noi nella misura in cui possiamo trarne dei vantaggi o del piacere. Mezzi, non fini. In realtà ciò che è utile non è, per definizione, importante, proprio perché finalizzato a qualcos’altro e non valido di per sé. La Gioconda, come ogni grande opera d’arte, non serve a niente. Ma anche un essere umano non può essere ridotto solo ai servizi che possiamo ricavarne.
Ciò ha una ricaduta esistenziale molto forte. Se cerchiamo qualcosa perché utile a qualcos’altro, e questo qualcos’altro in funzione di altro ancora, e così via, senza che ci sia nulla che vale di per sé, che senso avrebbe tutto questo?
La filosofia di Tommaso mette in primo piano, insieme all’essere, la verità, il bene ed il bello. Ciò che è importante e per cui vale la pena di vivere. Ma, se si adottasse questa prospettiva, tutte le logiche oggi dominanti nella nostra società sarebbero sovvertite. Il primato del profitto, il consumismo selvaggio, la riduzione delle persone ad ingranaggi della macchina sociale, si rivelerebbero per quello che sono: perversioni che, invece di renderci felici, sottopongono la nostra esistenza al continuo stress di una corsa senza meta”.
Ricerca intellettuale e ricerca spirituale: quale nesso esiste?
“Tommaso ha innanzi tutto testimoniato nella sua persona che un’autentica vita intellettuale deve radicarsi in una profonda esperienza spirituale di amore per il vero, per il bene, per il bello. Altrimenti c’è il rischio del narcisismo e della rincorsa al consenso, a cui tanti intellettuali del nostro tempo sono purtroppo esposti”.
Quindi lo stupore apre alla verità?
“Nella cultura contemporanea è frequente sentir ripetere che la verità non esiste, perché ognuno ha la sua. E si pretende di fondare su questo la reciproca tolleranza e il dialogo. Ma se davvero fosse così, non avrebbero più senso la ricerca (per definizione rivolta a cercare ciò che non si ha) ed il confronto con gli altri, perché ognuno dovrebbe già essere pago della verità che possiede e che nessuno, in nome della propria, avrebbe il diritto di criticare.
Lo stupore dell’essere implica la consapevolezza che la verità supera le nostre soggettive opinioni e che queste vanno sempre rimesse in discussione. Dove per verità non si intende altro che l’adeguazione alla realtà, che, nella sua inafferrabile ricchezza, costituisce la misura con cui incessantemente bisogna confrontarsi”.
Allora, in quale modo l’aquinate riesce a ‘tenere insieme’ fede e ragione?
“Spesso si sente affermare che chi ha fede non è più libero di fare una ricerca razionale obiettiva. Se per ‘obiettivo’ si intende privo di condizionamenti, ciò sarebbe assolutamente vero. Solo che allora nessuno potrebbe essere ‘obiettivo’, perché non esiste essere umano che possa guardare alla realtà senza risentire del contesto esistenziale, spirituale, culturale in cui si trova. L’ermeneutica oggi ha evidenziato che non esiste ‘uno sguardo da nessun luogo’. C’è di più.
Le grandi filosofi e scienziati hanno svolto le loro ricerche in base a un’intuizione, anteriore a tutte le possibili dimostrazioni, che li ha spinti a cercarne la verifica con argomentazioni razionali. Per Tommaso la fede è il ‘luogo’ da cui parte per guardare i diversi aspetti della realtà, ma elaborando, a partire da essa, un discorso razionale dunque obiettivo, e di valere, perciò, anche per il non credente”.
Perché ancora oggi si studia il suo pensiero?
“Può sembrare strano che un autore di ottocento anni fa abbia ancora oggi qualcosa di interessante da dirci e valga perciò la pena di scrivere o leggere un libro sul suo pensiero. Ma, alla luce di quanto abbiamo detto, dovrebbe essere chiaro che alcune scoperte del passato possono essere attualissime, proprio nella loro apparente inattualità, perché ci rimettono in discussione e possono essere il punto di partenza per progettare alternative agli schemi mentali oggi dominanti. Il pensiero di Tommaso che fu un rivoluzionario, rispetto alle certezze consolidate del suo tempo, può oggi insegnarci ad esserlo anche noi nel nostro”.
(Foto: Marcianumpress)
Papa Leone XIV invita ad ascoltare la Parola di Dio
“E’ sempre più preoccupante e dolorosa la situazione nella Striscia di Gaza. Rinnovo il mio appello accorato a consentire l’ingresso di dignitosi aiuti umanitari e a porre fine alle ostilità, il cui prezzo straziante è pagato dai bambini, dagli anziani, dalle persone malate”: al termine della sua prima udienza generale papa Leone XIV ha lanciato un appello per la situazione che sta vivendo la popolazione di Gaza, territorio divenuto ormai da un anno e mezzo sinonimo di morte, violenza, distruzione, fame, enclave attualmente assediata e devastata dai ‘Carri di Gedeone’, la massiccia operazione militare israeliana in corso.
Mentre nella prima udienza generale in piazza san Pietro, papa Leone XIV ha proseguito il ciclo giubilare iniziato da papa Francesco su ‘Gesù Cristo Nostra Speranza’, sviluppando la catechesi sulla parabola del seminatore: “Continuiamo oggi a meditare sulle parabole di Gesù, che ci aiutano a ritrovare la speranza, perché ci mostrano come Dio opera nella storia. Oggi vorrei fermarmi su una parabola un po’ particolare, perché si tratta di una specie di introduzione a tutte le parabole. Mi riferisco a quella del seminatore. In un certo senso, in questo racconto possiamo riconoscere il modo di comunicare di Gesù, che ha tanto da insegnarci per l’annuncio del Vangelo oggi”.
Quindi ha spiegato che la parabola è una ‘piccola’ storia’ presa dalla realtà: “Ogni parabola racconta una storia che è presa dalla vita di tutti i giorni, eppure vuole dirci qualcosa in più, ci rimanda a un significato più profondo. La parabola fa nascere in noi delle domande, ci invita a non fermarci all’apparenza. Davanti alla storia che viene raccontata o all’immagine che mi viene consegnata, posso chiedermi: dove sono io in questa storia? Cosa dice questa immagine alla mia vita? Il termine parabola viene infatti dal verbo greco paraballein, che vuol dire gettare innanzi. La parabola mi getta davanti una parola che mi provoca e mi spinge a interrogarmi”.
Infatti questa parabola introduce alla dinamica dell’opera della Parola di Dio nella vita personale: “La parabola del seminatore parla proprio della dinamica della parola di Dio e degli effetti che essa produce. Infatti, ogni parola del Vangelo è come un seme che viene gettato nel terreno della nostra vita. Molte volte Gesù utilizza l’immagine del seme, con diversi significati. Nel capitolo 13 del Vangelo di Matteo, la parabola del seminatore introduce una serie di altre piccole parabole, alcune delle quali parlano proprio di ciò che avviene nel terreno: il grano e la zizzania, il granellino di senape, il tesoro nascosto nel campo. Cos’è dunque questo terreno? E’ il nostro cuore, ma è anche il mondo, la comunità, la Chiesa. La parola di Dio, infatti, feconda e provoca ogni realtà”.
Papa Leone XIV ha, perciò, invitato ad ascoltare la Parola di Dio: “All’inizio, vediamo Gesù che esce di casa e intorno a Lui si raduna una grande folla. La sua parola affascina e incuriosisce. Tra la gente ci sono ovviamente tante situazioni differenti. La parola di Gesù è per tutti, ma opera in ciascuno in modo diverso. Questo contesto ci permette di capire meglio il senso della parabola. Un seminatore, alquanto originale, esce a seminare, ma non si preoccupa di dove cade il seme. Getta i semi anche là dove è improbabile che portino frutto: sulla strada, tra i sassi, in mezzo ai rovi. Questo atteggiamento stupisce chi ascolta e induce a domandarsi: come mai?”
