A Tolentino il Ser.Mi.T 30 anni di vita con don Vinicio Albanesi

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Quest’anno il Ser.Mi.T (Servizio Missionario Tolentino) compie 30 anni di volontariato, nato da un’iniziativa di don Rino Ramaccioni e di Maria Antonietta Bartolozzi, inizialmente per sostenere i missionari in alcuni Paesi, specialmente in Africa, in India ed in Brasile; poi, negli anni, il sostegno è stato portato anche in Italia e nella nostra città per sostenere chi aveva difficoltà ad arrivare a fine mese: ora il Sermit è attivo, all’estero, attraverso le adozioni a distanza, ed in città attraverso i servizi erogati, come i pacchi alimentari od il Centro di Ascolto. Insomma 30 anni di attività grazie soprattutto ai volontari, che si sono avvicendati in questi anni.

E per festeggiare questo anniversario importante per la città, il Sermit, con il patrocinio del comune di Tolentino, ha organizzato un incontro con il fondatore della Comunità di Capodarco di Fermo, don Vinicio Albanesi, abate-parroco dell’abbazia di san Marco alle Paludi di Fermo, sul tema ‘Il volontariato: profezia nella città’:

per lui il volontariato rappresenta uno dei quattro gradi dell’amore al prossimo (gli altri tre sono la giustizia, gli affetti e la vita), che ha due radici: quella esperienziale e quella religiosa, che ‘convergono in un’unica storia personale e di gruppo e si possono declinare secondo una logica umana ed evangelica al tempo stesso’.

E’ stato un racconto che ha ripercorso la storia di un cambiamento di mentalità: “Nel Natale del 1966 un piccolo gruppo di tredici persone handicappate e un giovane prete, don Franco Monterubbianesi, decidono di cominciare l’avventura di una vita in comune in una vecchia villa abbandonata a Capodarco di Fermo nelle Marche.

Rapidamente molti altri ragazzi e ragazze volontari e altri giovani handicappati scelgono di vivere in comunità. Dai tredici membri iniziali si passa agli oltre cento del 1970. Passano ancora pochi anni e la Comunità assume una dimensione nazionale. Nascono le Comunità di Sestu, Fabriano, Gubbio, Udine, Lamezia Terme, Roma.

Oggi la Comunità è presente, in Italia, in 14 città e 11 regioni, di essa fanno parte centinaia di persone tra comunitari, ragazzi impegnati nel servizio civile, operatori sociali, volontari. Recentemente la Comunità si è allargata fuori dai confini nazionali, dando vita alla Comunità Internazionale di Capodarco (CICa), un’organizzazione non governativa di solidarietà, che si propone di dare risposte ai problemi dei poveri e degli emarginati di tutti i continenti: soprattutto in Ecuador, Guatemala e Albania, con l’attenzione prevalente ai disabili”.

L’incontro è stata occasione per comprendere che con un’azione di volontariato si può ravvivare una città e rendere più attivi i legami sociali: perché il volontariato è una profezia per la città?

“I tempi cambiano, ma esigenze e problemi sorgono. Se uno legge la storia si rende conto che i problemi sociali mandano segnali a cui occorre rispondere. Chi ha sensibilità a quello che ci circonda riesce a dare risposte, che non sono mai generiche; però sono piccoli esempi come una gemma preziosa, che dà respiro alla città”.

Ed allora in quale modo è possibile accogliere chi ha bisogno?

“L’accoglienza si basa sul rispetto della persona e sul prendersi in carico della sua storia, perché chi ha problemi ha nel suo intimo sogni, bisogni ed aspirazioni.  Se uno segue l’umanità riesce a dare risposte adeguate a chiunque sia il suo interlocutore”.

In quale modo il volontariato può trasformare la competizione?

“Penso che comunque ci penserà la natura, perché quando con questa competizione la costringeremo fino alle estreme conseguenze, la natura porrà un limite invalicabile. Il problema dell’ambiente, che non abbiamo rispettato nel corso del tempo, è un segnale della natura che dice di non trasgredire le leggi poste. Occorre essere intelligenti e capire quello fa parte del nostro equilibrio”.

In quale modo poter coinvolgere nel volontariato i giovani?

“Occorre fare loro serie proposte, prima di tutto ascoltandoli alla pari, perché bisogna avere la capacità di capire quello che sentono, perché non sono peggiori di noi adulti; i ragazzi sono complessi, perché vivono in un mondo complesso. Però questo mondo complesso può essere allargato dalle loro capacità intellettive”.

Vivere con i ‘marginali’: il suo ministero è stata una scelta precisa?

“Mi sono detto che un prete può fare tre cose: o si dedica a una parrocchia; o studia; o fa un’azione sociale. La diocesi di Roma, che è tanto santa ma non ha preti, mi aveva offerto alcune parrocchie. Ma ho scelto di fare opera sociale, senza rivendicare nulla nei confronti della Chiesa.

Ho incontrato anche gente capace: penso alla Caritas, a don Roberto Sardelli (il ‘prete dei baraccati’ di Roma), all’abate Giovanni Franzoni (l’ex monaco benedettino fondatore della Comunità di San Paolo), una serie di preti che addirittura si erano bruciati nel dare un segno sociale nella Chiesa.

Io non ho mai partecipato a una protesta, perché penso che l’unica strada sia trovare soluzioni che aiutino la gente a stare meglio. Non possiamo salvare il mondo ma fare piccole esperienze che danno sollievo a un po’ di persone e sono un modello”.

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