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A Monte Sole per non perdere la memoria della malvagità
“Ogni domenica è la vittoria della luce sulle tenebre, perché viviamo l’amore fino alla fine di Gesù, l’alleanza nuova e eterna che stringe il legame di un amore più forte della morte. Questa domenica di memoria così particolare ci immerge ancora di più nel dolore dell’umanità colpita, delle vittime il cui orrore non cambia. L’amore si trasforma e trasforma. Il male è sempre lo stesso”: così è iniziata l’omelia del presidente della Cei, card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna nel ricordare le vittime delle stragi di Monte Sole, avvenute tra il 29 settembre ed il 5 ottobre 1944, nel territorio dei comuni di Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno che comprendono le pendici del Monte Sole in provincia di Bologna, dove furono trucidate 1830 persone.
Nell’omelia l’arcivescovo di Bologna ha fatto rivivere con la narrazione quei momenti: “Sentiamo oggi il grido disperato, il pianto, l’odore di sangue e di polvere da sparo, lo scherno dei soldati tedeschi che derubavano i morti e la soddisfazione dei collaboratori fascisti per il nemico eliminato. Il nemico erano bambini, vecchi, donne, inermi. La memoria e il tempo di Dio ci aiutano ad entrare dentro il nostro tempo, ci chiedono di non vivere inconsapevoli come se ci fosse sempre tempo, spensierati o disperati, ossessivamente preoccupati della felicità individuale, del personale benessere a tutti i costi”.
Ed ha ricordato don Giovanni Fornasini ed altre vittime di quella strage: “Chi crede nel Risorto ama la vita e combatte il male, ama, ed ama come Gesù fino alla fine. Gesù ha vinto il male, tutto, anche quello che diventa sistema, ideologia, quello banale dell’istinto e dell’egoismo, quello della pandemia di morte, che colpisce tutti e genera tutti i mali. Ci chiede di vincerlo con Lui, fidandosi del suo amore e amando come Lui. Ci aiuta don Giovanni Fornasini, rimasto qui per amare, perché l’amore per la sua gente fu più forte della paura e anche del consiglio prudente del suo Vescovo.
E’ stato così per Antonietta Benni, maestra, consacrata, che aveva aperto la sua casa per accogliere le famiglie di sfollati che giungevano dalla valle. Antonietta continua a dare una lezione cristiana e umana di perdono ma anche di giustizia più forte della vendetta e, proprio per questo, inflessibile nell’esigerla”.
Purtroppo l’uomo è capace di tanta malvagità: “Chi costruisce la croce e chi inchioda ad essa non è Dio, che anzi ci finisce appeso, ma è l’uomo, vittima e complice di quel mistero di iniquità che acceca tanto che l’odio e la violenza arrivano a togliere il diritto fondamentale di vivere. Gesù è sceso all’inferno per aprirlo, per liberare, per divellere le porte aprendo la via della salvezza, dell’amore più forte della morte, della parola vita e non dell’ultima parola morte. Noi, che crediamo nel Risorto scendiamo con Lui dove c’è sofferenza e morte per portare luce dove ci sono le tenebre”.
Per questo non ci si deve assuefarsi al male: “Ecco, da questo luogo di morte e di vita, di tenebre e di luce scendiamo oggi nelle tante Marzabotto che in realtà non sono solo i singoli drammatici episodi, ma è la guerra stessa che è una grande unica strage, inutile, da ripudiare sempre e per tutti, alla quale mai abituarci”.
E’ stato un invito a ritrovare la pace in Europa: “Alle vittime dobbiamo lo sforzo di cercare con maggiore determinazione la pace, non di rassegnarci pigramente alla guerra e al riarmo e dotarci di strumenti capaci di risolvere i conflitti. E’ proprio vero che se non avvertiamo la realtà del pericolo non potremo superarlo.
Davanti al male Gesù chiede di combatterlo anzitutto cambiando noi stessi, tagliando quello che dà scandalo al prossimo, anche se pensiamo assurdamente che sia esibizione di forza. Se fa male al prossimo fa male anche a noi e scandalizza. Siamo noi a perdere la salvezza, ce ne escludiamo. Tagliamo il male per ritrovare la vita. I Padri fondatori dell’Europa seppero immaginare la pace trasformando i modelli che provocavano soltanto violenza e distruzione, tagliando sovranità per una che univa tutti”.
Infine ha ringraziato i presidenti della Repubblica italiana e tedesca, che nella mattinata avevano reso omaggio alle vittime: “Per questo è importante la visita dei due Presidenti che onorano assieme le vittime della guerra. E’ la riconciliazione che inizia dalle proprie responsabilità e sconfigge le convinzioni di superiorità, le ostilità mute ma radicate, l’ignoranza che facilmente fa crescere l’odio. Il passato non è mai soltanto passato. Esso riguarda noi e ci indica le vie da non prendere e quelle da prendere. Le vittime ci chiedono di riconoscere il male come male e rifiutarlo”.