Quindi la Parola che Dio offre a tutti senza nessun calcolo di ‘guadagno’: “Noi siamo abituati a calcolare le cose (e a volte è necessario), ma questo non vale nell’amore! Il modo in cui questo seminatore ‘sprecone’ getta il seme è un’immagine del modo in cui Dio ci ama. E’ vero infatti che il destino del seme dipende anche dal modo in cui il terreno lo accoglie e dalla situazione in cui si trova, ma anzitutto in questa parabola Gesù ci dice che Dio getta il seme della sua parola su ogni tipo di terreno, cioè in qualunque nostra situazione: a volte siamo più superficiali e distratti, a volte ci lasciamo prendere dall’entusiasmo, a volte siamo oppressi dalle preoccupazioni della vita, ma ci sono anche i momenti in cui siamo disponibili e accoglienti”.
In questo modo Dio mostra la propria misericordia: “Dio è fiducioso e spera che prima o poi il seme fiorisca. Egli ci ama così: non aspetta che diventiamo il terreno migliore, ci dona sempre generosamente la sua parola. Forse proprio vedendo che Lui si fida di noi, nascerà in noi il desiderio di essere un terreno migliore. Questa è la speranza, fondata sulla roccia della generosità e della misericordia di Dio”.
Dio ha offerto Gesù come Parola, che muore per donare vita: “Raccontando il modo in cui il seme porta frutto, Gesù sta parlando anche della sua vita. Gesù è la Parola, è il Seme. E il seme, per portare frutto, deve morire. Allora, questa parabola ci dice che Dio è pronto a ‘sprecare’ per noi e che Gesù è disposto a morire per trasformare la nostra vita”.
Papa Leone XIV, quindi, ha offerto l’immagine di un dipinto del pittore fiammingo Van Gogh, che offre speranza: “Ho in mente quel bellissimo dipinto di Van Gogh: ‘Il seminatore al tramonto’. Quell’immagine del seminatore sotto il sole cocente mi parla anche della fatica del contadino. E mi colpisce che, alle spalle del seminatore, Van Gogh ha rappresentato il grano già maturo. Mi sembra proprio un’immagine di speranza: in un modo o nell’altro, il seme ha portato frutto.
Non sappiamo bene come, ma è così. Al centro della scena, però, non c’è il seminatore, che sta di lato, ma tutto il dipinto è dominato dall’immagine del sole, forse per ricordarci che è Dio a muovere la storia, anche se talvolta ci sembra assente o distante. E’ il sole che scalda le zolle della terra e fa maturare il seme”.
Ed ha concluso la prima udienza con l’invito a meditare i frutti che la Parola di Dio offre a ciascuno: “Cari fratelli e sorelle, in quale situazione della vita oggi la parola di Dio ci sta raggiungendo? Chiediamo al Signore la grazia di accogliere sempre questo seme che è la sua parola. E se ci accorgessimo di non essere un terreno fecondo, non scoraggiamoci, ma chiediamo a Lui di lavorarci ancora per farci diventare un terreno migliore”.
(Foto: Santa Sede)
Mons. Palmieri: nella realtà si vive la speranza
“Carissima! Carissimo! Se hai aperto questa lettera, forse ti ha spinto la curiosità. Il tema della speranza ti ha provocato? Oppure ti interessa sapere cosa viene proposto dalla nostra Diocesi per l’anno giubilare? O ancora niente di tutto questo… Con questo piccolo testo che hai tra le mani vorrei condividere con te qualche riflessione sulla speranza, a partire da un’affermazione dell’apostolo Paolo che mi sembra molto bella: la speranza non delude, perché l’amore ci è stato riversato nel cuore per mezzo dello Spirito Santo. In questo versetto è sintetizzato tutto ciò che troverai in questa lettera”.
Così inizia la lettera pastorale di mons. Gianpiero Palmieri, arcivescovo di Ascoli Piceno e vescovo di San Benedetto del Tronto-Ripatransone-Montalto, che ha voluto riflettere sui ‘pellegrini di speranza’: “Non ti scrivo solo a titolo personale, ma come guida di una comunità cristiana (per questo userò il ‘noi’), di cui ti senti parte, oppure da cui hai preso le distanze benché cristiana/o, oppure a cui sei totalmente estranea/o”.
Nella lettera pastorale il vescovo ha invitato a vivere nella realtà: “Se ci guardiamo attorno con attenzione notiamo che troppe persone preferiscono vivere nell’illusione piuttosto che abitare la realtà. Ci si rifugia nel virtuale, possibilmente in ciò che ci consegna un po’ di leggerezza e di distrazione, come se ci si dovesse allontanare da qualcosa che pesa sul cuore e che non riusciamo ad affrontare.
Le relazioni sui social, ad esempio, sono molto più gestibili rispetto a quelle in carne ed ossa e meno inquietanti, specie quando l’altro mi interpella. Rimanere soli con i propri pensieri fa emergere le domande ‘vere’, quelle che provocano, e non siamo più preparati a questi momenti di meditazione sul reale… se in fondo vivo abbastanza bene così, perché crearmi problemi dove non ci sono?”
Tale fuga dalla realtà induce al ‘male di vivere’: “In realtà tante persone percepiscono nel loro mondo interiore una sorta di male di vivere. Se si prova a confrontarsi su questo, molti accennano a stanchezza o spossatezza, ma in realtà si ha l’impressione che questo atteggiamento abbia radici più profonde. Non si tratta di stanchezza legata a reali problemi di salute, né della ‘stanchezza buona’ di chi ha affrontato una fatica fisica o psichica temporanea, quella che si supera con una notte di riposo e un po’ di tranquillità”.
Tale ‘male di vivere’ dipende dalla mancanza di speranza: “Parliamo di un’altra stanchezza, più sottile e persistente. Qui abbiamo a che fare con un deficit di speranza. Si guarda al futuro e lo si vede così incerto e problematico, da non avere voglia di affrontarlo. Quando questa percezione della realtà diventa radicata e pervasiva, ecco che si manifesta in modo inquietante, specie tra i ragazzi e le ragazze: mancanza di entusiasmo e di prospettive per la propria esistenza, assenza di interesse per il mondo in cui siamo inseriti, una certa tendenza al vittimismo, alla fuga o alla violenza gratuita… sono tutte facce della stessa medaglia”.
Mancanza di speranza che impatta sulla natalità: “Ad un primo sguardo le cause di questo calo di speranza ci appaiono quelle di cui spesso si parla quando ci incontriamo: l’improvviso mutare degli equilibri politici mondiali, le guerre che ci sgomentano e che sono alle nostre porte, il cambiamento climatico che sembra portare irreversibilmente ad un pianeta non più vivibile, la crisi economica che fa perdere potere di acquisto ai nostri soldi e che crea sempre più disuguaglianze, una convivenza sociale sempre più segnata da competizione, mancanza di rispetto delle regole, violenza e manipolazione degli altri invece di gentilezza e rispetto.
Tutto vero. Queste situazioni ci spaventano e minano la nostra fiducia nel futuro. Ma in realtà c’è anche un’altra radice di cui tener conto. Abbiamo smesso di credere davvero a quelle ‘narrazioni’ che ci permettevano di avere speranza, che ne erano a fondamento”.
Ricordando ‘La vita è bella’ di Roberto Benigni mons. Palmieri ha sottolineato l’importanza della famiglia per formare l’attitudine alla speranza: “E’ proprio importante ciò che viviamo in famiglia perché si formi in noi l’attitudine a sperare! Qualche tempo fa un papà, con un bambino di tre anni, mi disse: da giovane ero narcisista e menefreghista! Non avrei mai immaginato che mi sarei ritrovato da adulto, grazie a questo figlio, a pensare che la sua vita vale molto più della mia, che lui viene prima di tutto…. Mi ha colpito tanto il discorso di questo papà”.
