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Mons. Anselmi: amare per essere felici

“In questi mesi ho appreso che durante la Seconda Guerra Mondiale anche Rimini e i territori circostanti sono stati teatro di guerra; i nostri nonni e bisnonni, ottant’anni fa hanno vissuto scene di morte e distruzione; nella storia rimangono i quasi quattrocento bombardamenti, l’80 % della città distrutta, i morti della battaglia di Rimini, circa 20.000 tedeschi e 15.00 alleati, i campi di prigionia per più di 150.00 persone allestiti sul litorale.

Una tragedia testimoniata da rovine ancora presenti in città, dai cimiteri di guerra di Rimini e Coriano, dal ricordo vivo dei tre giovani martiri impiccati in piazza, dai resti della chiesa della Pace di Trarivi e soprattutto dal ricordo di tanti testimoni oculari. Grazie alla Repubblica di san Marino che ha accolto decine di migliaia di profughi sfollati. Signore, dona la pace al mondo e aiutaci ad essere operatori di pace”: dopo l’invocazione allo Spirito Santo, così inizia la lettera pastorale del vescovo della diocesi di Rimini, mons. Nicolò Anselmi, intitolata ‘Amerai, sarai felice e godrai di ogni bene, ora e nei secoli eterni’.

Nella lettera pastorale il vescovo ha spiegato il titolo della lettera: “Ho scelto questo titolo per sottolineare il fatto che la felicità è lo scopo della vita, è il grande desiderio di Dio e che l’amore è la strada per essere felici. Penso che tutti possiamo essere concordi nel riconoscere l’importanza

dell’amore come strada verso la felicità, a prescindere da ogni religione e cultura; qualcuno può essere indifferente al fatto religioso ma tutti siamo interessati all’amore. Non ho mai ascoltato persone teorizzare l’odio verso gli altri esseri umani; tutti siamo in fondo convinti che l’amore sia la strada maestra verso una vita bella e gioiosa. Chi è credente sa che il vero modo di amare Dio, di renderlo felice, è quello di amarci fra noi; la gioia di Dio è quella di vederci uniti come fratelli e sorelle. In questa situazione di unità l’amore per Dio e l’amore per il prossimo coincidono”.

Inoltre il vescovo ha sottolineato che la religione cristiana discende da un fatto storico: “La religione cristiana è prima di tutto figlia di un fatto storico: la Resurrezione di Gesù il giorno di Pasqua; Gesù è vivo, è risorto, è Dio. Gli apostoli e molti discepoli sono i testimoni oculari di Gesù risorto e lo hanno comunicato ai loro successori, oralmente e scrivendo testi chiamati vangeli; dai cosiddetti Padri Apostolici, coloro che hanno conosciuto personalmente gli apostoli ma non hanno incontrato direttamente Gesù, attraverso una lunga catena di fedeltà, pagata fino al sangue del martirio, questa certezza di Fede è arrivata fino a noi. E i vescovi sono i successori dei dodici apostoli. Ogni settimana, la domenica, celebriamo la Pasqua basandoci su questa catena di testimonianza comunitaria che collega gli apostoli e la comunità primitiva con i vescovi e la comunità cristiana di oggi: la chiesa è il popolo che da duemila anni trasmette la verità della resurrezione di Gesù e quindi la sua divinità”. 

La lettera è un invito ad ‘essere costruttori del Regno di Dio: “Essere costruttori del Regno di Dio, il regno dell’amore, della pace, della gioia è la vocazione più bella che abbiamo ricevuto, è il senso della vita; tutti siamo invitati a fare la nostra parte, a lavorare nella vigna del Signore, sani e malati, ricchi e poveri, uomini e donne, giovani e adulti, bambini e anziani, sacerdoti e laici, di qualunque nazione e cultura.

Un modo per essere costruttori del regno, messaggeri di amore, missionari di pace è raccontare la presenza trasformante di Dio nelle nostre giornate, nelle grandi svolte della nostra esistenza, le luci quotidiane, la gioia dei piccoli gesti d’amore, l’essere guidati, aiutati, consolati dallo Spirito Santo; è importante raccontare con umiltà, con le parole e le opere, la gioia che abbiamo provato nel compiere gesti di carità, di bontà, di perdono, di servizio verso gli ultimi, verso chi soffre, sostenuti dallo Spirito Santo”.

Al contempo mons. Anselmi ha evidenziato la necessità di pregare: “Pregare è un atteggiamento del cuore sempre presente durante la giornata. Pregare è un modo di vivere; pregando ogni ghiaccio si scioglie, ogni durezza si ammorbidisce, ogni paura svanisce, le parole incomprensibili diventano chiare, la stanchezza diventa vigore, le lacrime puliscono gli occhi e ci aiutano a vedere meglio. Lo Spirito Santo di Gesù prega in noi. La preghiera personale ci è necessaria per assaporare il senso della vita”.

Ed ecco la necessità del discernimento per porsi in ascolto dello Spirito Santo: “Se lo Spirito Santo è presente in ogni essere umano, per scoprire ed ascoltare la voce dello Spirito, è necessario che le persone siano capaci di ascoltare gli altri, nel silenzio, nella profondità, nella verità e nella libertà. Lo stare insieme fra persone dovrebbe sempre avere le caratteristiche dell’ascolto e della scoperta di ciò che è più luminoso, brillante, profumato. Sarebbe bello che, quando ci si ritrova, tutti avessero la possibilità di parlare e di essere ascoltati.

Chi è più espansivo, esperto, preparato deve saper dare spazio agli altri, a tutti, ai più giovani; tutti devono potersi esprimere. La conversazione spirituale in cui tutti parlano e sono ascoltati è una scuola per non giudicare rapidamente, per non voler imporre a tutti i costi la propria idea. Ogni conversazione dovrebbe iniziare con l’invocazione dello Spirito, proseguire con l’ascolto della Parola di Dio, essere pacata, leggera, mite, buona, sottolineare ciò che hanno detto gli altri e concludersi con un rendimento di grazie a Dio. La conversazione spirituale può aiutare a scegliere attraverso il discernimento personale e comunitario”.

Non poteva mancare un capitolo dedicato a don Oreste Benzi: “Lo Spirito Santo attraverso don Oreste ha donato al mondo l’intuizione pastorale che la famiglia è il grembo originario in cui il Vangelo si incarna e può essere vissuto. Le Case-Famiglia da lui volute sono luci che brillano, illuminano la Chiesa e la società, suscitano il desiderio in altre famiglie di essere aperte, accoglienti, vere chiese domestiche, sacramenti dell’amore di Dio, scaldate dalla presenza eucaristica.

Don Oreste, e tante persone con lui, hanno risposto a una molteplicità infinita di domande di amore; i preti e i giovani sono stati le sue grandi passioni testimoniate dalla vita comune da lui vissuta con alcuni fratelli sacerdoti e dall’impegno costante con e verso i giovani, nei campi estivi ed in mille esperienze. Con i giovani e per i giovani si è speso in tutte le situazioni invitandoli ad essere santi e ad affidarsi a Gesù.

Ha seminato il Vangelo in tutti i terreni possibili: la dipendenza dalle droghe, la sofferenza del carcere, la schiavitù della prostituzione, la cura della disabilità, l’accoglienza dello straniero, l’amicizia con le persone nomadi e Rom, l’amore per la vita nascente, l’impegno per evitare ogni interruzione di gravidanza e la disponibilità ad aiutare le famiglie e ad accogliere i neonati, la gratitudine verso gli anziani, l’operatività a favore della pace, l’animazione missionaria.

La molteplicità di queste risposte e l’opera dello Spirito Santo ha fatto nascere un’associazione di laici e consacrati, ispirata alla bontà di San Giovanni XXIII che chiedeva ai giovani porte, finestre, chiese e case aperte”.

Un capitolo è dedicato alla famiglia, che Dio chiama attraverso il matrimonio: “Il matrimonio è una chiamata di Dio, nasce nella comunità cristiana. Tutti devono pregare perché i ragazzi scoprano questa vocazione. Le persone si innamorano se sentono che qualcuno le ama, si prende cura di loro.

