Daniele Mencarelli racconta la ‘fame d’aria’ degli ‘scartati’ che porta a Dio

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E’ un angelo caduto, Jacopo: un bel ragazzo di 18 anni, alto, che a una prima occhiata può ingannare, poi ci si accorge che dondola di continuo, che i suoi sono occhi da sonnambulo, che la mano va avanti e indietro sulla coscia, a passare e ripassare, senza sosta. Allora gli sguardi della gente si fermano, e interrogano con curiosità e pietà.

Jacopo è un autistico a basso, bassissimo funzionamento, un busto che ciondola, un corpo vuoto, un mugugno come interazione col mondo. Senza un perché. Un bambino bellissimo, poi la diagnosi, un miracolo in cui sperare, con le terapie che costano, le strutture pubbliche che non ce la fanno, lo stato che non c’è, sono soldi, tanti, e preghiere, e affanno, insieme a una regressione continua. Fino al nulla.

Accade così: i genitori dei sani non lo sanno, non conoscono la disperazione, la rabbia, le difficoltà di un supporto che non ha tregue, non ha stacchi, di una realtà così sciagurata che spaventa tutti, e fa scappare anche gli amici. Si resta soli, disperatamente, a rimboccarsi le maniche per gestire l’oggi, a pensare con terrore al domani, a cosa succede a questo figlio disgraziato quando i genitori non ci saranno più.

A Daniele Mencarelli, autore di ‘Fame d’aria’ chiedo di spiegarci il motivo del romanzo: “Ogni adulto almeno una volta nella vita è stato schiacciato dalla sorte. Il protagonista ha questa fame d’aria, perché ha avuto un destino gravoso, che lo schiaccia e lo affama d’aria”.

Come nasce il romanzo?

“Penso alla letteratura come a uno sguardo che sa cogliere i tempi del sempre e del presente. Da una parte i sentimenti connaturati all’esistenza, come il tempo, l’amore e la morte, la ricerca spirituale, dall’altra i fenomeni del presente, della propria epoca, al contrario transitori, in perenne trasformazione. Il romanzo nasce da questo incrocio, che ovviamente ha ricadute sulla materia di cui è fatta la letteratura. La lingua”.

Perchè nel romanzo si racconta dell’abbandono degli ‘ultimi’?

“E’ una sensazione che sento spesso, avendo la fortuna di girare l’Italia per raccontare i miei libri. I centri storici di tanti paesi, intere zone industriali. L’Italia in certi momenti sembra un paese abbandonato, spopolato, spolpato dalla crisi e da un sistema che non ha saputo in alcun modo reagire ai travagli di questi ultimi anni. Ciò che è ancora più grave è l’abbandono umano, ovviamente degli ultimi, di chi non ha risorse economiche e che si trova ad attraversare un momento di crisi. Come può essere una malattia, o una detenzione”.

Anche questo romanzo è incentrato sulla paternità: per quale motivo?

“Da sempre il ruolo materno è prevalente a partire dai testi sacri: la maternità è l’elemento centrale, rispetto alla figura paterna, che appare in secondo ordine. Nel caso specifico Pietro, il protagonista, è un padre che, in qualche maniera, rappresenta tutti quei padri che rispetto a certi temi non riescono pienamente a reggere l’urto e che alla fine sono schiacciati dal destino”.

Che padre è Pietro Borzacchi?

“Pietro è un padre a cui è capitato un destino gravoso da sopportare con un figlio malato che non ha mai accettato veramente e che ha provato a curare, ma il disturbo di cui soffre Jacopo non prevede nessuna possibilità di guarigione. Come nei romanzi in cui un innamorato che corteggia il cuore di una donna che appartiene a un altro uomo, e in questo caso il cuore del figlio se l’è preso l’autismo. Pietro non si è saputo ricostruire attorno al disturbo del figlio ed è una condizione tipica della figura del padre che fa più fatica a convivere con una situazione difficile come quella di una patologia incurabile”.

Chi ha più fame d’aria, il padre o il figlio?

“Credo che entrambi abbiano fame d’aria. La grande differenza è che il padre può fare questo racconto, cioè essere affamato d’aria; mentre il figlio è una figura non verbale, che non può urlare la sua fame d’aria. Molto probabilmente anche il ragazzo vive con il genitore un rapporto difficile, nel senso in cui il padre si riesce a liberare dal gioco del disamore che ha nei suoi confronti è un ragazzo che dimostra di avere molte più risorse di quelle che ha il padre”.

In quale modo è possibile raccontare il disagio o la malattia?

“Oggi non solo è possibile, ma è doveroso raccontare il disagio per togliere di mezzo tutte quelle false narrazioni che esistono e rendono la malattia meno gravosa di quello che è in realtà, soprattutto rispetto all’autismo: raccontare il male per quello che è, soprattutto quando ci sono forme molto gravi. A livello scritturistico il grande compito dello scrittore è quello di mettersi a disposizione di un tema, che chiede onestà e sincerità”.

Cosa è la vita per Pietro Borzacchi?

“Per Pietro, che cantava ‘Voglio una vita spericolata’, la vita è il sogno di una vita movimentata, che poi veramente ha vissuto attraverso un’altra vita spericolata. Non riesco a giudicare questo personaggio, perché incontro tanti genitori che vivono con amore il rapporto con il figlio anche attraverso momenti di grande stanchezza”.

E quale rapporto ha con Dio Pietro Borzacchi?

“E’ un rapporto arrabbiato, perché quando esistono certi interrogativi senza risposta a cui si vorrebbe dare un significato l’incontro/scontro principale è quello con Dio. In fondo l’uomo provato dalla malattia non può che scontrarsi con la presenza e l’assenza di Dio”.

Però questo incontro si evolve in salvezza?

“Credo che sia un incontro che come spesso avviene nella realtà, è un gesto incarnato da altri esseri umani: Dio si manifesta in chi corre in aiuto di chi è in difficoltà. Amo pensare che in gesti palesemente umani va oltre l’umano”.  

C’è un momento in particolare che ti ha fatto ringraziare Dio?

“Ci sono tantissimi momenti. A questo proposito mi piace riportarne uno che è il più recente ed è legata ad una presentazione romana. Dopo la presentazione, una madre mi ha detto che il romanzo è un libro che non si meritano tutti. Quella madre ha un figlio con lo stesso disturbo di Jacopo. In quel momento ho detto grazie Dio. Chi scrive ha una grande responsabilità, di mezzo c’è l’anima; non è semplice e quindi quella madre commossa e grata per me è stato un regalo e ho ringraziato Dio”.

Il romanzo è un libro necessario perché alza il velo sulla condizione di 600.000 pazienti e delle loro famiglie. Perché tratta la disabilità senza alcun convenevole e mostra l’implosione del Servizio Sanitario Nazionale e l’incapacità dello Stato davanti ai fragili: non solo un romanzo, ma un grande affresco e una denuncia nello stile limpido e potente di Daniele Mencarelli.

(Tratto da Aci Stampa)

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