Solo attraverso la generatività si ama: “Grazie al suo bambino, egli ha imparato ad amare. Ora: nascere in un contesto familiare così, in un clima che si origina e si nutre di amore, pur in mezzo a mille fragilità ed errori dei propri genitori, non è cosa da poco. Chi lo sperimenta, sente nel profondo che potrà cadere tante volte nella vita, ma avrà sempre nel cuore la forza di rialzarsi, avrà nel suo DNA la speranza. Di generazione in generazione, quindi, noi ci trasmettiamo la speranza grazie all’amore che ci scambiamo: La speranza non delude, perché l’amore ci è stato riversato nel cuore”.
Ed a tale speranza umana quella cristiana non toglie nulla, anzi offre una vita completa: “La visione cristiana aggiunge a questa riflessione una convinzione decisiva: nell’interiorità di ogni uomo è presente Dio, lo Spirito Santo, fin da quando viene al mondo. Questo significa che Dio alimenta dal di dentro la speranza degli uomini, li spinge a lottare, a non rassegnarsi, a cercare di collaborare con tutti per realizzare il bene. La Pasqua di Gesù vuole rivelarci che niente, neppure la morte, può spegnere la speranza nel cuore di un uomo”.
Per questo motivo la Pasqua è un punto ‘fermo’: “La Pasqua di Gesù è l’àncora della nostra speranza: lo Spirito del Risorto agisce in ogni angolo del mondo e in ogni cuore umano per portare avanti il regno di Dio, vale a dire, nel linguaggio di Gesù, il mondo come Dio lo sogna: il regno di pace, giustizia, fraternità, amore… Dio non lo sogna soltanto: lo realizza con l’aiuto degli uomini, suscitando nel cuore delle persone, per mezzo dello Spirito, la determinazione a sperare e a lottare. Che bello vedere anche oggi, in ogni popolo, cultura e religione, profeti appassionati e determinati, che credono nella forza del bene!
La speranza è allora una ‘fiducia nella vita’ che contiene anche indirettamente, talvolta inconsapevolmente, una ‘fiducia nel Dio che dona la vita’, nel Dio che porta avanti il suo regno nel mondo per mezzo dello Spirito del Risorto”.
Per questo il vescovo ha invitato a vivere la vita come pellegrinaggio: “Nel Giubileo si cammina, ma gustando tutta la pienezza di significato di questo movimento dei piedi e del corpo, fatto da soli o in tanti, non importa. Si tratta prima di tutto di uscire di casa senza fretta, dandosi un tempo ampio per raggiungere un luogo dove incontrare il Signore”.
E’ un invito a ripercorrere le tappe fondamentali della propria vita: “Ti invito a meditare durante il cammino, ripensando alla tua esistenza, ai luoghi che hai attraversato durante la tua vita, ai compagni di pellegrinaggio che più hai amato, a quello che si è depositato dentro di te grazie ai tanti incontri e alle tante vicende di cui sei stato protagonista…
Lascia affiorare alla tua memoria tutto: dolori e gioie, errori e scelte decisive, peccati e bene compiuto. Questo tempo di meditazione ti aiuterà a scoprire che la tua vita non è stato un andare a vuoto, ma un pellegrinaggio: il tuo cammino, anche se non lineare e forse pieno di strade sbagliate o di tentazioni di ritornare indietro, è sempre stato accompagnato dal Signore”.
E’ un invito a scegliere un’azione da compiere: “Si tratta di scegliere un’azione che risuoni con il cammino della tua vita, dando un significato personale alla tua conversione battesimale. Ecco qualche suggerimento: potresti decidere di visitare un anziano solo o un ammalato, farti vicino a qualcuno che sta vivendo un momento difficile (come un detenuto) o aiutare un ragazzo a fare i compiti a casa. Forse, più semplicemente, senti il desiderio di dedicare più tempo a ascoltare i tuoi familiari o i tuoi colleghi di lavoro.
Puoi dare una mano come volontario alla mensa o all’emporio Caritas o impegnarti in un gesto ecologico insieme a altre persone (pulire uno spazio trascurato da tutti). Potresti anche decidere di visitare il cimitero per pregare per i defunti più dimenticati o per le vittime di una tragedia, come il terremoto. Ci sono infinite possibilità!
Dalla diocesi di Macerata: la realtà è superiore all’idea
Nel mercoledì delle imposizioni delle ceneri il vescovo di Macerata, mons. Nazzareno Marconi, ha consegnato il testo della Lettera pastorale ‘La realtà è superiore all’idea’, tratta dall’enciclica ‘Evangelii Gaudium’, redatto a conclusione della visita pastorale nelle parrocchie, che traccia un ‘metodo pastorale’:
“Dio e i Santi hanno scritto una storia di bene che ci ha condotto a quella Chiesa locale che oggi realmente siamo, questa Chiesa locale ha, come è logico, luci ed ombre. Per dirla con il Beato Antonio Rosmini è una Chiesa che ha piaghe e punti di forza”.
Le cinque piaghe sono rappresentate dal guardare solo al proprio ambito particolare non vedendo interazioni e possibili collaborazioni; non vedere le risorse e le strutture ecclesiali come a servizio di un intero territorio e non di una singola parrocchia o gruppo; avere una pastorale che punta più sull’abitudine, che sulle motivazioni e sulla convinzione per cui si fanno le cose; avere ancora una Chiesa molto centrata sulla figura del prete, che tutto anima e tutto decide, senza cui niente si può muovere; pensare e realizzare la formazione alla fede come il trasmettere la modalità solita di fare le cose, invece che insegnare a capire la realtà e adattare creativamente le scelte pastorali ad un mondo che cambia:
“Prima piaga. Molti tendono a guardare solo al proprio ambito particolare, non hanno perciò uno sguardo falso, ma certo limitato. Così i problemi si vedono senza comprenderne le radici profonde e lontane e quindi c’è un abbaglio sui reali motivi che generano le fragilità… Così ogni elemento piccolo e locale viene preso come motivo sufficiente a spiegare problemi più grandi e lontani come: la secolarizzazione, la contro evangelizzazione dei media, la cultura anti-evangelica molto pervasiva nella società contemporanea. Le possibili soluzioni proposte da chi ha uno sguardo così ristretto non funzioneranno, perché la diagnosi dei mali non è stata corretta e la cura risulterà approssimativa”.
Per il vescovo la seconda piaga consiste in uno sguardo che non permette di vedere le risorse: “Questa privatizzazione degli spazi genera spesso stanze quasi chiuse, o usate pochissimo, piene di carte e di cose assommate da gente che le usava, ma ora si è invecchiata, o ridotta a poche unità, ma non vuol condividerle con altri. I locali di ministero sono sempre dei luoghi ecclesiali e dovrebbero essere a disposizione di tutta la Chiesa.
Si afferma spesso che ci mancano nuove strutture e spazi più ampi, però non si ha il coraggio di chiedersi come rifunzionalizzare le strutture esistenti, favorendo un utilizzo efficiente e collaborativo, secondo una visione più ampia della pastorale di insieme. Condividere l’uso di uno spazio costringe a coordinarsi tra operatori pastorali, a progettare per tempo e con ordine le iniziative, a rinnovare le proposte privilegiando le azioni fatte assieme. Tutte cose preziosissime per un vero rinnovamento della pastorale e la sua apertura al mondo”.
La terza piaga riguarda la pastorale: “Terza piaga. Consiste nell’aver impostato per decenni quasi tutta la pastorale sulla strategia di: creare “buone abitudini” senza curare le motivazioni per cui si vivevano certe azioni pastorali… Creare nuove buone abitudini costa fatica e pazienza e soprattutto va fatto a partire dal trasmettere convinzioni e motivazioni. Non basta riprendere a celebrare come prima, se non si lavora a riannunciare la fede e rimotivarne il valore nella vita delle persone”.
La quarta piaga è quella del potere: “Abbiamo ancora una Chiesa molto centrata sulla figura del prete, che tutto anima e tutto decide, senza cui niente si può muovere. In questa pericolosa confusione tra un presbiterato vissuto come vocazione ‘al servizio’ del popolo di Dio o vocazione ‘al potere’ sul popolo, sta il nucleo del ‘clericalismo’ tanto spesso criticato da papa Francesco. In alcune parrocchie questo schema ha portato anche ad uno stile di ‘potere’ e non di ‘servizio di alcuni laici (uomini e donne) che nella piccola comunità, parte di una Unità Pastorale e magari residuo di una micro-parrocchia del passato, sono cresciuti come dei sostituti del prete accentratore, con il fatto che spesso stanno lì da più tempo del prete attuale e sono loro lo snodo di tutto”.