Il sacramento del matrimonio è la presenza di Dio nella vita dei due coniugi; c’è chi dice che l’amore può spegnersi e finire, ma la preghiera, la Parola di Dio, i sacramenti dell’Eucarestia e della Confessione sono Amerai, sarai felice e godrai di ogni bene ora e nei secoli eterni sostegni sicuri perché il fuoco dell’amore e dell’unità continuino ad ardere incessantemente”.

Un pensiero anche per le famiglie separate e divorziate: “Un caro abbraccio alle coppie separate, divorziate, risposate civilmente e ai vostri figli; la Chiesa di cui fate parte vi è vicina, prega per voi e con voi desidera cercare nuove strade di presenza nella comunità cristiana perché possiate far fruttificare il dono che ogni essere umano porta con sé; cercate un accompagnatore spirituale e cominciate a camminare secondo lo Spirito di Gesù.

In alcuni casi, dopo un percorso sempre doloroso, gli sposi hanno scoperto che alla base della loro separazione c’era una scelta non pienamente consapevole; in queste situazioni si può arrivare a una dichiarazione di nullità del matrimonio che non consiste nella cancellazione del sacramento bensì nell’affermazione che il sacramento, per vari motivi, non c’è mai stato. Oggi il percorso per la dichiarazione di nullità è più semplice di un tempo”.

Inoltre il vescovo ha sollecitato ad una presenza in politica: “L’impegno in politica è una vera e propria vocazione; gli amministratori locali hanno la possibilità di ben operare per la vita delle persone; invito giovani e adulti a rendersi disponibili ad assumere ruoli di responsabilità e coordinamento nell’associazionismo, nel volontariato, nelle organizzazioni di categoria, negli organismi di partecipazione a scuola e nelle università; servire il bene comune può essere faticoso ma dona gioia.

Anche studiare, leggere, informarsi, partecipare, andare a votare nei vari turni elettorali, cercando di sostenere le realtà e le persone che portano idee in armonia con il vangelo, sono gesti di amore per il bene comune”.

La lettera si chiude con una visione giubilare: “E’ bello che tutte le persone sappiano ascoltare le richieste di aiuto che silenziosamente ci raggiungono, che tutti sappiano dare speranza, senza giudicare, perché la persona è più grande anche delle proprie fragilità. La storia della nostra salvezza è piena di peccatori convertiti, perdonati: Mosè, il grande re Davide, San Paolo persecutore della Chiesa.

Una persona mi ha confidato che vorrebbe vivere un giubileo cantato, un inno di lode alla presenza di Dio. Le chiese aperte, abitate dal canto e dalla preghiera, anche in pausa pranzo o di sera, sarebbero un segno bello del Giubileo. Il Giubileo ha bisogno di tutti, ed in particolare, di volontari, disponibili ad accompagnare i pellegrini nella visita ai luoghi giubilari ed a proporre un cammino spirituale”.

(Foto: Diocesi di Rimini)

Mons. Trevisi: san Giusto un innamorato della sua città

Ieri Trieste ha festeggiato il patrono san Giusto, martirizzato il 2 novembre 303 durante la persecuzione di Diocleziano e Massimiano per le sue opere ed elemosine, fu denunciato di empietà (sacrilegium) da alcuni suoi concittadini. Secondo la legge romana il giudice doveva verificare di persona l’accusa. Perciò Giusto fu convocato nello studio privato (consistorium) del magistrato ed invitato a sacrificare agli dèi romani, a cui oppose un fermo rifiuto. Nella scrupolosa osservanza delle procedure, il magistrato Manazio mandò Giusto in carcere per una pausa di riflessione. Il giorno seguente Giusto, nuovamente esortato a sacrificare, rifiutò; venne quindi fustigato e, poiché persisteva nel suo rifiuto, condannato alla morte per annegamento.

Nell’omelia per il pontificale della festa patronale mons. Enrico Trevisi, vescovo di Trieste, ha rappresentato il patrono come cittadino: “Mi piace pensare a san Giusto come a un cittadino che non ha fatto mancare il suo apporto per costruire la città. La tradizione ce lo presenta come un uomo conosciuto per le sue opere e le sue elemosine. La fede non si riduce a un sentimento ma è vita che si esprime in tutte le dimensioni, e dunque anche nelle opere e pure nella carità verso i poveri. Nella settimana sociale siamo stati sollecitati a prenderci cura della città, a partecipare attivamente e nelle forme più svariate e in tutte le direzioni. Il papa ha parlato della crisi della democrazia come di un cuore ferito, infartuato”.

Ed ha sottolineato l’importanza data da san Giusto per le opere di carità: “Mi piace pensare a San Giusto come a un cittadino che si è dato da fare con le opere e con la carità. Non viene ricordato come uno che si distingueva per le polemiche ma come uno che viveva facendo del bene, prendendosi cura dei poveri”.

Quindi ha invitato la comunità ad imparare dal patrono: “Talvolta, è così in tutto il mondo e anche a Trieste, si rischia di scivolare in riletture dove tutto è polemica e scontro. Dove fatichiamo a convertirci ad uno stile di confronto sereno e aperto, a un dialogo delle buone pratiche che non devono essere interpretate contro qualcuno, ma a favore del Bene comune, a favore di chi rischia di essere scartato… A me piace una comunità cristiana che sull’esempio di San Giusto è parte viva della città e si spende coraggiosamente per le persone vulnerabili. Non con lo spirito partitico, di una parte contro l’altra, ma nella ricerca delle tracce del Dio incarnato nella storia di tanti crocifissi che ci abitano a fianco, che ci camminano a fianco”.

San Giusto ha compiuto le opere di carità in quanto la fede rende liberi: “La fede in Gesù mi rende libero dalla preoccupazione del mio successo individuale, e dunque libero di prendermi cura dei fratelli. Libero di rischiare la vita nell’amore, come Gesù. Liberi anche di andare oltre i pregiudizi del tempo, per osare con Gesù lo scandalo dell’amore evangelico. Fino a dare totalmente noi stessi: nell’essere appassionati per la vita, per il bene comune, per la pace e la giustizia, per dare compagnia ai malati, nel rilanciare attenzione alle famiglie, nell’affrontare l’inverno demografico, nello sfidare l’emergenza freddo”.

Per questo mons. Trevisi ha chiesto ai fedeli di imparare a credere in Gesù, che rende liberi, dall’esempio di san Giusto: “Da san Giusto (il chicco di grano, caduto in terra e che dà molto frutto) impariamo a credere in Gesù smisuratamente: Gesù ci rivela il volto del Padre e dunque il volto del vero Dio: il Dio che ci ama e vuole la nostra vita, la nostra pienezza di vita; ed è Lui che ci rivela come guardare ai fratelli e uscire dallo stereotipo dello scontro, dell’essere gli uni contro gli altri. Credere in Gesù ci fa liberi dalle ideologie, liberi dal consenso a tutti i costi (anche a prezzo delle menzogne), liberi di spenderci nell’amore, fino a dare la vita”.

E per questa fede liberante è stato martirizzato: “Di fronte alle prepotenze del suo tempo san Giusto non è indietreggiato. Ha continuato a professare la sua fede in Gesù Cristo e a vivere spargendo buone opere e carità. Non possiamo continuare a ripetere che i nostri sono tempi difficili, quasi a giustificarci di una fede vissuta con mediocrità, anteponendo ad essa lo spirito del mondo. San Giusto vive la sua appartenenza a Gesù fino a morire martire, cioè a morire amando Dio ed il prossimo. Oggi assistiamo a tante persone che muoiono uccidendo sia nelle guerre come nella criminalità organizzata ma anche in relazioni malate che ci sono talvolta tra uomini e donne. E altre persone che muoiono mentre il mondo resta indifferente e distratto!”