Nel discoro il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, ringraziando della presenza il presidente della Repubblica tedesca, ha invitato a non dimenticare: “In queste terre, tra i fiumi Setta e Reno, si compì l’eccidio di civili più grande e spietato tra quelli commessi nel nostro Paese durante la guerra. Queste terre hanno conosciuto il terrorismo delle SS e dei brigatisti neri fascisti. Non c’erano ragioni militari che potessero giustificare tanta crudeltà. Sui pendii di Monte Sole vennero uccisi anche sacerdoti. Don Ubaldo Marchioni era all’altare di Casaglia di Caprara.
Non si trattava soltanto di disprezzo verso la religione. Era ‘la negazione radicale di ogni umanità’, come scrisse Giuseppe Dossetti, capo partigiano, costituente, dirigente politico di primo piano, che lasciò la politica attiva per fondare, proprio a Casaglia, la sua comunità di monaci, per riposare poi, a pochi passi dalla chiesa distrutta, in quel piccolo cimitero divenuto anch’esso teatro di sterminio”.
Marzabotto e Monte Sole sono ‘simboli’ per non dimenticare: “A ottant’anni da quei tragici giorni oggi avvertiamo più nitidamente che Marzabotto e Monte Sole sono simbolo e fondamenta dell’intera Europa, prova del nostro destino comune che, insieme, caro Frank-Walter, nei giorni scorsi, a Berlino come a Bonn e Colonia, abbiamo confermato di volere scegliere.
Quello di un’Europa che non rinuncia, e anzi vuole sviluppare i suoi valori, la sua civiltà, il suo diritto, fondato sul primato della persona. Così contribuiremo a un’Europa di pace, fondata sui valori che qui vennero negati con immane spargimento di sangue. Quell’Europa dei popoli e non della volontà di potenza e di supremazia di ogni Stato. Quella dell’Unione Europea, grande spazio di libertà nel mondo”.
Mentre il presidente della Repubblica tedesca, Frank-Walter Steinmeier, ha espresso la sua difficoltà nel prendere la parola: “A Marzabotto si consumò il più efferato di tutti i crimini commessi da truppe tedesche in Italia durante la seconda guerra mondiale. Signore e Signori, è un cammino difficile venire come Presidente Federale tedesco in questo luogo dell’orrore e parlare a Voi. Ma sono profondamente grato per il Vostro invito, stimate cittadine e stimati cittadini di Marzabotto e dei comuni limitrofi”.
Ed ha chiesto perdono a nome del popolo tedesco: “Cari ospiti, oggi sono qui davanti a Voi come Presidente Federale tedesco e provo solo dolore e vergogna. Mi inchino dinnanzi ai morti. A nome del mio Paese oggi Vi chiedo perdono. Le vittime e Voi, i discendenti e i familiari, avete diritto alla memoria. Nelle Vostre famiglie continuano a vivere il ricordo, il dolore, l’orrore (l’ho appena sentito parlando con alcuni di Voi). Quello che mi avete raccontato mi ha molto commosso”.
Questo è possibile solo attraverso un processo di riconciliazione: “Cari familiari, cari discendenti, che io possa parlare qui oggi è possibile solo perché Voi tutti avete concesso a noi tedeschi la riconciliazione. Che preziosissimo dono! Questa riconciliazione la vivete molto concretamente qui a Marzabotto e nei comuni limitrofi. Nella Vostra Scuola di Pace, in stretto scambio con giovani tedeschi, nel gemellaggio con Brema-Vegesack e nella sua Scuola Internazionale di Pace”.
(Foto: Quirinale)
Al festival francescano di Bologna le stimmate di san Francesco come cura delle ferite
Relazione, rabbia, esclusione, perdita, padre; sono queste le parole scelte per rappresentare ‘ferite’ da alcune persone che conoscono il Festival Francescano e vi partecipano: un bambino, una giovane donna, due volontari, una suora e un frate, in rappresentanza del pubblico della manifestazione organizzata dal Movimento francescano dell’Emilia-Romagna che lo scorso anno ha contato 50.000 presenze.
Quest’anno il Festival si sta interrogando sulla cura, sul dolore e su come affrontarli, insieme agli ospiti in 150 iniziative; ed infatti sono diverse le esperienze personali di sofferenza raccontate a cuore aperto nel video, ferite riassunte da ciascun protagonista in una sola parola chiave scritta a pennarello su un grande foglio bianco. Infatti, condividere il dolore, trovare insieme una cura possibile è ciò che si farà in piazza Maggiore a Bologna fino a domenica 29 settembre, attraversando ferite interiori o globali, come le guerre o quelle inferte all’ambiente.