L’ultima piaga riguarda la formazione: “La formazione di preti e laici pensata come: il semplice trasmettere la modalità usuale di fare le cose e non come insegnare a capire la realtà e adattare creativamente le scelte pastorali ad un mondo già molto cambiato. Questo accade, ad esempio, nella formazione dei catechisti che sono invitati a ripetere schemi che funzionavano 20 o 30 anni fa, quando si era formato il loro prete.
Anche i grandi Movimenti e Cammini presenti in diocesi, nati negli anni ’70, propongono ancora uno stile pastorale che allora era innovativo, ma oggi se non si rinnova seriamente, risponde sempre meno alla realtà attuale. Manca l’idea di guardare ed ascoltare la realtà, soprattutto i giovani che abbiamo davanti e le loro famiglie che sono profondamente cambiate”.
Ed ecco i dieci punti di forza della Chiesa diocesana, che si fonda sulla fede popolare: “Il valore della fede popolare è poi una realtà condivisa anche dalla gran parte delle Istituzioni e delle realtà di Volontariato sociale, che vi riconoscono una forma di socializzazione potente ed inclusiva. Anche tra i nuovi residenti non cattolici, ma provenienti dal mondo ortodosso, molti condividono queste forme di preghiera popolare, realizzando quell’ecumenismo dal basso che non va certo disprezzato”.
Dai fedeli è infatti emerso il desiderio di pregare: “La vita di oggi non permette orari normali a tanta gente. Proporre occasioni di preghiera in orari e forme nuove, potrebbe essere un modo per andare incontro al desiderio buono di pregare che hanno tante persone. Il successo dei media che propongono la preghiera per le persone sole ed ammalate, pensate a Radio Maria, al Rosario da Lourdes di TV2000 o a trasmissioni di EmmeTV sul canale 89 rispondono in qualche modo a questo desiderio, ma si potrebbe fare certamente di più e meglio”.
Una parte importante per la diocesi sono anche le aggregazioni laicali e la pastorale familiare: “Di fatto quasi tutte le realtà ecclesiali cattoliche sono presenti, accolte e stimate nella nostra Chiesa Diocesana e spesso compresenti in una stessa parrocchia. Questo non è un segno di debolezza, non è infatti un limite ma una virtù che non siamo una Diocesi ‘schierata’ per una sola realtà. Nasce dal rispetto di tutti i Segni dei tempi ed i Carismi che lo Spirito ha suscitato tra noi”.
Altro punto di forza riguarda gli oratori ed i giovani: “Pensare ad un Oratorio per una parrocchia piccola o anche media è quasi sempre velleitario. Solo la dimensione di una Unità Pastorale, ma dove tutti collaborino e lo sentano come una ricchezza comune, può permettere non solo di realizzarlo, ma anche di dargli solidità e futuro. Alcuni oratori nati con questa visione aperta stanno non solo sopravvivendo, ma crescendo e si sta formando una tradizione buona perché giungono i primi nuovi animatori ’nati’ in Oratorio”.
Altro punto di forza è il volontariato sociale: “Il numero delle sigle registrate nei vari comuni è molto alto, ma rispetto al passato si riscontra che sono aumentate di tanto le sigle, mentre il numero delle persone globalmente coinvolte è diminuito. Ciò testimonia in questo campo la crescita del particolarismo e la tendenza a formare gruppi chiusi e spesso contrapposti.
Nonostante questi segni di crisi, la realtà è ancora molto rilevante e mostra la propensione della nostra gente all’impegno nel bene, soprattutto se si possono sperimentare e testimoniare risultati concreti e significativi. Questo dovrebbe incoraggiarci a fare proposte in questo ambito, sia di collaborazione con gli Enti presenti che rivolte a nuovi volontari”.
Inoltre il vescovo ha sottolineato la crescita del diaconato permanente: “A differenza di altre diocesi, dovremmo essere fieri del fatto che i nostri Diaconi non si limitano a svolgere un servizio di assistenza liturgica nelle celebrazioni, ma sono impegnati in maniera più fedele al sacramento ricevuto: in ambito caritativo ed amministrativo, sia Diocesano che di Unità Pastorale, anche con significativi compiti dirigenziali. E’ cresciuto anche di qualità il coinvolgimento delle spose dei nostri diaconi nella collaborazione alla vita di preghiera e di azione pastorale dei loro sposi”.
E’ un invito ad un potenziamento dei mezzi di comunicazione diocesani: “E’ importante che si potenzi il volontariato in ambito comunicativo, così come l’uso delle competenze acquisite per realizzare progetti di formazione dei nostri giovani alla comunicazione competente e ricca di contenuti positivi, via video e social. Durante la visita pastorale ho verificato più volte che ci sono ampi spazi di crescita per far aumentare la connessione tra questi mezzi e le realtà vive ed attive del nostro territorio diocesano, in particolare i giovani degli oratori”.
Insomma è stato un invito alla missionarietà: “In questo modo c’è un prezioso scambio di esperienze, i presbiteri in missione non si sentono soli e dimenticati e possono portare una visione di Chiesa universale anche nelle nostre parrocchie più piccole. Questa visione universale, che lega la nostra piccola diocesi: alla Cina, all’America latina, all’Africa ed a varie parti dell’Europa e dell’Asia, è una grande ricchezza che ci permette di comprendere la grandezza del mondo e della Chiesa Cattolica e di essere sempre più aperti al confronto ed al dialogo piuttosto che allo scontro tra le culture”.
E’ stato un invito ad appassionarsi alla Parola di Dio: “Questa crescita di qualità dei cristiani dovrebbe spingere i nostri preti e diaconi allo studio e ad una preparazione più attenta e competente delle omelie ed anche dell’arte di presiedere le celebrazioni. La liturgia ha un suo ritmo celebrativo, che non tollera né lungaggini, né corse per finire presto. Poi celebrare bene richiede di creare un giusto equilibrio tra: la parola, i segni, il canto ed il silenzio”.
Ed infine ha sottolineato l’impegno caritativo: “E’ l’aspetto più sociale della nostra azione cristiana, che sta sempre più diventando competente e concreta. Il rischio però di ricadere solo nella logica della denuncia sterile, del perdersi in chiacchiere, o dell’attivismo improvvisato, in questo ambito è sempre possibile e richiede grande vigilanza. Ci sono però tante forze buone e giovani ed altre ne stiamo mobilitando, che permettono di guardare al futuro con grande speranza in questo campo”.
Concludendo la lettera pastorale mons. Marconi ha chiesto un ‘cambio’ di mentalità: “Manca ancora una mentalità capace di capire che gli Uffici Diocesani sono a servizio delle Unità Pastorali e non viceversa. Ancora la Curia è sentita da alcuni come un centro da evitare, a cui tenere nascoste le cose, perché non si impiccino troppo di ciò che avviene in periferia, creando problemi.
Questo spesso è dovuto al fatto che non si comprende la necessità attuale di seguire le normative ed i protocolli, coltivando l’idea errata che tutto sia solo burocrazia… Il ruolo degli Uffici di Curia è così di dare alle Parrocchie ed Unità Pastorali quel supporto di conoscenze tecniche e di coordinamento di cui oggi non si può più fare a meno”.
Papa Francesco invita a condividere la speranza nel messaggio delle Comunicazioni Sociali
“In questo nostro tempo segnato dalla disinformazione e dalla polarizzazione, dove pochi centri di potere controllano una massa di dati e di informazioni senza precedenti, mi rivolgo a voi nella consapevolezza di quanto sia necessario (oggi più che mai) il vostro lavoro di giornalisti e comunicatori. C’è bisogno del vostro impegno coraggioso nel mettere al centro della comunicazione la responsabilità personale e collettiva verso il prossimo”:
comincia così il messaggio di papa Francesco per la 59^ Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, intitolato ‘Condividete con mitezza la speranza che sta nei vostri cuori’, con l’esortazione ad essere “comunicatori di speranza, incominciando da un rinnovamento del vostro lavoro e della vostra missione secondo lo spirito del Vangelo”.