San Giusto invita ad una fede coraggiosa:  “Niente di meno di questo: dare la vita con Gesù, nel nome di Gesù. San Giusto questo insegna anche oggi a tutta Trieste. Non una fede mediocre, non una fede tiepida e accomodante. Invece una fede viva, appassionata, radicale, coraggiosa, entusiasta, contagiosa… Come ci insegnano anche tanti cristiani del nostro tempo, martiri in tante parti del mondo anche in questo nostro tempo”.

Mentre nella veglia di preghiera mons. Trevisi aveva invitato i cittadini alla carità: “Troverete così il vostro modo personale di vivere la carità, senza ipocrisia, detestando il male, con affetto fraterno, gareggiando nella stima reciproca. Abbiamo bisogno di giovani che non sono pigri nel fare il bene. Che non sono lieti nella speranza… premurosi nell’ospitalità. A questo riguardo invito a divenire volontari nel dormitorio di via Sant’Anastasio. Trovate l’emozione del fare un puzzle con dei bambini che hanno bisogno di recuperare la loro infanzia perduta. Oppure sogno di poter rilanciare volontariato giovanile con i bambini al Burlo. E vi educheranno a quello che dice san Paolo: a rallegrarvi con chi è nella gioia e a piangere con quelli che sono nel pianto!”

Papa Francesco invita a ricucire lo strappo delle disuguaglianze di Roma

‘Ricucire lo strappo: oltre le disuguaglianze’: è stato il titolo dell’Assemblea della Diocesi di Roma che si è svolta oggi pomeriggio nella basilica di san Giovanni in Laterano, a due mesi dall’avvio del Giubileo, alla presenza di papa Francesco, richiamando il convegno svoltosi cinquanta anni fa sui ‘mali’ di Roma, in cui la Chiesa si è messa in ascolto della città:

“Si è trattato di un evento che ha segnato il cammino ecclesiale e sociale della Città e, in quell’occasione, la Chiesa di Roma si è messa in ascolto delle tante sofferenze che la segnavano, invitando tutti a riflettere sulle responsabilità dei cristiani di fronte ai mali della Chiesa, ai mali della Città, entrando in dialogo con essa e scuotendo la coscienza civile, politica e cristiana di tanti”.

Il papa ha seguito le tappe, che hanno condotto a questo evento conclusivo, in cui è stata esposta la situazione, in cui si trova la capitale: “Se da una parte tutto questo ci addolora, dall’altra ci fa comprendere quanto sia ancora lunga la strada da percorrere. Sapere che ci sono persone che vivono per strada, giovani che non riescono a trovare un lavoro o una casa, ammalati e anziani che non hanno accesso alle cure, ragazzi che sprofondano nelle dipendenze dalle droghe e in molte altre dipendenze ‘moderne”’ persone segnate da sofferenze mentali che vivono in stato di abbandono o disperazione”.

Tale situazione pone alcune domande fondamentali, su cui riflettere, partendo dalla necessità di portare ai poveri il lieto annuncio: “ I poveri saranno sempre con noi. I poveri sono la carne di Cristo e, come un sacramento, lo rendono visibile ai nostri occhi…

E la buona notizia da annunciare ai poveri è anzitutto dire loro che sono amati dal Signore e che agli occhi di Dio sono preziosi, che la loro dignità, spesso calpestata dal mondo, davanti a Dio è sacra. Ma tante volte, noi cristiani diciamo questo a parole, e poi non facciamo i gesti che lo rendono credibile”.

Per questo il papa ha sottolineato che il povero è ‘è carne della nostra carne’: “La Chiesa è chiamata ad assumere uno stile che mette al centro coloro che sono segnati dalle diverse povertà, i poveri di cibo e di speranza, gli affamati di giustizia, gli assetati del futuro, i bisognosi di legami veri per affrontare la vita. Rendiamoci presenti presso i poveri e diventiamo per loro segno della tenerezza di Dio! Dio è presente con tre atteggiamenti: la vicinanza, la compassione e la tenerezza. E un cristiano che non si fa vicino, che non è compassionevole e che non è tenero non è cristiano. Vicinanza, compassione e tenerezza. Così imitiamo Dio”.

Per questo occorre ricucire lo ‘strappo’ nella città: “Una città che assiste inerme a queste contraddizioni è una città lacerata, così come lo è l’intero nostro pianeta. Ecco che allora è necessario ricucire questo strappo impegnandoci a costruire delle alleanze che mettano al centro la persona umana, la sua dignità. Per fare questo occorre lavorare insieme, armonizzare le differenze, condividere ciascuno il dono e la missione che ha già ricevuto. E questo significa anche crescere nel dialogo: il dialogo con le istituzioni e le associazioni, il dialogo con la scuola e la famiglia, il dialogo tra le generazioni, il dialogo con tutti, anche con chi la pensa diversamente”.

E’ stato un invito ad uscire dall’indifferenza, che porta al disinteresse: “Per ricucire abbiamo bisogno innanzitutto di uscire dall’indifferenza e lasciarci coinvolgere in prima persona! Sarebbe bello se dall’incontro di stasera si uscisse con qualche impegno concreto, verificabile sulla linea di uno sforzo comune mirato ad azioni capaci di aiutarci a superare le disuguaglianze”.

Quindi il papa ha chiesto di non trascurare il pensiero sociale della Chiesa attraverso la formazione delle coscienze: “Ma, intanto, vorrei chiedervi questo: valorizzate di più, nella pastorale ordinaria e nella catechesi, il pensiero sociale della Chiesa. E’ importante infatti, formare le coscienze alla dottrina sociale della Chiesa, perché il Vangelo sia tradotto nelle diverse situazioni di oggi e ci renda testimoni di giustizia, di pace, di fraternità. E tessitori di una nuova rete sociale e solidale nella Città, per ricucire gli strappi che la lacerano”.

Questi due passaggi conduce alla semina della speranza, che non delude mai, ricordando mons. Di Liegro e molte altre persone: “Sorelle, fratelli, la speranza non delude! Non delude mai. Andiamo sulla strada della speranza. In questa Città hanno operato uomini e donne che davanti ai problemi non sono rimasti a guardare e nemmeno si sono limitati a dire o a scrivere tante cose.

Penso specialmente ad alcuni sacerdoti, veri uomini di speranza, come don Luigi Di Liegro; penso anche a tanti laici che si sono messi all’opera rispondendo al bisogno di gettare un seme di bene, di attivare processi nella speranza che qualcun altro si sarebbe preso cura di quel piccolo seme fino a farlo diventare un albero grande. Se oggi, ad esempio, è molto forte la spinta al volontariato è perché qualcuno ci ha creduto e ha iniziato con piccoli passi”.

Quindi il bene va contagiato: “Quel bene ha contagiato tanti altri fino a diventare stile condiviso. Oggi dobbiamo avviare nuovi processi, nuovi processi di speranza: sognare la speranza e costruire la speranza attraverso il nostro impegno, che è un impegno responsabile e solidale! Osate!

Tutti voi osate nella carità, non abbiate paura di sognare imprese grandi anche se queste iniziano con impegni piccoli. Il poeta Charles Peguy afferma così, e, a questo proposito, concludo con quanto diceva sulla speranza: ‘La Fede è una Sposa fedele. La Carità è una Madre. La Speranza è una bambina da nulla. Eppure è questa bambina che attraverserà i mondi’. Andiamo avanti con la speranza”.

(Foto: Santa Sede)

A Milano mons. Delpini rivolge un invito alla partecipazione della vita cristiana e sociale

Sabato 7 settembre nel duomo di Milano mons. Mario Delpini ha celebrato la messa pontificale, che ha aperto l’anno pastorale della diocesi ambrosiana in occasione della festa della Natività di Maria, patrona della cattedrale con un’omelia in cui ha richiamato alcuni temi della proposta pastorale elaborata nello scorso giugno (‘Basta. L’amore che salva e il male insopportabile’), raccontando una città da abitare:

“Sì, vorremmo una città dove sia bello abitare, una città giovane, una città accogliente, una città con tanti bambini contenti e tante famiglie serene. Ma constatiamo che la città invecchia, le famiglie sono stanche per la frenesia quotidiana e per le tensioni esasperanti che le attraversano.