Tre i percorsi proposti in questi giorni: il primo, caratterizzato dal colore blu, è la via della sapienza ed attraverso lectio magistralis, convegni, incontri con studiosi, permette di approfondire il pensiero francescano che sta alla base di questa edizione del festival. Il secondo è la via della speranza, e come tale, non poteva che essere connotato dal colore verde.
In questo caso le diverse proposte presenti all’interno del programma vengono viste con gli occhi del futuro, ovvero quello dei tanti ragazzi e delle tante ragazze che si avvicinano con curiosità a questo spazio di spiritualità. Infine il terzo è la via della via meraviglia. In questo caso, invece, il colore scelto è quello magenta e questo cammino racchiude una serie di concerti, di opere teatrali, spettacoli e incontri per riflettere su tema in modo un po’ più semplice ma non per questo semplicistico.
I protagonisti spaziano da Carota e Bebo, due dei cinque cantanti del complesso bolognese ‘Lo Stato Sociale’, al patriarca latino di Gerusalemme, card. Pierbattista Pizzaballa, al poeta Davide Rondoni e al teologo p. Paolo Benanti. Tutti gli eventi saranno gratuiti, anche se per alcuni appuntamenti è necessaria la prenotazione. Inoltre quest’anno il festival ha avuto tre anteprime: la prima si è svolta online giovedì 19 settembre con il card. Matteo Zuppi ed il prof. Benanti sul tema ‘Umanesimo digitale’; poi a Parma con i racconti di Christopher Chukwuebuka Gentle, un migrante che a soli 17 anni è fuggito dalla Nigeria ed ha attraversato il deserto del Sahara per settimane, di Carlo Romani, ingegnere gestionale, presidente e Ceo di Selip Spa, e della fotoreporter Annalisa Vandelli in dialogo sul tema ‘Lampada o scoglio?’ Infine mercoledì 25 settembre all’oratorio ‘San Filippo Neri’ di Bologna lo spettacolo ‘Joseph & Bross’, prodotto da Casavuota.
Per comprendere meglio il festival abbiamo chiesto a fra Dino Dozzi, direttore scientifico del Festival Francescano, di spiegarci il titolo ‘Attraverso le ferite’: “Prendiamo spunto dall’ottavo centenario delle stimmate di san Francesco sul monte de La Verna (1224). Ma al termine ‘stimmate’ abbiamo sostituito quello più comprensibile di ‘ferite’. Perché ci occuperemo di storia, del passato, ma ancor più del presente, del nostro oggi, caratterizzato da tante ferite, con le quali bisogna spesso imparare a convivere, ma che bisogna anche tentare di curare”.
Allora in quale modo è possibile curare le ferite?
“Psichiatri, psicologi, psicoterapeuti, ma anche sociologi, filosofi, teologi, saggisti, romanzieri, artisti ci offriranno analisi e suggerimenti utili a curare le ferite. Che a volte si rivelano strumenti di crescita umana e spirituale, facendoci prendere coscienza della nostra finitezza e creaturalità e affinando la nostra capacità di empatia e di solidarietà. Pare che uno dei modi più efficaci di curare le proprie ferite sia quello di curare quelle degli altri”.
Per quale motivo il festival propone il percorso di tre vie?
“Nei quattro giorni del Festival vengono presentati circa 150 eventi, tra conferenze, spettacoli, presentazione libri, fast conference: sono inevitabili alcune sovrapposizioni. Per aiutare nella scelta, proponiamo tre vie: la via della sapienza, per approfondire il tema dal punto di vista francescano, teologico e sociologico; la via della speranza, rivolta soprattutto ai ragazzi e alle ragazze che si avvicinano al Festival per la prima volta; la via della meraviglia, per segnalare gli eventi che si svolgono in piazza Maggiore e che vedono coinvolti personaggi noti al grande pubblico. Ovviamente resta la libertà di crearsi il proprio percorso, ma le tre vie possono costituire un suggerimento utile”.
Quanto sono importanti le stimmate di san Francesco per la cura?
“Le stimmate di san Francesco sono un esempio straordinario di ferite che curano. Le stimmate richiamano lo stigma. Francesco toglie lo stigma dell’emarginazione al lebbroso, abbracciandolo; toglie lo stigma della negatività alla natura (in quel tempo giudicata cattiva) cantandone le lodi e riconoscendola sorella nella creaturalità; toglie lo stigma della negatività al corpo, ritenuto fonte di peccato, chiamandolo fratello, chiedendogli scusa e offrendogli in punto di morte quei dolcetti di donna Jacopa; toglie lo stigma di un giudizio negativo che l’orgoglio vorrebbe suggerirgli per quei suoi fratelli che non condividono il suo radicalismo evangelico, non separandosi da loro, ma restando in gruppo, preferendo la fraternità alla fuga in avanti e all’eroismo personale.