Con questo messaggio il papa invita a ‘disarmare’ la comunicazione, cioè a non suscitare ‘reazioni istintive’: “Troppo spesso oggi la comunicazione non genera speranza, ma paura e disperazione, pregiudizio e rancore, fanatismo e addirittura odio. Troppe volte essa semplifica la realtà per suscitare reazioni istintive; usa la parola come una lama; si serve persino di informazioni false o deformate ad arte per lanciare messaggi destinati a eccitare gli animi, a provocare, a ferire”.
Quindi non si può raccontare la realtà solo attraverso slogan: “Ho già ribadito più volte la necessità di “disarmare” la comunicazione, di purificarla dall’aggressività. Non porta mai buoni frutti ridurre la realtà a slogan. Vediamo tutti come (dai talk show televisivi alle guerre verbali sui social media) rischi di prevalere il paradigma della competizione, della contrapposizione, della volontà di dominio e di possesso, della manipolazione dell’opinione pubblica”.
Per questo il papa ha messo in guardia da una ‘dispersione’ dell’attenzione: “C’è anche un altro fenomeno preoccupante: quello che potremmo definire della ‘dispersione programmata dell’attenzione’ attraverso i sistemi digitali, che, profilandoci secondo le logiche del mercato, modificano la nostra percezione della realtà. Succede così che assistiamo, spesso impotenti, a una sorta di atomizzazione degli interessi, e questo finisce per minare le basi del nostro essere comunità, la capacità di lavorare insieme per un bene comune, di ascoltarci, di comprendere le ragioni dell’altro”.
E’ un invito a non cedere alla logica della creazione del ‘nemico’, citando mons. Tonino Bello: “Sembra allora che individuare un “nemico” contro cui scagliarsi verbalmente sia indispensabile per affermare sé stessi. E quando l’altro diventa “nemico”, quando si oscurano il suo volto e la sua dignità per schernirlo e deriderlo, viene meno anche la possibilità di generare speranza. Come ci ha insegnato don Tonino Bello, tutti i conflitti ‘trovano la loro radice nella dissolvenza dei volti’. Non possiamo arrenderci a questa logica”.
Con un riferimento alla prima lettera di Pietro il papa ha invitato a dare ‘ragione’ della speranza: “Nella Prima Lettera di Pietro troviamo una sintesi mirabile in cui la speranza viene posta in connessione con la testimonianza e con la comunicazione cristiana: ‘Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto’. Vorrei soffermarmi su tre messaggi che possiamo trarre da queste parole”.
Quindi la speranza ha un ‘volto’, che si manifesta nella bellezza dell’amore di Dio: “Adorate il Signore, nei vostri cuori: la speranza dei cristiani ha un volto, il volto del Signore risorto. La sua promessa di essere sempre con noi attraverso il dono dello Spirito Santo ci permette di sperare anche contro ogni speranza e di vedere le briciole di bene nascoste anche quando tutto sembra perduto. Il secondo messaggio ci chiede di essere pronti a dare ragione della speranza che è in noi… I cristiani non sono anzitutto quelli che ‘parlano’ di Dio, ma quelli che riverberano la bellezza del suo amore, un modo nuovo di vivere ogni cosa”.
Questo va fatto con ‘dolcezza’: “La comunicazione dei cristiani (ma direi anche la comunicazione in generale) dovrebbe essere intessuta di mitezza, di prossimità: lo stile dei compagni di strada, seguendo il più grande Comunicatore di tutti i tempi, Gesù di Nazaret, che lungo la strada dialogava con i due discepoli di Emmaus facendo ardere il loro cuore per come interpretava gli avvenimenti alla luce delle Scritture”.
Quindi il ‘sogno’ del papa consiste in una comunicazione in grado di parlare al ‘cuore’: “Sogno per questo una comunicazione che sappia renderci compagni di strada di tanti nostri fratelli e sorelle, per riaccendere in loro la speranza in un tempo così travagliato. Una comunicazione che sia capace di parlare al cuore, di suscitare non reazioni passionali di chiusura e rabbia, ma atteggiamenti di apertura e amicizia; capace di puntare sulla bellezza e sulla speranza anche nelle situazioni apparentemente più disperate; di generare impegno, empatia, interesse per gli altri”.
Una comunicazione che non è autoreferenziale: “Sogno una comunicazione che non venda illusioni o paure, ma sia in grado di dare ragioni per sperare… Per fare ciò dobbiamo guarire dalle ‘malattie’ del protagonismo e dell’autoreferenzialità, evitare il rischio di parlarci addosso: il buon comunicatore fa sì che chi ascolta, legge o guarda possa essere partecipe, possa essere vicino, possa ritrovare la parte migliore di sé stesso ed entrare con questi atteggiamenti nelle storie raccontate. Comunicare così aiuta a diventare ‘pellegrini di speranza’, come recita il motto del Giubileo”.
E’ un invito a realizzare la speranza come ‘progetto comunitario’ di rinascita come dono della misericordia di Dio: “Pensiamo per un momento alla grandezza del messaggio di questo anno di grazia: siamo invitati tutti (davvero tutti!) a ricominciare, a permettere a Dio di risollevarci, a lasciare che ci abbracci e ci inondi di misericordia. Si intrecciano in tutto questo la dimensione personale e quella comunitaria. Ci si mette in viaggio insieme, si compie il pellegrinaggio con tanti fratelli e sorelle, si attraversa insieme la Porta Santa”.
Per questo il Giubileo è un invito alle ‘opere sociali’: “Il Giubileo ha molte implicazioni sociali. Pensiamo ad esempio al messaggio di misericordia e speranza per chi vive nelle carceri, o all’appello alla vicinanza e alla tenerezza verso chi soffre ed è ai margini. Il Giubileo ci ricorda che quanti si fanno operatori di pace ‘saranno chiamati figli di Dio’. E così ci apre alla speranza, ci indica l’esigenza di una comunicazione attenta, mite, riflessiva, capace di indicare vie di dialogo”.
Il messaggio papale è un incoraggiamento a raccontare le ‘storie’: “Vi incoraggio perciò a scoprire e raccontare le tante storie di bene nascoste fra le pieghe della cronaca; a imitare i cercatori d’oro, che setacciano instancabilmente la sabbia alla ricerca della minuscola pepita. E’ bello trovare questi semi di speranza e farli conoscere.
Aiuta il mondo ad essere un po’ meno sordo al grido degli ultimi, un po’ meno indifferente, un po’ meno chiuso. Sappiate sempre scovare le scintille di bene che ci permettono di sperare. Questa comunicazione può aiutare a tessere la comunione, a farci sentire meno soli, a riscoprire l’importanza del camminare insieme”.
Infine il messaggio è un invito a curare il ‘cuore’, cioè l’interiorità e la relazione: “Essere miti e non dimenticare mai il volto dell’altro; parlare al cuore delle donne e degli uomini al servizio dei quali state svolgendo il vostro lavoro. Non permettere che le reazioni istintive guidino la vostra comunicazione. Seminare sempre speranza, anche quando è difficile, anche quando costa, anche quando sembra non portare frutto. Cercare di praticare una comunicazione che sappia risanare le ferite della nostra umanità”.
Ed ha enucleato alcune ‘azioni’ che possono dare ‘fiducia’ alla speranza: “Dare spazio alla fiducia del cuore che, come un fiore esile ma resistente, non soccombe alle intemperie della vita ma sboccia e cresce nei luoghi più impensati: nella speranza delle madri che ogni giorno pregano per rivedere i propri figli tornare dalle trincee di un conflitto; nella speranza dei padri che migrano tra mille rischi e peripezie in cerca di un futuro migliore; nella speranza dei bambini che riescono a giocare, sorridere e credere nella vita anche fra le macerie delle guerre e nelle strade povere delle favelas.