Sì, ci impegniamo per vivere con coerenza e per annunciare con gioia il vangelo di Gesù, la speranza che offre; sì, ci piacerebbe costruire comunità unite, liete, ricche di futuro. Ma se ci mettiamo a calcolare i risultati, constatiamo il nostro fallimento”.

L’arcivescovo ha riportato allora le raccomandazioni di san Paolo ai cristiani dell’epoca, validi ancora oggi: “Ecco non sono necessari molti esempi per constatare il realismo di quello che Paolo scrive: nella logica della ‘legge’ gli adempimenti sono impossibili, la legge è impotente. Che cosa si può pensare della storia dell’umanità? La storia umana è una storia di fallimenti e di sconfitte del bene.

Eppure lo sguardo credente legge la storia umana come storia della salvezza. Che cosa di buono può venire da questa serie di generazioni di uomini impastati di santità e di peccato? A che serve, quale messaggio può offrire il lungo elenco di nomi di personaggi famosi e sconosciuti, ammirevoli e spregevoli? Ecco, questa storia del male scoraggiante e del bene precario e fragile è la storia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo”.

Però nell’impotenza dell’umanità si realizza l’opera di Dio: “Dunque dentro il destino di impotenza e di sconfitta c’è una rivelazione dell’opera di Dio che salva. Paolo invita condividere la sua fede: Dio ha reso possibile quello che era impossibile alla Legge e ai buoni propositi, mandando il proprio Figlio in una condizione di fragilità, come quella di tutti, perché si apra la via della salvezza, per coloro che camminano non secondo la carne, ma secondo lo Spirito”.

Tale opera di Dio si compie nel Suo Figlio: “L’opera di Dio si compie in Gesù e noi professiamo che proprio in lui incontriamo la verità di Dio e la rivelazione del suo amore, proprio in Gesù, figlio di Davide, figlio di Abramo.Noi desideriamo fissare lo sguardo su Gesù per imparare tutto quello che c’è da sapere e tutto quello che si può dire di Dio. Perciò cerchiamo di correggere l’inclinazione diffusa a immaginare un Dio, senza dipendere dalla rivelazione di Gesù”.

Per questo nell’omelia mons. Delpini ha ‘denunciato’ l’abbandono della frequenza alle celebrazioni eucaristiche. “Il ricordo del concilio di Nicea, che il nostro padre Ambrogio ha predicato con tanto vigore e costanza, può essere per noi un rimprovero: si ha infatti l’impressione che il linguaggio diffuso e anche la pratica ordinaria orientano a dimenticare la mediazione di Gesù, a fare a meno di lui.

Un sintomo preoccupante è la consuetudine di abbandonare la celebrazione del segno che Gesù ha indicato perché si celebri il memoriale della sua opera di salvezza, cioè l’eucaristia. La Messa sembra ridotta a una cerimonia che può piacere o annoiare. Molti dichiarano che non hanno bisogno di partecipare alla celebrazione della Pasqua di Gesù per essere brava gente e per fare tanto bene”.

Questa mancanza può portare i cristiani al disimpegno ‘civile’: “ Forse per questo i buoni propositi sono troppo inconcludenti, forse per questo l’impegno risulta frustrante, forse per questo il cristianesimo si presenta con una sorta di tristezza per l’elenco delle cose che si dovrebbero fare, ignorando la gioia di essere in comunione con Gesù, con la pienezza della sua gioia”.

Inoltre, durante la celebrazione eucaristica si è svolto anche il Rito di ammissione di tre seminaristi della Diocesi al percorso verso il diaconato e l’ordinazione sacerdotale e di otto laici che iniziano il cammino per diventare diaconi, in quanto la vita è una vocazione al servizio:

“L’opera di Dio si compie in Gesù e Gesù entra nella storia umana come la voce amica che chiama alla sequela. La salvezza che Dio opera in Gesù non è in primo luogo un evento cosmico, ma una comunione, una relazione personale, la vocazione…

Il servizio ministeriale non è una scelta di cui ciascuno è il protagonista, con la presunzione di rendersi utile, con la convinzione di avere qualche cosa da dare al Signore e alla Chiesa. E’ piuttosto la risposta alla chiamata della Chiesa, di questa concreta comunità cristiana che sceglie, dopo attento discernimento, persone disponibili a far parte del clero diocesano per continuare la missione della Chiesa”.

Al termine della celebrazione, poi, l’arcivescovo, dopo avere ricordato alcuni appuntamenti che segnano l’inizio del nuovo anno pastorale, si è soffermato sulle ‘tante sofferenze’ che si vivono “anche nella nostra Diocesi: drammi familiari, violenza nelle case, violenza nelle strade, incidenti sui posti di lavoro, carceri che sono troppo spesso luoghi di tragedie e di difficoltà che sembrano intollerabili… Il Signore ci aiuti ad essere seminatori di pace, tessitori di relazioni che aiutino a superare queste forme di violenza. La presenza dei cristiani, l’opera della Chiesa sia un segno della benedizione di Dio”.

(Foto: arcidiocesi di Milano)

Olga di Kiev: la diffusione del cristianesimo nella Rus’

Nacque tra l’890 e il 925 d.C. Quando aveva circa 15 anni il principe Igor la vide e se ne innamorò, prendendola in moglie. Igor era figlio di Rurik, una figura leggendaria, fondatore della federazione tribale Rus’ di Kyiv, un territorio che comprendeva parte dell’attuale Russia, Ucraina e Bielorussia e che aveva la sua capitale a Kiev. Il termine ‘Rus’, da cui derivano i termini di Russia e Bielorussia, è probabilmente di origine finnica e significa ‘uomo venuto dal mare’. Igor intraprese due campagne militari contro Costantinopoli, entrambe fallimentari.

Mons. Lorefice: santa Rosalia invita a compiere scelte coraggiose

“Le sono grato per l’invito a partecipare alla celebrazione dell’Eucaristia, presieduta dal Cardinale Parolin, in occasione del quarto Centenario del ritrovamento delle reliquie di Santa Rosalia… Come Sua Santità Francesco ha ricordato, Santa Rosalia è donna di speranza, che ha operato una scelta controcorrente. Una scelta, vorrei aggiungere, quasi di scandalo per i criteri della società in cui Santa Rosalia viveva e ancor più per quelli della società di oggi. Speranza e scelte coraggiose, fuori dalle convenienze: sono gli elementi di cui avvertiamo, con sempre maggiore urgenza, grande bisogno, nella speranza che le celebrazioni del Festino inducano a praticarle”: in occasione del Festino di santa Rosalia il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, ha scritto all’arcivescovo di Palermo, mons. Corrado Lorefice, in occasione del Giubileo Rosaliano.

Ed oggi l’arcivescovo di Palermo ha celebrato una messa per la Casa comunale, invitando le Istituzioni a far ‘fiorire’ la città: “Rosalia è fiorita e fiorisce, qui a Palermo, come un giglio profumato e come una rosa fulgida, perché è stata pervasa dall’amore di Dio. Dio trasfigura la vita di noi umani, di noi creature! Rosalia siamo noi! A maggior ragione se siamo stati rigenerati dalle acque battesimali, se portiamo nel nostro DNA umano il DNA divino di Cristo Gesù”.

Ed ha ripetuto il messaggio di papa Francesco, fatto alcuni giorni fa, con l’invito ad aprirsi alla speranza: “Siamo di fronte ad una scelta epocale. Il Giubileo di Rosalia ce la mette davanti. I giorni che verranno potranno essere giorni di grazia, in cui fasciare le piaghe dei cuori spezzati, proclamare la libertà degli schiavi, consolare tutti gli afflitti annunziare la gioia dell’alba di un mondo nuovo. Per farlo però dobbiamo avere il coraggio di abitare nella notte e di stare accanto alla sentinella di Isaia, chiedendole incessantemente, tutti insieme: ‘Sentinella, quanto resta della notte?’ Rosalia è la sentinella della nostra Palermo”.