Ecco il cammino dallo stigma alle stimmate, che acquistano così il significato di una bolla di approvazione divina ad un uomo che nei suoi scritti e nella sua vita ha tolto lo stigma della negatività ad ogni realtà, riconoscendo ovunque attorno a sé i doni belli e santi dell’Altissimo bon Signore”.
In quale modo avviene il passaggio dalle cicatrici alle stimmate?
“La risposta a questa domanda l’avremo al termine del convegno che aprirà il Festival Francescano di quest’anno nella prestigiosa Cappella Farnese. Quattro studiosi (Jacques Dalarun, Pierluigi Licciardello, Rosa Giorgi e Pietro Delcorno), fonti letterarie e artistiche alla mano, ci spiegheranno questo passaggio che ci coglie un po’ di sorpresa: non, come ci si aspetterebbe, dalle stimmate alle cicatrici, ma, appunto, dalle cicatrici alle stimmate. Evidentemente, anche la storia ha le sue ferite ed i suoi miracoli”.
(Foto: Festival Francescano)
Da Napoli un’invocazione a rigenerare le periferie delle città
“Cari fratelli e sorelle, ci troviamo qui in questa periferia della nostra città, periferia spesso simbolo di tutte le periferie non solo della nostra città ma del nostro paese, periferia che purtroppo oggi diventa il centro dell’attenzione di tutti non per la sua rinascita, ma perché ancora una volta l’odore della morte e della paura pervade le sue vie e i cuori dei suoi abitanti”.
Con queste parole avanti ieri l’arcivescovo di Napoli, mons. Domenico Battaglia, ha celebrato in n piazza Giovanni Paolo II le esequie delle vittime del crollo della Vela Celeste a Scampia ricordando le condizioni della città: “Gli abitanti di Scampia, che per già molto tempo hanno subito etichette mediatiche frettolose e generalizzanti, che hanno tanto lottato per scrollarsi di dosso un’opinione pubblica che legge le situazioni con una superficialità spesso più attratta dalla decadenza del male che dai tanti segni primaverili di riscatto, oggi si ritrovano qui, insieme all’intera città, per piangere Roberto, Patrizia, Margherita e per pregare per la guarigione di Carmela, Martina, Giuseppe, Luisa, Patrizia, Mya, Anna, Greta, Morena Suamy e Annunziata, vittime di un crollo che va ben oltre le macerie di cemento e ferro, assurgendo a simbolo di un crollo sociale che deve essere arginato, prevenuto, evitato, non solo qui ma in tutte le periferie della nostra città, del nostro Sud, della nostra Italia!”
E’ la condizione in cui vivono le ‘periferie’, chiamate ad essere ‘simbolo’ di una rinascita: “Periferie che possono rinascere, che possono diventare simbolo di una resurrezione possibile, come ci insegna proprio la nostra Scampia che, al di là di certe narrazioni parziali e stereotipate, ha saputo sempre rialzarsi, diventando un esempio di autentica resilienza e riscatto, grazie all’onestà e all’impegno di tanti suoi figli e figlie, Chiesa, società civile e istituzioni che, quando si alleano per il bene comune, possono compiere veri e propri miracoli”.
L’omelia dell’arcivescovo di Napoli è un invito al rispetto del dolore di un quartiere e di una città: “Quest’ora però è l’ora del silenzio e della preghiera, l’ora dell’affidamento di queste sorelle e di questi fratelli alla tenerezza di un Dio che non è indifferente al nostro dolore ma che piuttosto ha scavato tra quelle macerie, si è fatto presente attraverso il soccorso dei volontari, della Croce Rossa, della Protezione Civile, dei Medici e degli Infermieri, della Caritas, delle Parrocchie e di tutte le Istituzioni che stanno facendo quanto è possibile per essere vicini alla sofferenza della nostra gente, al dolore di queste famiglie lacerate.
Queste vite spezzate, queste storie interrotte sono ora tra le braccia di Dio e dove noi vediamo l’ombra della morte Dio vede la vita, dove noi pronunciamo la parola fine Dio pronuncia la parola inizio, dove per noi cala il sipario sul paesaggio di questo mondo per Dio si spalanca l’orizzonte della vita eterna, di una vita senza fine nel suo amore senza fine”.
E’ un dolore che solo Gesù può consolare: “E mentre il nostro discorso si rivolge intimorito ad un futuro distante, Gesù irrompe con un presente che spacca il tempo e annulla le distanze, un presente che afferma una speranza capace di donare luce tra le ombre fitte della morte: ‘Io sono la risurrezione e la vita’. Lo sono ora, in questo momento, per te, per voi, per tutti. Si, il Signore Gesù è la resurrezione e la vita, il suo Vangelo è la buona notizia da cui ripartire, l’unica speranza che può illuminare la notte del dolore, la bussola che può davvero orientare (non solo Scampia ma tutte le periferie del nostro Sud) verso nuovi orizzonti di rinascita comunitaria, verso un futuro in cui il bene comune diventa un ‘sistema’ di vita capace di rovesciare e sovvertire ogni sistema di morte!”