Essere testimoni e promotori di una comunicazione non ostile, che diffonda una cultura della cura, costruisca ponti e penetri nei muri visibili e invisibili del nostro tempo. Raccontare storie intrise di speranza, avendo a cuore il nostro comune destino e scrivendo insieme la storia del nostro futuro. Tutto ciò potete e possiamo farlo con la grazia di Dio, che il Giubileo ci aiuta a ricevere in abbondanza”.
Umberto Folena: l’umorismo aiuta a comprendere la realtà
Ogni notte, immancabilmente, il gallo Carletto cantava. Ma quella notte, e le notti seguenti, non canto?; ed all’alba seguente apparivano su muri e serrande di Tretronchi misteriose lettere scarlatte…Il parroco don Ulisse con la sorella Elvezia, il sindaco Achille con la figlia Alice, il barbiere Tarcisio, il vecchio Bortolo e le suore Leopoldine, e i potenti del paese, Bragadin e il Cavaliere… Sono dozzine gli abitanti di Tretronchi, borgo immaginario del Veneto pedemontano, che affollano il primo romanzo di Umberto Folena, editorialista di Avvenire, ‘La notte in cui Carletto non cantò’.
Si incontrano, si scontrano e affrontano piccole grandi imprese, raccontate con affetto e umorismo in questo romanzo presentato a Tolentino su invito del circolo culturale ‘Tullio Colsalvatico’: “Carletto non aveva cantato, quella notte. Carletto era un gallo problematico ma non per colpa sua, e poi bastava abituarsi: lui cominciava a schiarirsi l’ugola a mezzanotte, alle due aveva le tonsille calde e alle tre e mezza dava il meglio di sé. All’alba si addormentava spossato avvolto nel sonno dei giusti, lasciando agli altri galli di Tretronchi il compito di fare i galli secondo contratto, tradizione e prevedibilità”.
Ed ha spiegato la genesi del romanzo: “Si potrebbe definire un romanzo su commissione, perché gli amici dell’editrice Ancora mi hanno chiesto di ricreare in un romanzo un mondo simile a quello di Guareschi. Ci ho provato, anche se tutto è cambiato in questi 70 anni, puntando a scrivere un racconto corale, di popolo, ambientato in un paesino del Veneto pedemontano di oggi”.
Missione ambiziosa, affrontata ‘con grande divertimento’, perché l’autore si è immerso con la sua straripante fantasia dentro questo piccolo borgo dal nome faticoso, ‘in cui non succede mai niente’ (a parte l’enigmatico silenzio del gallo per tre giorni) e lo ha popolato di una ventina di personaggi (dal barbiere all’immigrato, tutti citati nelle prime pagine in rigoroso ordine alfabetico) che abitano e animano in verità tutte le parrocchie italiane, non solo quelle venete.
Umberto Folena perché Carletto non cantò più?
“Carletto è un gallo, che ha la buona abitudine di cantare tutte le notti tra le 3 e le 4 e non al mattino, come i galli normali. Però ad un certo punto inizia a non cantare e quando non canta significa che nel paese di Tretronchi sta per accadere qualcosa di sgradevole. Tretronchi è il paese immaginario della pedemontana veneta, dove sono ambientati i miei romanzi”.
Perché il romanzo riprende la struttura del ‘piccolo mondo’ di Guareschi?
“Mi sono innamorato di ‘piccolo mondo’, ma non mi paragono a Guareschi. L’editore, che mi ha commissionato questo romanzo, mi ha chiesto di provare a narrare il ‘mondo piccolo’ di Guareschi, 70 anni dopo. Don Camillo e Peppone non esistono più nell’Italia dei nostri tempi. Ho tentato di mettere in scena un ‘popolo’ con circa 60 personaggi di Tretronchi in una specie di romanzo popolare, non solo perché si rivolge a tutti, ma soprattutto perché il popolo è protagonista:
è la rappresentazione di una comunità, che cerca di essere comunità, ossia di contrastare tutte le spinte che cercano di fare diventare gli individui soli, isolati ed ansiosi; quindi più controllabili. Invece, il tentativo di alcuni è quello di ricostruire legami sempre più forti di comunità e creare tutto ciò che può aiutare la comunità a vivere ed a produrre. Da una parte ci sono i costruttori e dall’altra i distruttori: questo è un confronto titanico nello scenario planetario, nel microcosmo di Tretronchi questo scontro c’è ed è rappresentativo di uno scontro più ampio”.
In quale modo la scrittura può essere divertente?
“La scrittura è divertente, quando l’autore si diverte a scrivere. Mi sono divertito molto, anche se ciò non è una garanzia che chi mi leggerà si divertirà, ma certamente è la prima condizione che il libro sia divertente: io mi sono divertito molto a scrivere. Poi uso tecniche, imparate in 40 anni di giornalismo, per rendere la lettura più scorrevole possibile. Per rendere la scrittura leggibile ci sono anche tante norme da applicare, aldilà del dono di natura”.
Cosa è l’umorismo nella scrittura?
“L’umorismo nella scrittura consiste nello strappare un sorriso e saper individuare i paradossi e saper cogliere le contraddizioni. Occorre saper essere ironici, perché l’ironia è un’arte sottile; troppo forte sconfina nel sarcasmo ed è distruttiva; troppo debole non viene compresa e non funziona. E’ questione di equilibrio, come quando guidi la macchina; oppure quando cucini un piatto. L’ironia è qualcosa di analogo; occorre innanzitutto ridere di se stessi. L’autoironia è la condizione, perché possa sorridere di un altro e di una situazione particolare. Trovare i paradossi e non prendersi completamente sul serio ci salvano dall’ansia, dalla disperazione e dall’arroganza. Gli arroganti sono incapaci di ironia”.
Fra Fusarelli: santa Camilla Battista Varano è un faro per vivere nella realtà
Nei giorni scorsi il Ministro generale dell’Ordine dei Frati Minori, fr. Massimo Fusarelli, ha scritto una lettera in occasione del quinto centenario della morte di santa Camilla Battista Varano, avvenuta il 17 ottobre 1524, che nella ‘Vita spirituale’, redatta nel 1491 ed indirizzata al frate francescano Domenico da Leonessa, scrive: ‘Mi pare di poterla chiamare con tutta sincerità infelicissima felicità.. Ornarmi e leggere le cose vane,… in suonare, cantare, ballare, pazzeggiare e altre cose giovanili e mondane… Mi erano in tanto fastidio le cose devote e i frati e le suore, che non [ne] potevo vedere nessuno’.
Da qui prende spunto la lettera del Ministro generale, che analizza il testo della Santa: “Il testo rivela in filigrana le doti letterarie non comuni di questa donna, ma soprattutto dischiude al mistero dell’incontro tra la giovane Camilla e il ‘suo Signore’, rivelandoci i tratti di una relazione viva e vivace che giungerà alla fecondità mistica del percorre la ‘via del Divino Amore’ giungendo a ‘vedere tanto amore, immenso come il mare e sviscerato, senza alcun ordine e misura che Dio portava alla creatura, che non mi potevo trattenere dal dire: O pazzia! O pazzia!’ Nessun vocabolo mi pareva più vero e conveniente a tanto amore’… Il desiderio di donarsi al Signore maturerà solo alcuni anni dopo, durante la quaresima del 1479, ravvivato dall’ascolto di un’altra predica, questa volta del frate minore Francesco da Urbino”.