E’ un invito a prestare attenzione alle domande di chi ha bisogno: “Dobbiamo ripetere all’infinito la nostra domanda e quella che sale dalla Città, affiancando i disperati, i senza luce, tutti coloro che in carcere o sulle nostre strade sempre più insicure e accidentate gridano senza voce il loro desiderio di vita, di riscatto e di liberazione; gli scoraggiati e gli abbandonati nelle nostre case, negli ospedali e nelle case di riposo per anziani; ascoltando il lamento che sale dai vicoli e dalle piazze del centro storico segnati da violenza, furti e aggressioni, dallo spaccio a viso aperto delle nuove devastanti droghe che travolgono i nostri giovani”.

A queste domande si deve dare voce, nel ricordo della strage in cui persero la vita Borsellino e gli agenti della scorta: “Dobbiamo levare noi la nostra voce, per tutti i dimenticati, per quelli che restano all’ombra del dolore: nella nostra Palermo bella, tormentata e tormentosa. Nella nostra Palermo che si appresta a fare memoria di un suo illustre cittadino, il giudice Paolo Borsellino e degli uomini e donne della sua scorta barbaramente uccisi dalla mafia, strage che attende ancora (non senza connivenze, silenzi e depistaggi) verità e giustizia”.

Perciò la testimonianza di vita di Paolo Borsellino non deve essere persa: “Rosalia ci annuncia oggi che la parola in cui è racchiusa la speranza non è l’odio ma l’amore, l’unica vera forza trasformante la convivenza umana.  I tanti martiri della giustizia e della fede della nostra città ce lo confermano. Il 20 giugno 1992 Paolo Borsellino, facendo memoria del suo fraterno amico Giovanni trucidato insieme alla scorta a Capaci disse: ‘Perché non si è turbato; perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore!’ Chi ama Dio ama la città. Spera per e con la Città”.

E’ n invito agli amministratori locali di ‘servire’ la città per amore: “Questi hanno contribuito alla liberazione e alla trasfigurazione di Palermo amandola perdutamente: ‘amore urbis meae’. Amministratori di questa nostra Città il Giubileo Rosaliano vi chiede, vi ordina di amare questa Città! Chiede e ordina a tutti noi di amarla, con tutto il nostro essere, il nostro cuore, le nostre forze. Dimentichi di noi stessi, senza la ben minima ombra di un interesse personale o di parte. Disinteressatamente. Solo per amore”.

Infine leggendo il messaggio inviatogli al presidente Mattarella l’arcivescovo ha invitato i cittadini a compiere scelte ‘coraggiose’: “Rosalia ha vegliato e veglia su questa Città, ma veglierà anche su come saremo autenticamente capaci di praticare ‘scelte coraggiose, fuori dalle convenienze’ per dare gambe alla speranza di quanti la abitano come Casa Comune.  Perseveriamo nell’amore, perché Palermo ha bisogno di chi la ami con i fatti e non solo a parole. Santa Rosalia, prega e veglia su questa tua Città”.

Mentre ieri l’arcivescovo di Palermo ha aperto le porte del palazzo arcivescovile per dialogare con i rappresentanti di tutti i popoli e religioni presenti in città: “Ci ritroviamo stamattina per innalzare il vessillo della diversità come benedizione, come preziosa risorsa. Per dire che la convivenza è possibile, che l’inimicizia non è scritta nel DNA della storia, che la guerra non è il destino del mondo. Lo diciamo sommessamente nella preghiera che ci unisce in quanto anelito, in quanto sospiro dell’umano levato verso l’altro, verso l’oltre, in tutte le lingue e in tutti i modi possibili.

Ma lo gridiamo anche, in questa ‘casa delle genti’, così come nella piazza di Palermo (simbolo di ogni piazza del mondo), perché non possiamo rassegnarci a una Terra violentata dalla perversa logica economica della massimizzazione del profitto, divisa e ferita dall’ingiustizia e dal sopruso, in cui i poveri, i piccoli vengono calpestati, annientati, trattati da escrementi della storia da parte di chi non sa che il loro esserci è il fango, l’adamà della vita”.

Ed ha narrato la storia di come fu ritrovato il corpo di santa Rosalia grazie ad una donna, Girolama La Gattuta: “Girolama trova il corpo di una donna che sarà la salvezza di Palermo dalla peste. E’ molto bello che stamattina ci ritroviamo per ricordare assieme questa scena così emozionante, 400 anni dopo. E’ Girolama, è una donna a essere scelta per riportare a Palermo il corpo di Rosalia. E’ un dato su cui riflettere. In una società come quella del XVII secolo, in un contesto storico in cui nulla era concesso alle donne del popolo, Rosalia ha scelto una donna come Girolama, in qualità di ‘apostola’ della sua memoria e della sua carne, così come Gesù di Nazareth scelse in quel mattino di Pasqua di farsi incontrare e annunciare dai soggetti meno credibili e considerati nella tradizione culturale del suo tempo: un manipolo di povere donne intrepide e amanti”.

E spesso le donne sono portatrici di ‘belle’ notizie: “Si parla tanto oggi della questione femminile, del divario di genere, della violenza sulle donne, piaghe di un mondo che fatica a riconoscere i nuovi soggetti, a fare spazio a chi non ne ha o non ne ha mai avuto. In questo contesto, il rinvenimento di Girolama ha il valore di una profezia. Il cammino di manifestazione della potenza e della bellezza del femminile è iniziato, nel racconto del Vangelo di cui oggi io sono testimone in mezzo a voi, [è iniziato] il mattino di Pasqua, si è rinnovato ogni volta che una donna ha offerto la propria testimonianza viva dell’euanghelion fino alla morte, ha attraversato popoli e culture. È stato il cammino di Sarah e di Rachele, di Ester e di Ruth, di Maria di Nazareth e di Maria di Magdala, di Mahapajapati Gotami e di Fatima al-Fihri, di Caterina da Siena e di Ildegarda di Bingen, di Rosalia Sinibaldi e Sarada Devi, di Etty Hillesum e di Nadia Murab”.

(Foto: Arcidiocesi di Palermo)

COP: ripensare la parrocchia nella grande città

“Abbiamo sempre chiamato settimana del COP questo nostro incontrarci ogni anno  a riflettere sulla pastorale italiana e quest’anno non potevano non partire dalla sinodalità, come esperienza che ha caratterizzato tutte le diocesi italiane, per acquisire il lavoro fatto e per fare un passo ulteriore: declinare la categoria sinodalità dentro le nuove comunità parrocchiali che si stanno formando in molte regioni italiane, perché il termine “sinodalità” non risuoni come un vuoto refrain, ma apra a ricadute concrete, attraverso una profonda conversione. L’altro elemento che abbiamo voluto approfondire è la missione: una comunità vera non può non essere comunità missionaria, con un movimento ‘in uscita’, quindi”.

Il presidente del Centro Orientamento Pastorale (COP), mons. Domenico Sigalini, ha concluso la 73^ Settimana di aggiornamento sociale, invitando a riflettere sul tema della parrocchia sinodale e missionaria, ‘sempre vicina alla gente’, svoltosi a Seveso, in cui teologi, pastoralisti, liturgisti, ma anche esperti di nuove tecnologie e rappresentati dell’associazionismo hanno tentato di declinare le prospettive di una trasformazione magmatica e impetuosa che obbliga a rivedere certezze e abitudini rassicuranti: “La preoccupazione e l’obbligo di abitare le trasformazioni che stiamo conoscendo come Chiesa: ci fa porre qualche domanda: Cosa fare? Cosa stiamo diventando? Missionari dentro una città che non abbiamo generato, anzi che ci genera, allo stesso tempo capaci di ritrovare le tracce dello Spirito, che ci rende protagonisti in questa storia di piena trasformazione. Milano come Ninive è una grande metafora”.