E’ un dolore al quale partecipa anche Gesù, come ha fatto per la morte di Lazzaro: “Sorelle e fratelli, il nostro dolore e il nostro sgomento, le lacrime di queste famiglie segnate da queste morti assurde e improvvise si mescolano con le lacrime stesse di Gesù. Gesù piange dinanzi alla morte di Lazzaro. Gesù non è impassibile dinanzi al dolore e alla sofferenza dei suoi amici! Si, Dio piange con noi e per noi: siamo noi i suoi amici, Roberto, Patrizia e Margherita sono i suoi amici e Lui non consentirà mai, come non l’ha consentito per Lazzaro, che la morte li strappi via”.
Però, in fondo, l’amore è più forte della morte: “Vedete, il contrario della morte, il suo opposto, il suo vero nemico non è la vita ma l’amore. Perché l’amore, come ci ricorda il Cantico dei Cantici, è più forte della morte. E nell’amore, nell’amore di Dio, tutti potremmo sempre ritrovarci, ricomponendo i legami, assottigliando l’udito, aguzzando la vista per imparare ad ascoltare e vedere coloro che abbiamo amato e che, custoditi dalla tenera mano di Dio, ci sono accanto sempre, seppur in un modo diverso e nuovo. Dalle lacrime di Dio impariamo il cuore di Dio. Il perché della nostra risurrezione sta in questo amore fino al pianto. Risorgiamo adesso, risorgeremo dopo la morte, perché amati”.
Ed ha concluso l’omelia con una preghiera allo Spirito Santo: “Venga Signore il tuo Spirito e soffi la tua consolazione sui cuori lacerati dei familiari e degli amici di Roberto, Margherita e Patrizia, accarezzi il loro dolore, accompagni i loro passi in questo tempo difficile abitato dall’assenza e dalla mancanza, sussurri al loro intimo la certezza della vita che non muore, allontani da loro la tentazione della disperazione e doni alla loro anima la capacità di sentire che il legame che li univa ai propri cari non è stato interrotto ma trasformato!
Venga Signore il tuo Spirito e soffi il tuo conforto sui feriti, sui loro familiari, sui medici e sugli infermieri che se ne prendono cura! Sia la loro forza in questo tempo di veglia e di cura, alimenti la lampada della loro speranza e faccia sentire loro l’affetto e la solidarietà della comunità cristiana e dell’intera famiglia di Napoli!
Venga il tuo Spirito e soffi sulle strade di Scampia, dove in queste ore gli sfollati camminano tra timori e speranze, dove tante persone costrette alla precarietà portano il peso di giorni difficili, dove tante famiglie lottano per un domani migliore, per un presente e un futuro abitato dalla giustizia e dalla pace!”
E’ un’invocazione allo Spirito Santo, affinché conservi la città: “Venga il tuo Spirito e soffi sulle vele della nostra città, non su quelle di ferro e cemento deteriorate dal tempo e dall’incuria, ma su quelle vive, quelle fatte di carne, su quelle che oggi più che mai devono essere dispiegate, su quelle che raccontano un passato di dolore e di lotta, e la cui stoffa lascia intravedere il colore della resilienza, della forza di chi non si arrende, della tenacia di chi spera ancora nel domani, della fede evangelica di chi trova bellezza anche nelle sue cicatrici!
Venga il tuo Spirito e soffi su chi ha il compito di governare e amministrare il bene comune, affinché attraverso politiche di risanamento e di inclusione, possa rispondere con azioni concrete e immediate alle vite segnate dalla sofferenza, perché la politica è autentica se fa sua l’etica della cura, e solo la cura può trasformare il dolore in speranza, la sfiducia dei singoli in un nuovo slancio comunitario!
Venga il tuo Spirito e sospinga le nostre barche alla deriva, i tanti battelli marginali che navigano ancora tra mille tempeste e anelano un porto in cui sentirsi al sicuro, soffi sulle vele spiegate dei tanti marinai i cui volti e i cui nomi sono sconosciuti ai potenti di questo mondo ma non al Signore!
Venga il tuo Spirito e soffi sulle vele di chi naviga controcorrente, bramando una città più giusta e accogliente, una città davvero solidale in cui nessuno riesca a dormire sereno se un solo bambino rischia la vita per il semplice fatto di abitare in una casa degradata di un edificio degradato, una città in cui nessuno si tiri fuori dall’esigenza di solidarietà e prossimità se una parte della comunità vive nel disagio e nella precarietà!”
