Sola in ospedale a partorire figlio morto: ‘il marito non può stare’, ma se il bimbo nasceva vivo sì. Perché?

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Erano le 8.30 di mattina, quando la porta del reparto maternità si è chiusa dietro di me. Mio marito fuori, io sola in una stanza vuota, affianco le stanze delle neomamme, con i loro piccoli appena nati che piangevano. Il mio cuore era spezzato. Per la terza, avevo subito un aborto spontaneo. Non all’inizio della gravidanza, in questo caso, ma al quarto mese, quando il pericolo di abortività doveva essere molto minore.

Mi sono seduta nel letto, singhiozzavo. Ripensavo ai parti dei miei altri due figli. Perché non riuscivo più a diventare madre? Perché tutti questi bambini morti prematuri? Perché, ora, dovevo partorire un bambino morto? E soprattutto, perché dovevo stare lì sola, col mio dolore, senza marito, amica, genitore?

“Mi scusi… ma non c’è un orario per le visite?”, ho chiesto stremata, verso le quattordici, al secondo ciclo di pillole che dovevano favorire l’espulsione del feto. Mio marito mi aveva portato dei cambi, ma lui lo avevano lasciato fuori, prendendo solo lo zainetto dalle sue mani.

“In altre circostanze è permesso, sì. – mi è stato risposto. L’infermiera era visibilmente imbarazzata – I mariti possono stare dall’una di pomeriggio alle diciannove, se il figlio nasce… Nei casi come il tuo, per le regole anti-covid, purtroppo non è previsto…”

Avevo capito bene? Siccome io non avevo nessuno da prendere in braccio, cambiare, cullare, allattare, potevo essere lasciata lì, sola come un cane, a partorire un figlio defunto?

Non sarà che un accompagno, se il figlio nasce normalmente, allevia molto il personale, mentre a me nessuno doveva fare nulla… quindi il marito era solo un intralcio in più?

“Voi non sapete cosa sia l’umanità. – ho affermato in preda ai crampi per le pillole che mi stavano facendo assumere – Riuscite a immaginare come mi senta io, in questo momento? Lo capite che è un lutto? E i figli, vivi o morti che siano, si fanno in due! Mio marito ha diritto ad esserci!”

Ho fatto una pausa, solo per riprendere fiato. “Domani sarete su tutte le testate giornalistiche per cui lavoro…”, ho promesso. “Mi dispiace, sono le regole – ha detto l’infermiera, senza darmi torto – Io sono d’accordo con te, in realtà…”. “Che vergogna!”, sono esplosa, infine.

A quel punto, l’infermiera, mostrandomi tutta la sua comprensione, è andata dalla caposala a chiedere un’eccezione, che le è stata concessa. Così, mio marito, con un tampone negativo fatto a sue spese, è potuto entrare.

A questa eccezione io devo un vero e proprio miracolo. Perché è stato lui, vedendomi tormentata in tutti i sensi, a chiedermi se volessi farmi portare la comunione in stanza dal cappellano dell’ospedale. Io ho acconsentito e subito dopo aver accolto Gesù in me, il mio cuore è stato trasfigurato.

Temevo quel parto ingiusto, credevo ne sarei rimasta traumatizzata per sempre, ma poi, quando è successo (esattamente due minuti dopo aver ricevuto l’Eucaristia!), non ho visto la morte, ho visto solo un figlio. Non avevo più rimpianti, ma solo gratitudine per averlo avuto con me.

In quella stanza intrisa di morte fino a un minuto prima, era entrata la resurrezione. Sentivo di averlo dato alla luce, perché io gli avevo dato l’esistenza… non la morte!

Da quel momento in poi, ho avvertito una pace profonda, che mi ha fatto compagnia fino alla mattina successiva. Non poteva essere mia, quella pace. Io non l’avevo, fino a pochi istanti prima. C’era solo dolore, dolore, e ancora dolore. Mi sentivo in un calvario. Stavo morendo con Gesù quindi lo sapevo… la resurrezione doveva esserci, ma non immaginavo di vederla così presto!

Mi sono sentita come Marta alla morte di Lazzaro: “Signore, se tu fosse stato qui mio fratello non sarebbe morto. Però so che anche ora qualunque cosa chiederai al Padre te la concederà”.

“Ora sei qui, Signore – gli ho detto mentre il corpo di Cristo diventava una cosa solo con il mio – adesso sì, posso affrontare tutto…”. E così è stato. Ringrazio mio marito, che nel momento della prova ha pensato all’unico Medico capace di guarire un’anima dalla morte: Cristo. Ringrazio il personale per avermi messa prima dei protocolli.

Però, non posso non essere vicina al dolore di tutte quelle mamme che l’eccezione non l’hanno ricevuta e hanno dovuto affrontare un simile lutto da sole, attorniate solo di mamme con i loro in braccio. Tutto ciò non è degno di uno Paese che si dica “civile”.

Qualche settimana fa ho invitato a cena un’amichetta dei miei figli, con la mamma e il compagno della madre. Il giorno prima di quando ci saremmo dovuti incontrare, la donna – che ha un allevamento di cani – mi chiama per dirmi che forse non riuscirà più a venire, perché è previsto il parto di una cagnolina e dovrà darsi il cambio con gli altri gestori dell’allevamento per non lasciare solo l’animale partoriente, dal taglio cesareo fino ai primi due giorni dalla nascita dei cuccioli.

Questo episodio mi torna in mente pensando al mio calvario e alla “fortuna” che ho avuto a trovare un personale che ha violato il protocollo, pensando al bene di una paziente, mentre tante donne in simili situazioni sono tenute in minore considerazione del cane della mia amica.

A chi fa le regole del nostro sistema sanitario voglio ricordare che sotto di voi avete esseri umani e forse non sapete cosa significhi espellere un feto morto quando tutto, nel tuo corpo di madre, chiama vita. Lasciateli entrare i mariti in questi momenti, diamine!

Non siamo macchine da sistemare, ma persona da curare. E abbiamo bisogno anzitutto dell’amore dei cari. Ricordatevelo, quando stilate le norme dei vostri protocolli…

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