Ed ha ricordato la lettera pastorale del card. Martini rivolta alla città di Milano agli inizi degli anni ’90: “E’ una metafora d’invito ad imparare a guardare la città come Giona guardava Ninive, ovvero una città che ci può sembrare estranea ma che è già abitata da Dio. Vogliamo ritrovare le tracce di Dio che abita in questa città, in un momento in cui abbiamo la sensazione che la trasformazione invece ci ‘espella’ dalla città. Lo possiamo fare accettando un metodo, che è il rovesciamento di prospettiva, ovvero non guardare sempre a chi siamo noi dentro la città ma a guardare a chi è la città, e come ci guarda. Un metodo che possiamo eseguire in tre tappe”.

Il presidente dell’Azione Cattolica ambrosiana, Gianni Borsa, ha invitato ad incontrare le ‘città’ nella città: “Ci riferiamo peraltro alla città riconoscendo di essere sempre meno radicati in un luogo fisico (la città appunto). Tra pendolarismo per studio o lavoro, delocalizzazioni, mobilità e viaggi, internet e social media, tra reale e virtuale… diventiamo sempre più residenti non abitanti di infiniti non-luoghi. I nonluoghi descritti da Marc Augè, spazi dell’anonimato ogni giorno più numerosi e frequentati da individui simili ma soli (treni e metropolitane, supermercati, parcheggi, stadi).

Le piazze oggi sono virtuali, gli incontri avvengono spesso on line e sui social, le chiacchiere uozzappate… Siamo al contempo, qui e altrove grazie al digitale. Siamo vicini – in metropolitana – eppure distanti. Così gli spazi fisici tendono a perdere o dilatare i confini: pensiamo solo al profilo della parrocchia, che non a caso è stata definita liquida”.

E’ stato un invito ad ‘uscire’ da casa: “Per capire davvero le città, per capire dalla città, occorre “perdersi” nella città. Viverla intensamente. Necessario uscire da casa (uscire dalla chiesa, andare oltre il sagrato). Charles Dickens, cantore della Londra vittoriana, racconta di essersi smarrito da piccolo nella City londinese: così comincia ad apprezzare e amare la città.

Il Renzo dei ‘Promessi sposi’ apprende grandi lezioni di vita dopo essersi immerso, fra tante peripezie, nella Milano della peste, per lui città ‘straniera’. La stessa Milano è oggi segnata, sul piano urbanistico, da nuovi quartieri pensati e costruiti per essere frequentati solo alcune ore al giorno (quartieri degli orari ‘feriali’), per il resto svuotati di gente, di vita. Diventando periferie silenziose, a tempo, di lusso”.

Mentre don Mattia Colombo, docente di teologia pastorale al Seminario di Milano, prendendo spunto da una serie di interviste a donne e uomini diversamente impegnati a livello parrocchiale e sociale, più o meno assidui nella frequentazione dei sacramenti, ha fornito alcune indicazioni: “Come questo contesto interpella la parrocchia urbana (che è nella regione postmetropolitana)? Occorre collocarsi nella lettura del contesto, piuttosto che applicare modelli. Quali sono le trasformazioni da mettere a tema? Alcune provocazioni. 1) Ri-strutturare, dare una nuova struttura alla fede rispetto al tempo. Come la parrocchia può garantire una certa comodità temporale specie per ristrutturare il ‘precetto’ festivo? La sola pratica sacramentale (insuperabile) non diventa l’assoluto dell’analisi.

2) Accogliere una logica affinitaria, senza canonizzarla. La gente sempre più sceglie oltre il criterio di appartenenza territoriale, ad esempio con il criterio del tempo. Nonostante questa dimensione affinitaria-elettiva occorre vigilare perché non si passi da una forma popolare ad una forma di scelta. 3) Formare a scelte consapevoli. Pur non vivendo all’ombra del campanile ogni battezzato è discepolo missionario. In parrocchie sempre più ‘attraversate’ piuttosto che abitate, occorre rendere proficue esperienze pastorali. 4) Superare una logica di ‘specializzazione’. Non esiste una evangelizzazione da effettuarsi con logiche pure. Il contesto urbano, ricorda alla Chiesa la complessità dell’azione pastorale, un’azione che ha peso simbolico specie nella città”.

In apertura del convegno mons. Luca Bressan, vicario episcopale per la cultura, la carità, la missione e l’azione sociale della diocesi di Milano, ha introdotto il tema della ‘settimana’: “Il cristianesimo ha cambiato la storia introducendo un argomento nuovo, quello della resurrezione. Come torniamo oggi a quello che una volta chiamavamo ‘precetto festivo’? E’ tramontato perché lo abbiamo ridotto alla sua sola dimensione morale, facendo venir meno dimensioni fondamentali come l’aggregazione, la costruzione di dinamiche simboliche, riconoscersi come comunità, capire il senso della storia, generare un noi; solo alla fine è diventato un principio etico. Oggi dobbiamo rifare tutto questo in modo nuovo, ed è quello che ci viene consegnato, per scoprire che in realtà ne abbiamo già tanti di spazi rigeneratori del precetto festivo. Per rigenerare un cristianesimo anche nel XXI secolo”.

In conclusione nella lettera alla parrocchia mons. Sigalini ha sottolineato il dono dell’accoglienza da parte della parrocchia: “Proprio qui sta la prima accoglienza che ci è chiesta di vivere: la povertà del nostro tempo. Accogliere la povertà delle nostre chiese vuote. Siamo invitati  a essere prossimi a tutte le nuove forme di povertà e fragilità, sentendo viva anche per la tua piccola o grande comunità l’esortazione «ad una generosa apertura, che invece di temere la distruzione dell’identità della tua vecchia parrocchia sia capace di creare nuove ospitalità  per dare bellezza alle nostre comunità”.

 (Foto: COP)

Papa Francesco invita i palermitani ad affidarsi a santa Rosalia

“La felice ricorrenza del IV Centenario del ritrovamento del corpo di Santa Rosalia è una speciale occasione per unirmi spiritualmente a Voi cari figli e figlie della Chiesa palermitana, che desidera elevare al Padre celeste, fonte di ogni grazia, la lode per il dono di così sublime figura di donna e di ‘apostola’, che non ha esitato ad accogliere le prove della solitudine per amore del suo Signore. Il mio deferente pensiero va a Te caro fratello Corrado, alle Autorità civili e militari, come pure saluto con affetto i sacerdoti, le religiose ed i religiosi, gli appartenenti alle tante Confraternite, ai movimenti laicali, e quanti nel corso di questo Anno giubilare hanno aderito nella preghiera apprendendo da Santa Rosalia la passione per i poveri e la fedeltà alla Buona Notizia”.

Così inizia il messaggio inviato da papa Francesco a mons. Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo, in occasione del IV centenario del ritrovamento delle spoglie della loro patrona, santa Rosalia, in programma fino al 15 luglio, in occasione dell’imminente conclusione dell’Anno Giubilare Rosaliano.

Nel messaggio papa Francesco ha ripreso il motivo della santa palermitana, ‘Per amore Domini mei’, come scelta controcorrente: “La vita del cristiano, sia ai tempi in cui visse la nostra Vergine eremita sia ai giorni nostri, è costantemente segnata dalla croce; i cristiani sono coloro che amano sempre, ma spesso in circostanze in cui l’amore non è compreso o è addirittura rifiutato.

Ancora oggi si tratta di una scelta controcorrente, poiché chi segue Cristo è chiamato a far sua la logica del Vangelo che è speranza, che decide nel suo cuore di fare spazio all’amore per donarlo agli altri, per sacrificarlo a favore del fratello, per condividerlo con quanti non lo hanno sperimentato a causa delle ‘pesti’ che affliggono l’umanità”.

Ed i palermitani sono gli ‘eredi’ spirituali della santa palermitana: “Come Lei date un volto bello al vostro territorio, ricco di cultura, storia e fede profonda, dove grandi donne e uomini hanno trovato la forza per spendersi a motivo del Vangelo e della giustizia sociale. Alla scuola di Santa Rosalia, rinunciando a ciò che è superfluo, non esitate ad offrirVi con generosità agli altri”.