Ed infine un’invocazione per la rigenerazione di una comunità cittadina: “Venga il tuo Spirito e faccia risorgere da queste macerie e da questo dolore una comunità più giusta, in cui sia per sempre abbattuto quel muro invisibile che divide i figli di questa città, che separa le tante Napoli che si sfiorano senza mai incontrarsi! Venga il tuo Spirito e soffi sulle vele della nostra anima, sospinga al largo la nostra amata Napoli, conforti ogni suo dolore, fasci le sue ferite e la conduca verso il porto sicuro della giustizia, della solidarietà e della pace! Venga il tuo Spirito e ci convinca nell’intimo che la morte non è la fine di tutto, anche se fa male, e che la vita umana non finisce mai sotto una tomba”.
(Foto: arcidiocesi di Napoli)
Papa Francesco continua ad invocare la pace
“Cari amici, vi giunga questo saluto per il vostro incontro dal titolo ‘AI Ethics for Peace’. Intelligenza artificiale e pace sono due temi di assoluta importanza, come ho avuto modo di sottolineare ai leader politici del G7: Conviene sempre ricordare che la macchina può, in alcune forme e con questi nuovi mezzi, produrre delle scelte algoritmiche. Ciò che la macchina fa è una scelta tecnica tra più possibilità e si basa o su criteri ben definiti o su inferenze statistiche. L’essere umano, invece, non solo sceglie, ma in cuor suo è capace di decidere. La decisione è un elemento che potremmo definire maggiormente strategico di una scelta e richiede una valutazione pratica’.
Anche se luglio è un mese di riposo per papa Francesco non mancano i suoi messaggi, come quello inviato ai partecipanti dell’incontro ‘AI Ethics for Peace’, svoltosi ad Hiroshima, con l’obiettivo quello di promuovere lo sviluppo etico dell’Intelligenza Artificiale: “Nel lodare questa iniziativa vi chiedo di mostrare al mondo che uniti chiediamo un fattivo impegno per tutelare la dignità umana in questa nuova stagione di uso delle macchine.
Il fatto che vi ritroviate a Hiroshima per parlare di intelligenza artificiale e pace è di grande importanza simbolica. Tra gli attuali conflitti che scuotono il mondo, sempre più spesso purtroppo oltre all’odio della guerra si sente parlare di questa tecnologia. Per tale motivo ritengo di straordinaria importanza l’evento di Hiroshima”.
Ed ha chiesto che l’intelligenza artificiale possa diventare una ‘ricchezza’ per tutti a favore della pace: “Se guardiamo alla complessità delle questioni che abbiamo davanti, includere nel governo delle intelligenze artificiali le ricchezze culturali dei popoli e delle religioni è una chiave strategica per il successo del vostro impegno per una saggia gestione dell’innovazione tecnologica. Mentre auguro che questo incontro porti frutti di fraternità e di collaborazione, prego affinché ognuno di noi possa farsi strumento di pace per il mondo”.
Ed ha espresso dolore per gli attacchi contro i civili in Ucraina ed in Terra Santa: “Il Papa manifesta il suo profondo turbamento affinché la violenza si accresca. Mentre esprime vicinanza alle vittime e ai feriti innocenti, auspica e prega che si possano presto identificare percorsi concreti che mettano fine ai conflitti in corso”.
Nel frattempo aveva inviato una lettera ai partecipanti al Congresso Eucaristico Nazionale negli Stati Uniti d’America affinchè possano essere consapevoli del dono eucaristico: “Tutti i partecipanti a questo evento, infatti, saranno incoraggiati affinché, uniti a Gesù nel Santissimo Sacramento della nostra Redenzione, siano pienamente consapevoli dei doni universali che ricevono dal cibo celeste e possano trasmetterli agli altri”.
Card. Zuppi: in Terra Santa per stare accanto a chi soffre
“Non potevano esserci luogo e giorno migliori per iniziare questo pellegrinaggio di comunione e pace con tutti i fratelli e le sorelle della Terra Santa. Sperimentiamo, come gli apostoli, l’intima gioia di essere suoi, intorno a quella mensa dove continua ad essere versato e spezzato, dove la sua Parola si fa presenza nell’eucarestia e chiede di diventare carne nella nostra vita e nel nostro oggi. La comunione inizia nella prossimità, frutto di colui che si fa prossimo per farci capire chi siamo, prima vittoria sul male che distrugge, divide, allontana, rende incomunicabili, cancella il mio prossimo tanto da renderlo solo un nemico. Il vostro dolore è il nostro dolore, il loro dolore è il nostro, le vostre lacrime sono le nostre”.