Alcuni anni dopo fa la professione di fede: “Così il 14 novembre 1481 entra nel monastero delle clarisse di Urbino e cinque mesi dopo farà la sua ‘amara professione’ nella vita religiosa, come la definì alcuni anni dopo nei Ricordi di Gesù Cristo rievocando i molti ostacoli affrontati…
Ad Urbino Camilla Battista trovò ‘il dolcissimo canto delle preghiere devote, la bellezza dei buoni esempi, i segreti giacigli delle grazie divine e dei doni del cielo’. Nel 1484, dietro le pressioni paterne e in obbedienza al Papa, rientra, con otto sorelle, a Camerino, in un antico monastero restaurato per l’occasione dal padre. Qui Camilla Battista introduce la regola di santa Chiara di Assisi, con la scelta inequivocabile e ferma di osservare l’altissima povertà, rifiutando ogni dispensa, pena lo scioglimento istantaneo della comunità, ostacolando così il disegno del duca di dotare il monastero di rendite e benefici”.
Nel 1484 compone l’opera ‘I dolori mentali di Gesù Cristo nella sua passione’: “Custodendo la ‘continua e dolce memoria della Passione di Cristo, arca dei tesori celesti, fonte inesauribile d’acqua viva, pozzo profondissimo dei segreti di Dio’, Camilla Battista, guidata da Gesù, giunge a penetrare il mistero della passione attraverso una nuova prospettiva, come lei stessa rivela:
‘Durante quel tempo fui introdotta, per mirabile grazia dello Spirito Santo, nel cuore di Gesù, vero e solo mare amarissimo, insondabile ad ogni intelletto angelico e umano. E mi fu mostrato che tanta differenza c’è tra chi si appaga delle pene mentali di Gesù Cristo e chi invece si appaga solo nella umanità appassionata di Cristo, quanta differenza c’è tra il vaso ricolmo di miele e il vaso che fuori è irrigato un poco da quello che sta dentro’…
E accade il prodigio: Cristo le dischiude il suo cuore, ‘quel cuore trafitto dalla lancia, quel cuore che ha sopportato tutte le vicende umane, che non si è ritratto di fronte al rischio cui l’esponeva l’amore, né si è rinchiuso in se stesso perché il suo amore fiammante non veniva corrisposto’, e in quel cuore, attraverso il costato ferito, all’amata è dato di contemplare il sigillo della promessa: ‘Io ti amo Camilla’. Ecco perché santa Camilla Battista giungerà alla vertiginosa richiesta di rimanere lì, ai piedi di quel crocifisso, per sempre”.
La lettera del ministro generale si sofferma sulla spiritualità della santa camerte: “Negli anni seguenti al rientro, Camilla Battista rimarrà a Camerino fino alla morte avvenuta il 31 maggio 1524 a causa della peste. La permanenza è interrotta solo da rare occasioni legate a missioni come quella affidatale nel 1505-1507 dal papa Giulio II per la riforma del monastero delle clarisse di Fermo e quella analoga del 1521-1522 presso la comunità di San Severino Marche…
La vicenda storica e familiare di Camilla Battista ci introduce a quel mistero che rappresenta ogni santo per la Chiesa di Dio. Tra le pieghe degli eventi e delle vicissitudini liete e drammatiche, nobili e contraddittorie, si nasconde l’avventura spirituale e mistica di questa grande donna. La figura di Camilla Battista appartiene alla numerosa schiera di mistiche, non solo francescane e italiane. Nel suo profilo spirituale trovano una straordinaria sintesi la fede e l’umanità, la mistica e la quotidianità, lo spirito e la carne, la ragione e l’emozione, la terra e il cielo, l’amore e il dolore”.
Infatti la mistica è la chiave di lettura per comprendere un’esperienza di santità: “La mistica, quale chiave di lettura dell’esperienza di un santo, indica a ciascuno di noi la meta della nostra sequela di Cristo e rappresenta una finestra aperta sul mistero della compartecipazione dell’essere umano al disegno d’amore del Padre. L’esperienza mistica di Camilla Battista ci aiuta a guarire la costante tentazione di espellere dal nostro cammino spirituale quanto di reale, contraddittorio, scandaloso e banale sperimentiamo nella nostra vita”.
La mistica è un aiuta a vivere la quotidianità: “Ci aiuta a salvare il contatto con la realtà, sempre complessa e caotica. Ci insegna e ci ricorda che la vera mistica non elude il quotidiano, non rifugge l’angoscia, non teme la vita reale. Anzi, è proprio la vita reale, con le sue imprevedibili e sfiancanti sfide, il luogo in cui la vera mistica prende carne e si sviluppa, mediante l’ascolto, la lotta e l’amore, ossia riconoscendo la presenza discreta ma efficace di Colui che fa nuove tutte le cose”.
Ed ha tracciato alcune caratteristiche di santa Camilla: “Camilla Battista innanzitutto è una donna che ascolta, nel senso biblico e mariano di questo termine. Ascolta e mette in pratica. Non appena capisce di aver incontrato qualcosa che può farla progredire nel cammino spirituale, come accadde durante l’ascolto della ‘predica della lacrimuccia’ di fra Domenico da Leonessa e quella della ‘scintilla’ di fra Francesco da Urbino: decide, delibera, si assume la responsabilità della propria vita e la fedeltà tenace a questi piccoli impegni diventa la goccia che scava in lei il canale per il passaggio della grazia”.
Quindi la mistica non è una rinuncia: “Un’altra caratteristica della spiritualità della Varano è quella della lotta, passaggio ineludibile e inevitabile di qualsiasi esperienza cristiana. Camilla non si arrende alle prime difficoltà, non si scoraggia quando sopravvengono le intemperie, non si lamenta giustificando la propria passività, ma resta in una posizione attiva, adulta, consapevole della complessità, ma anche dell’obiettivo del proprio lottare. Ed è proprio l’amore, ardente e appassionato, verso il suo Dolcissimo Sposo, che costituisce la ragione, lo scopo, il premio e la beatitudine di questa santa”.
In questa ‘lotta’ santa Camilla entra in ‘relazione’ con Cristo: “Nel mare sconfinato del Cuore di Cristo Camilla Battista immerge tutta la sua umanità, i suoi desideri più profondi, il suo anelito alla pienezza di vita e di bene. E’ infatti la relazione con Cristo il senso autentico di ogni mistica, che ci spoglia continuamente del nostro attaccamento al fare, all’apparire e al piacere per concederci la vertiginosa esperienza dell’essere-con e dell’essere-in.
La figura di questa Santa ci mostra come la chiamata alla santità non si colloca a livello del ‘cosa fare’, ma del ‘di chi essere’ o ‘a chi appartenere’. Da questa intimità con Cristo, coltivata e rinnovata ogni giorno, lei ci insegna a ricevere ogni giorno la nostra identità, ad apprendere l’autentica conoscenza di Dio, delle nostre capacità e limiti, degli altri e del mondo”.
Tale anniversario è un’occasione per ‘convertire’ il proprio rapporto con la storia e con se stessi: “Molto spesso quello che ostacola il nostro cammino spirituale e soprattutto la sua continua crescita ed evoluzione, sono eventi che accadono nella storia; e poi l’esperienza drammatica della sofferenza e del dolore, e persino elementi della nostra umanità, sempre in tensione tra fragilità e autentica forza, tra le immaturità affettive e il desiderio di relazioni buone.
San Francesco alla Verna ha vissuto la sua ‘grande tentazione’, sciolta in un incontro nuovo con il Cristo. Da parte sua, Camilla Battista di fronte a queste tre sfide ci offre una pista, una luce, per attingere dalla sua esperienza criteri e strumenti per il discernimento nella vita concreta di ogni giorno”.
Quindi la ‘lezione’ della mistica camerte è quella di rimanere ‘incarnati’ nella realtà: “La mistica camerte ci ricorda invece che ogni cammino spirituale, per essere veramente incarnato, deve restare, per tutto il tempo della nostra vita, ancorato alla nostra realtà di creature, con i suoi ineliminabili chiaroscuri. Camilla Battista non ha paura di mostrarsi a noi nella sua fragilità umana e di donna, nelle sue passioni e desideri, perché, senza togliere o cancellare nulla, tutto di lei ha saputo convergere verso Cristo, orientare verso il Regno”.