Quindi è un invito ad affrontare le sfide per consentire la rinascita di Palermo: “Abbiate fortezza di spirito nell’affrontare le sfide che tuttora ostacolano la rinascita di codesta Città, il cui cammino è affaticato da tante problematiche e, di queste, alcune molto dolorose. Con coraggio guardate a Colui che è Misericordia, ai cui occhi non sono invisibili le sofferenze del Suo popolo poiché ‘perfino i capelli del vostro capo sono contati’; Egli conosce le nostre pene ed è pronto a versare il balsamo della consolazione che risana e dona rinnovato slancio”.

E’ un invito a rivolgersi a santa Rosalia per trovare il coraggio della testimonianza: “Con Rosalia, donna di speranza, Vi esorto dunque: Chiesa di Palermo alzati! Sii faro di nuova speranza, sii Comunità viva che rigenerata dal sangue dei Martiri dia testimonianza vera e luminosa di Cristo nostro Salvatore. Popolo di Dio in questo lembo di terra benedetto, non perdere la speranza e non cedere allo sconforto. Riscopri la gioia dello stupore di fronte alla carezza di un Padre che ti chiama a sé e ti conduce sulle strade della vita per assaporare i frutti della concordia e della pace”.

Infine ha auspicato che tale anno giubilare sia stato occasione di una rinascita spirituale: “Auspico che questo Anno Giubilare Rosaliano, che volge a conclusione, abbia favorito soprattutto una rifioritura spirituale inserita nel percorso avviato dalla vostra Comunità ecclesiale; pertanto, invito a porVi con docilità all’ascolto dello Spirito Santo affinché possiate realizzare una copiosa stagione pastorale, pronti a spandere il profumo dell’accoglienza e della misericordia.

Consegnate alla vostra Santa Patrona desideri e aspirazioni che portate nel cuore; chiedete a Lei, donna del silenzio orante, di dissipare le paure e di vincere le rassegnazioni che soffocano le radici del bene, per essere audaci discepoli del Maestro e costruttori di speranza”.

 In mattinata mons. Corrado Lorefice, presentando il ‘Quattrocentesimo Festino di Santa Rosalia’ dal titolo ‘Rosalia pellegrina di speranza, Palermo rifiorisce con te’, ha sottolineato che ella liberò la città dalla peste: “Questo 400° Festino in onore di Santa Rosalia segnerà la storia di questa città. Rosalia passò per le vie di Palermo facendo del bene e guarendo. La Patrona contribuì a sconfiggere la peste. A noi viene oggi fatta una sfida: mettere insieme diritti e responsabilità perché non si può vivere in una Babele dove non ci si capisce. Rosalia è la speranza di una città ferita dalla violenza, dalla diffusione della droga, dalla disoccupazione, dalle degradate periferie urbane e spirituali, da un centro storico che rischia di essere un grande pub. Ma non basta la convivialità gastronomica, si deve offrire anche la convivialità spirituale”.

Con un richiamo alla lettera del papa l’arcivescovo di Palermo ha invitato i cittadini ad assumersi la responsabilità della partecipazione: “E’ una festa, che non ci aliena ma ci fa camminare su queste strade, come Rosalia, eremita, donna, che guarda alla città da Monte Pellegrino con lo sguardo di Dio, pieno di compassione, che fa proprie le sofferenze e i destini degli uomini. Non è commiserazione, ma una sfida: partecipare dei pesi e delle attese degli altri. Da lei viene la speranza che viene a noi quando siamo capaci di assunzione di responsabilità per dare un volto bello alla città come suoi concittadini ed eredi spirituali”.

(Foto: Arcidiocesi di Palermo)

Da Trieste un invito a stare nelle città secondo la lettera ‘A  Diogneto’

In attesa della visita di papa Francesco a Trieste per la chiusura della 50^ Settimana Sociale,  oggi i delegati hanno riflettuto sul testo di ‘A Diogneto’, grazie all’intervento della prof.ssa  Arianna Rotondo, docente di Storia del cristianesimo all’Università degli Studi di Catania, che ha sottolineato che è un documento che “rappresenta la novità rivoluzionaria della fede in Cristo sul piano etico, spirituale e sociale… Appare una nuova mentalità, una verità paradossale. La fede in Cristo porta non già a estraniarsi dal mondo, ma a condividerne appieno le sorti”.

Infatti il testo, datato tra il II ed il III secolo dopo Cristo, descrive molto chiaramente la vita dei cristiani nella città: “I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per territorio, né per il modo di parlare, né per la foggia dei loro vestiti. Infatti non abitano in città particolari, non usano qualche strano linguaggio, e non adottano uno speciale modo di vivere… Risiedono in città sia greche che barbare… Abitano ognuno nella propria patria, ma come fossero stranieri… Osservano le leggi stabilite ma, con il loro modo di vivere, sono al di sopra delle leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati… I cristiani rappresentano nel mondo ciò che l’anima è nel corpo”.

E papa Francesco, ha richiamato la docente, ha rivolto molte volte l’invito ad una partecipazione civica dei cristiani: “Dio li ha posti in un luogo tanto elevato, che non è loro permesso di abbandonarlo. Quindi il posto dei cristiani nel mondo è in prima linea, perché assegnato direttamente da Dio… La cittadinanza celeste non contempla la diserzione da quella terrestre, anzi richiede di essere fecondi proprio nelle vicende del mondo. L’adesione al cristianesimo impegna tutto l’essere umano, tutta la vita, in grado di trovare il terreno per la propria testimonianza secondo il Vangelo”.

Per questo è necessaria una presenza nuova dei cristiani nelle città: “Tutto questo comporta oggi nuove forme di presenza cristiana, linguaggi adeguati, una coscienza consapevole della propria fede per poter essere coscienza nel mondo”.

Ed incontrando i giornalisti per un consuntivo della settimana, il vescovo di Trieste, mons. Enrico Trevisi ha raccontato l’attesa della città per il papa in un luogo dove 32 anni fa venne accolto san Giovanni Paolo II: “C’è gioia perché, dopo 32 anni da quando era venuto Giovanni Paolo II, ritorna a Trieste un Pontefice a celebrare nello stesso luogo, piazza Unità d’Italia; una piazza che è un simbolo, macchiata della storia, ma che invece vuole diventare una piazza di fraternità, che abbraccia tutti. E che domani sarà idealmente aperta a tutti. In realtà, purtroppo, alcune persone hanno fatto la richiesta ma essendo già tutta piena non potranno entrare perché non ci sono più posti”.  

Mentre il presidente della Cei, card. Matteo Zuppi, ha ringraziato i giornalisti per la narrazione di queste giornate: “Far conoscere tanta vita vera, tanta gente vera, tante esperienze concrete in cui la dottrina sociale della Chiesa è esperienza di tanti ragazzi, uomini e donne, tante donne come abbiamo visto..Vera partecipazione, il cui tema è stata la persona: sono convinto che produrrà anche tanta consapevolezza e tanta vita… In un momento di tanta disaffezione, di disillusione, non abbiamo fatto la predica: abbiamo raccolto e fatto parlare tutte le nostre comunità”.

Infatti il presidente della Cei ha ricordato che al centro dei lavori c’è stata sempre la dottrina sociale della Chiesa, ma ‘non come giustificazione o come pretesto per qualche altra operazione’, come dimostra la presenza delle 1.200 persone, di cui 368 donne, 310 giovani e altre 80 uomini; mentre sono state circa 70 le ‘buone pratiche’ che hanno animato gli omonimi villaggi in tutta la città.

Ed a proposito delle ‘buone pratiche’ è stata molto interessante la testimonianza di Carla Barbanti, responsabile della Cooperativa Sociale di Comunità ‘Trame di Quartiere’ di Catania: “Il nostro lavoro inizia proprio a partire dall’abitare il quartiere, conoscere chi lo abita e costruire relazioni, tessere ‘Trame di un quartiere’.