Parole pronunciate dall’arcivescovo di Bologna, card. Matteo Zuppi, all’inizio della celebrazione eucaristica al Getsemani in occasione del pellegrinaggio in Terra Santa dell’arcidiocesi di Bologna fino al 16 giugno a cui hanno partecipato circa 160 pellegrini, ribadendo il valore della preghiera di intercessione: “La preghiera di intercessione si è unita a quella dei tanti salmisti che popolano (consapevolmente o no) questa terra e nei quali la preghiera ci permette di identificarci: liberami, salvami, ascoltami, proteggimi, difendimi, aiutami, comprendimi, sollevami.
Non ci possiamo abituare al grido di dolore che giorno e notte sale a Dio, ma anche alle nostre orecchie. Ecco, oggi la comunione per grazia di Dio diventa presenza, seguendo Gesù che non resta lontano, che fa sue le lacrime di Marta e Maria e piange con loro per il loro fratello che era morto, che si unisce a quella vedova che aveva perduto il suo unico figlio, perché è sempre unica la persona amata. E’ il nostro sentimento verso di voi, verso tutti i credenti, certi che l’invocazione è ascoltata da Dio”.
E nella celebrazione eucaristica al Santo Sepolcro il presidente della Cei ha sottolineato che senza la croce non c’è resurrezione: “Non c’è resurrezione senza restare sotto la croce, senza farsi interrogare personalmente, nelle viscere, dalla sofferenza. I discepoli non seppero vegliare davanti a un dolore grande. Scappano, pensando così di scaricarsi le responsabilità, di attribuirle a qualcuno, di pianificare qualcosa, a discutere e basta su di chi è la colpa, ad accusarsi con i confronti, a coltivare l’odio, ad accarezzare la spada che così poco rimettiamo nel fodero”.
L’immagine più bella di Chiesa è quella di una madre e di un discepolo sotto la croce: “La madre che resta e un discepolo che sotto la croce solo per amore piange con lei. Bisogna restare, in silenzio, ascoltando, pregando, affidandosi al Padre e soprattutto restare, esserci, capire la sofferenza dell’altro e farla propria. Solo così inizia la pace. Si ricomincia da qui, solo così inizia la pace, perché questa viene affrontando il male non evitandolo, non restandosene in pace, ma vivendo il dolore come il proprio”.
Ricordando la tragedia dello scorso 7 ottobre ha sottolineato che dal dolore può nascere amore: “Ieri la mamma di Hersh, giovane ostaggio dal 7 ottobre scorso, ci ha affidato il suo dolore, dicendo che si unisce a quello per i tanti innocenti che sono uccisi a Gaza. Solo se due dolori diventano un amore unico, solo se le lacrime sono tutte uguali troviamo la via della pace, che inizia anche dentro di noi. Bisogna restare perché non basta qualche consiglio a distanza per capire ed essere capiti”.
E’ stato un invito a stare sotto la croce: “Esserci sotto la croce fa la differenza e promuove davvero la pace. Sembra inutile, forse i discepoli avranno sentito rimbombare il grido ‘ha salvato gli altri, salvi se stesso, faccia vedere chi è’, grido che certifica l’inutilità di perdersi amando, avranno rimpianto le barche oppure saranno andati a cercare nuovamente la spada per difendersi. Eppure la luce della pace inizia solo così, capendo la tragedia del male, delle tante complicità, l’abisso di sofferenza con la loro storia antica e recente, ma sempre scegliendo che il suo dolore sia il mio. La risurrezione non appare senza la croce, bensì la include”.
Dallo stare sotto la croce nasce la Pentecoste: “Qui capiamo dove sta la verità circa il bene e il male ma anche che il male non ha l’ultima parola, che l’amore è più forte della morte, che il nostro futuro e quello dell’umanità tutta è nella volontà di Dio che diventa la nostra volontà di pace. In questi giorni contempliamo l’amore per abbattere ogni muro di divisione dentro il nostro cuore e, come sappiamo, se il nostro cuore è in pace tanti inizieranno a vedere la pace intorno a noi. In ogni persona lo stesso volto sfigurato, quello in cui sembra non esserci niente di umano, mentre è il più umano di tutti, e che guardandolo ci rende umani, persone”.
In questi luoghi santi il dolore può trasformarsi in preghiera: “Il dolore diventa preghiera, fare nostro il grido di un’umanità profondamente ferita per uscire dalla logica dell’inimicizia, da quella che produce inimicizia e alza i muri, capire e scegliere quella del pensarsi insieme. Se non vediamo la croce, le croci, le guerre, i volti, le storie, le torture, le armi, non capiremo mai per davvero, resteremo innamorati della nostra idea e non del Vangelo di Gesù crocifisso per la vita.
E’ dalla preghiera che inizia un nuovo modo di parlare, di conoscere, di capire la vita. Solo la preghiera ci libera dalla paura perché nella preghiera ci uniamo ad un amore che ha vinto il male e ci libera dall’odio. Possiamo dire che siamo per la pace solo se coloro che sono per la guerra non hanno potere su di noi e se non ci lasciamo prendere in nessun modo dalla folla che grida contro. Combattiamo il male lasciandoci condurre come agnelli ed esserlo”.