E’ questa la santità proposta da santa Camilla: “Per questo ci propone e restituisce, oggi, una santità e una mistica integrata e integrale. Oggi riconosciamo che le ferite che segnano il corpo e lo spirito di san Francesco non lo rendono un essere celeste, ma ci consegnano l’immagine viva di Cristo proprio in un’umanità fragile e ferita, percossa e amata incondizionatamente. Un annuncio di speranza per tanti!”
Al Meeting di Rimini l’Intelligenza Artificiale è ricerca dell’essenziale?
Al Meeting dell’Amicizia tra i popoli, in svolgimento alla fiera di Rimini è andata in scena l’Intelligenza Artificiale con p. Paolo Benanti, docente all’Università Gregoriana di Roma, consigliere di papa Francesco sui temi dell’intelligenza artificiale e dell’etica della tecnologia e membro del Board Onu sull’ Intelligenza Artificiale e presidente della Commissione per l’Intelligenza Artificiale; dott. Luca Tagliaretti, direttore esecutivo del Centro europeo di competenza sulla cyber-sicurezza ed il prof. Mario Rasetti, presidente del Board scientifico di Centai, che hanno dibattuto sul tema ‘L’essenza dell’intelligenza artificiale. Strumento o limite per la libertà?’
Il ‘succo’ dell’incontro è stato il fatto che l’invenzione del transistor ha trasformato l’informatica da strumento di potere in mano a pochi ad innovazione diffusa, come ha sintetizzato il prof. Paolo Benanti, in quanto ‘sono stati inseriti elementi computazionali in qualsiasi aspetto della nostra vita’: “Se la realtà è definita dal software e noi possediamo il bene ma del software abbiamo solo una licenza a chi va usus, abusus e fructus del prodotto?”.
L’ultima innovazione in campo automotive, per esempio, “ha trasformato l’automobile in un oggetto definito dal software. Non si tratta più di acquistare l’oggetto macchina ma di pagare un canone che sblocca via software le funzioni volute. Rendersi conto di questo salto nella realtà definita dal software più che dalla materia ci serve per capire le sfide che viviamo. Di fatto oggi acquistiamo un bene ma abbiamo solo in licenza il software che lo rende fungibile. Nel diritto romano, la proprietà era definita come il pieno godimento assoluto di un oggetto o di un’entità corporea. A questi erano associati diversi elementi.
L’usus era il diritto che il possessore aveva di fare uso dell’oggetto secondo la sua destinazione o natura, il fructus era il diritto di ricevere i frutti, cioè lo sfruttamento economico e si riferisce ai frutti che possono essere raccolti periodicamente senza alterare la sostanza del bene stesso, l’abusus era, invece, il diritto di disposizione basato sul potere di modificare, vendere o distruggere l’oggetto o l’entità data”.
Con la ‘softwarizzazione pervasiva’, si rischia di ‘perderci il fructus’. “La realtà inizia ad essere definita sempre di più dal software e cambiano le catene del potere. Per questo, dobbiamo capire come fare a democratizzare il potere computazionale”.
Quindi la rivoluzione si chiama Intelligenza Artificiale, iniziata 15 anni fa ma solo adesso è da tutti riconoscibile grazie a Chapt Gpt; quindi l’Intelligenza Artificiale può cambiare il mondo ed in questa delicata fase l’uomo contemporaneo giocherà solo sulla difensiva o cercherà i fattori di crescita e sviluppo che l’IA porta con sé?, ha domandato p. Benanti: “E’ necessario costruire guard rail che impediscano alle macchine di finire fuori strada. Noi siamo la generazione che deve assumersi questa responsabilità…. Il 75% dell’umanità utilizza le ‘macchine’ programmate ma solo 27.000.000 sono in grado di parlare il loro linguaggio. Ciò significa che il 99% della popolazione è analfabeta”.
Quindi il problema è educativo: “Siamo di fronte a una questione educativa, di libertà e democrazia. E’ giusto inchinarsi allo 0,35% di ‘nuovi sacerdoti della nuova religione’, quella per la quale la realtà è definita dal software? Occorre democratizzare il potere computazionale. In gioco non c’è solo la tecnologia ma dunque la vita delle persone”.
D’accordo con p. Benanti è stato anche il prof. Mario Rasetti, che ha sottolineato che l’Intelligenza Artificiale è inevitabile: “L’Intelligenza Artificiale non è una bolla ma un processo da controllare, se vogliamo conservare i tratti caratteristici dell’umano, sapendo che il cervello umano è la macchina più strabiliante dell’universo”.
Però sull’uso dei dispositivi digitali da parte degli adolescenti occorre essere vigilanti, ha sottolineato lo psicoterapeuta Alberto Pellai, durante l’incontro ‘Social ed Intelligenza Artificiale: non serve lo schermo per crescere smart’, intervenuto con il prof. Luca Botturi, docente della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI):
“Uno smartphone in mano ad un bambino è come un go kart in autostrada… La vita online dei ragazzi è un contesto che spesso riserva sorprese ai genitori. Dentro all’alleanza educativa, che coinvolge scuola e famiglia, vanno analizzate funzioni e caratteristiche specifiche di strumenti e piattaforme. Per esempio, il mondo online è basato sull’attivazione dopaminergica: genera dipendenza e frammentazione dell’attenzione, viene meno il sonno e, tra l’altro, i nostri figli dormono, grazie al digitale, due ore in meno a settimana rispetto a prima”.
Quindi per il prof. Luca Botturi è necessaria fornire ai ragazzi un’educazione al’uso digitale: “Non è l’iperconnessione dei ragazzi che sviluppa competenze digitali, ma una giusta formazione all’uso della tecnologia, perché lo sviluppo dei ragazzi ha bisogno di processi di elaborazione lenta”.
E sul tema educativo la Compagnia delle Opere ha sviluppato il tema dell’uso dell’Intelligenza Artificiale nella scuola, ‘L’intelligenza artificiale va a scuola?’, organizzato in collaborazione con DiSAL (Dirigenti scuole autonome e libere), Diesse (Didattica e innovazione scolastica) e l’associazione ‘Il rischio educativo’ con gli interventi del prof. Emanuele Frontoni, docente di informatica nell’Università di Macerata e co-director ‘Vrai’ (Vision Robotics & Artificial Intelligence Lab) e del prof. Pier Cesare Rivoltella, docente di didattica e tecnologie dell’educazione all’Università di Bologna, fondatore e presidente della Sirem (Società italiana di ricerca sull’educazione mediale):
“L’intelligenza artificiale è uno dei nuovi (relativamente nuovi, a dire il vero, visto che il termine è stato coniato da McCarthy nel 1954 ormai 70 anni fa!) modi con cui entriamo nel mondo digitale e dobbiamo ricordarci che è un prodotto del lavoro dell’uomo nel campo dell’informatica, per poter acquisire dati e produrre elaborazioni sfruttando potenze di calcolo inimmaginabili fino a 15/20 anni fa. Ma un prodotto che resta senza una sua reale (e spesso temuta) autonomia”.
I relatori hanno evidenziato che al centro della scuola c’è la relazione discente-docente, ponendo alcune domande fondamentali: “L’Intelligenza Artificiale può aiutare tale relazione? Può anzi contribuire a creare un clima collaborativo di comprensione e costruzione del senso degli oggetti di studio e della realtà che ci circonda?”
A tali domande occorre fornire il giusto spazio allo sviluppo delle competenze disciplinari ed interdisciplinari: “L’avvento dell’intelligenza artificiale rompe (forse) definitivamente l’immagine di una scuola che si realizza in un metodo trasmissivo e unidirezionale. Che senso ha chiedere informazioni e informazioni fini a sé stesse in un rigido nozionismo di fronte alla possibilità di ottenere quelle stesse informazioni con un mirato prompt a ChatGpt o a Gemini? La strada per arrivare a quelle informazioni, i passi per costruire qualcosa di nuovo ed originale devono diventare l’assetto nuovo dell’impegno di studenti e docenti a scuola”.
(Tratto da Aci Stampa)





