Nel 2011 abbiamo avviato una mappatura di comunità dando voce a chi vi abitava e a chi era stato costretto ad andare via, recuperando il patrimonio culturale materiale e immateriale e raccontando il quartiere e le sue molteplici voci tramite diverse iniziative. Vivere questa quotidianità ci porta a capire che è necessario offrire dei servizi, creare opportunità lavorative e, al contempo, creare un punto di riferimento per coloro che restano abbandonati dalle politiche pubbliche. Oggi San Berillo racchiude una serie di vulnerabilità: un quartiere come tanti altri nelle città italiane, dove è facile esaltare il degrado ma molto più difficile ritrovare opportunità”.

Inoltre anche a Matera è sorta un’altra buona ‘pratica’, come ha raccontato Simone Ferraiuolo, responsabile della cooperativa sociale ‘Oltre l’Arte’, che trae origine da una frase di mons. Mario Operti: “La cooperativa, che oggi mi onoro di rappresentare in questo contesto, è qui a testimoniare che è possibile investire nel cuore e nell’intelligenza delle persone, facendo in modo che giovani desiderosi di creare da sé stessi un’opportunità di lavoro, possano dare vita ad una impresa sociale capace di sviluppare una progettualità di fruizione del patrimonio culturale su misura di tutti i visitatori perché il diritto alla cultura non abbia limiti”.

Dalla Settimana Sociale l’invito a vivere la democrazia

“Dal 1907 a oggi il cattolicesimo italiano non è rimasto a guardare, non si è chiuso in sacrestia, non si è fatto ridurre a un intimismo individualista o al culto del benessere individuale, ma ha sentito come propri i temi sociali, si è lasciato ferire da questi per progredire verso un ordine sociale e politico la cui anima sia la carità sociale. Ha pensato e operato non per sé ma per il bene comune del popolo italiano. E il bene comune non è quello che vale di meno, ma è quello più prezioso proprio perché l’unico di cui tutti hanno bisogno e che dona valore a quello personale”: con queste parole, salutando il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il presidente della Cei, card. Matteo Zuppi, ha aperto a Trieste la 50^ Settimana sociale dei cattolici sul tema della democrazia.

Ripetendo le parole del card. De Lubac, il presidente della Cei ha sottolineato il significato di una città che vive sul confine, quindi di due patrie: “Il Vangelo ci aiuta a capire che siamo fatti gli uni per gli altri, quindi gli uni con gli altri. La nostra casa comune richiede un cuore umano e spiritualmente universale. De Gasperi e gli altri Padri fondatori dell’Europa sono stati animati, sono parole sue, ‘dalla preoccupazione del bene comune delle nostre patrie europee, della nostra Patria Europa’.

Ed è significativo che lo statista trentino usasse la parola patria sia per l’Italia, sia per l’Europa senza avvertire contraddizioni. I cristiani prendono sul serio la patria, tanto che sono morti per essa, ma sanno anche che c’è sempre una patria in cielo e questo ci rende familiari di tutti e a casa ovunque. Grazie, quindi, alla splendida e accogliente città di Trieste. È bello ritrovarci da ogni Regione e Diocesi d’Italia in una terra che ci parla dell’opportunità e della bellezza di vivere insieme”.

Quindi ha ribadito che la Chiesa non ha preclusioni nell’accoglienza e non si può delimitarla politicamente: “La Chiesa è madre di tutti, perché solo guidata dal Vangelo. Leggere e qualificare le sue posizioni in un’ottica politica, deformando e immiserendo le sue scelte a convenienze o partigianerie, non fa comprendere la sua visione che avrà sempre e solo al centro la persona, senza aggettivi o limiti”.

Per questo ha citato un discorso di san Giovanni Paolo II nel 1994 con l’invito a non sottrarsi dalla responsabilità: “La pace e lo sviluppo non sono beni conquistati una volta per tutte. Richiedono un ‘amore politico’ che deve assumere l’unità come un obiettivo da perseguire, da difendere e da far crescere, perché l’unità non è mai statica, ma sempre dinamica!”

Però la democrazia ha bisogno di partecipazione: “Ben vengano nuove forme di democrazia incentrate sulla partecipazione: questa Settimana Sociale è dedicata in larga parte proprio alle buone pratiche partecipative di democrazia. Siamo contenti quando i cattolici si impegnano in politica a tutti i livelli e nelle istituzioni. Siamo portatori di voglia di comunità in una stagione in cui l’individualismo sembra sgretolare ogni costruzione di futuro e la guerra appare come la soluzione più veloce ai problemi di convivenza. I cattolici in Italia desiderano essere protagonisti nel costruire una democrazia inclusiva, dove nessuno sia scartato o venga lasciato indietro. Anche, per questo, dobbiamo essere più gioiosamente e semplicemente cristiani, disarmati perché l’unica forza è quella dell’amore”.

Infine ha messo in guardia dai populismi, che annientano la partecipazione: “La partecipazione, cuore della nostra Costituzione, consente e richiede la fioritura umana dei singoli e della società, accresce il senso di appartenenza, educa ad avere un cuore che batte con gli altri, pur tra le differenze. Quando la gente si sente parte, avviene il miracolo dell’umanizzazione dei rapporti sociali ed economici: ciò si realizza nei corpi intermedi, nelle istituzioni, sui territori, nelle grandi aree metropolitane e nelle aree interne, al Nord come al Sud. E’ bello per noi iniziare la Settimana Sociale in questa città di frontiera. Vogliamo incarnare uno stile inclusivo, di unità nelle differenze. Soprattutto vogliamo esprimere tutto l’amore di cui siamo capaci per il nostro Paese. Amiamo l’Italia e, per questo, ci facciamo artigiani di dmocrazia, servitori del bene comune”.

Nell’intervento inaugurale il presidente della Repubblica ha declinato la parola democrazia, messa in discussione dai nazionalismi: “Democrazia. Parola di uso comune, anche nella sua declinazione come aggettivo. E’ ampiamente diffusa. Suggerisce un valore. Le dittature del Novecento l’hanno identificata come un nemico da battere. Gli uomini liberi ne hanno fatto una bandiera. Insieme una conquista e una speranza che, a volte, si cerca, in modo spregiudicato, di mortificare ponendone il nome a sostegno di tesi di parte. Non vi è dibattito in cui non venga invocata a conforto della posizione propria. Un tessuto che gli avversari della democrazia pretenderebbero logoro.

L’interpretazione che si dà di questo ordito essenziale della nostra vita appare talora strumentale, non assunto in misura sufficiente come base di rispetto reciproco. Si è persino giunti ad affermare che siano opponibili tra loro valori come libertà e democrazia, con quest’ultima artatamente utilizzabile come limitazione della prima. Non è fuor di luogo, allora, chiedersi se vi sia, e quale, un’anima della democrazia”.

Ed al centro della democrazia ci sono le persone: “Al cuore della democrazia vi sono le persone, le relazioni e le comunità a cui esse danno vita, le espressioni civili, sociali, economiche che sono frutto della loro libertà, delle loro aspirazioni, della loro umanità: questo è il cardine della nostra Costituzione.

Questa chiave di volta della democrazia opera e sostiene la crescita di un Paese, compreso il funzionamento delle sue Istituzioni, se al di là delle idee e degli interessi molteplici c’è la percezione di un modo di stare insieme e di un bene comune”.

Infine è arrivato l’invito a ‘battersi’ per la democrazia: “La Repubblica ha saputo percorrere molta strada, ma il compito di far sì che tutti prendano parte alla vita della sua società e delle sue Istituzioni non si esaurisce mai. Ogni generazione, ogni epoca, è attesa alla prova della ‘alfabetizzazione’, dell’inveramento della vita della democrazia. Prova, oggi, più complessa che mai, nella società tecnologica contemporanea.

Ebbene, battersi affinché non vi possano essere più ‘analfabeti di democrazia’ è causa primaria e nobile, che ci riguarda tutti. Non soltanto chi riveste responsabilità o eserciti potere. Per definizione, democrazia è esercizio dal basso, legato alla vita di comunità, perché democrazia è camminare insieme”.

(Foto: Quirinale)

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