Al termine del pellegrinaggio il card. Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini, ha ringraziato l’arcivescovo ed i pellegrini di Bologna: “Quella dell’Arcidiocesi di Bologna è stata una iniziativa coraggiosa, in un tempo in cui tutti hanno paura di venire. Questo è un pellegrinaggio di solidarietà con i cristiani e le popolazioni di Terra Santa. Mi auguro che questo gesto coraggioso venga ripreso anche da altri. Noi abbiamo bisogno della presenza dei pellegrini che portano serenità per tante famiglie”.
(Foto: Arcidiocesi di Bologna)
Donne di Rita: Virginia Campanile racconta il perdono dalla morte di un figlio
A Cascia nella festa di santa Rita tre donne riceveranno il riconoscimento del premio internazionale ‘Donne di Rita’: Cristina Fazzi, che da medico nello Zambia cura i bambini che sono gli ultimi della società; Virginia Campanile, che ha perso suo figlio ma è mamma per tanti genitori e ragazzi in difficoltà, e Anna Jabbour, profuga siriana che per sua figlia ha attraversato la guerra divenendo testimone di pace. ‘Donne di Rita’, sono chiamate le donne scelte per il prestigioso Riconoscimento Internazionale Santa Rita, che dal 1988 premia donne che come Rita da Cascia sanno incarnare i valori su cui si fonda il presente, che lunedì 20 maggio alle ore 10.00 nella Sala della Pace del Santuario di Santa Rita a Cascia hanno condiviso le loro testimonianze; mentre martedì 21 maggio alle ore 17.30 nella Basilica, ricevono il Riconoscimento:
Cristina Fazzi, medico di Enna (Sicilia), che riceve il Riconoscimento Internazionale Santa Rita 2024 per il rispetto, la giustizia e l’amore con cui nei suoi 24 anni di servizio, professionale e umano, nello Zambia, in Africa, ha protetto la vita e costruito il futuro di tante persone nelle aree di estrema povertà, con un’attenzione speciale ai bambini e ai giovani, in una società dove sono ultimi tra gli ultimi, spesso abusati e maltrattati: ha creato il primo centro di salute mentale del Paese per i minori e progetti formativi, per generare opportunità di cambiamento e realizzazione;
Anna Jabbour, nata ad Aleppo (Siria) ma oggi vive a Roma, riceve il Riconoscimento Internazionale Santa Rita 2024 per la testimonianza di pace, fratellanza e fede che incarna con la sua storia, da profuga di guerra a mamma di speranza e coraggio per sua figlia e allo stesso tempo per tutti coloro che incontra, non avendo mai perduto il forte desiderio di sognare e impegnarsi per un futuro di umanità e unione che possa cancellare ogni odio e sofferenza;
Virginia Campanile vive a Otranto (Lecce) e riceve il Riconoscimento Internazionale Santa Rita 2024 perché dal dolore indescrivibile per la perdita del figlio Daniele e dalla libertà e pace acquisite grazie al perdono offerto a chi ne ha causato la morte in un incidente stradale, ha fatto nascere un ‘investimento d’amore’ che condivide con gli altri: ascoltando e aiutando tanti genitori toccati dal lutto a ritornare a vivere e impegnandosi coi giovani per tutelarli nella fragilità sociale e psicologica, accompagnandoli a riscoprire la bellezza della vita, che così si presenta:
“Mi presento: sono Virginia Campanile, vivo da sempre ad Otranto (LE), Via S. Francesco 70. Sono nata a Bari il 25 Marzo 1950. Ho frequentato il Liceo Artistico e Accademia di Belle Arti di Lecce. Il mio impegno da sempre nel sociale; ho insegnato e creato una cooperativa di tessitura (Terra d’Otranto) con mostre annuali nel Castello Aragonese di Otranto. Il mio lavoro definitivo, la mia gioielleria (Oro Daniel) ad Otranto.
Tutto crolla quando il 15 Giugno del 1998, per un incidente stradale viene a mancare mio figlio Daniele di 22 anni, ricorreva la festa del Sacro Cuore a cui io sono fermamente devota. La mia mamma, dopo la triste notizia, dopo poco minuti anche lei vola in cielo insieme a mio figlio”.
Cosa significa credere in Dio dopo la perdita di un figlio?
“Qui inizia un cammino faticoso, indescrivibile, non ci sono parole per descrivere questo dolore. Da subito, il mio unico pensiero, trovare altre mamme come me. Prendo consapevolezza e conoscenza che queste, restano chiuse in casa, come fosse una colpa perdere un figlio. Il mio pensiero fisso e costante, trasformare questo dolore della perdita in un investimento nel sociale. Inizio il mio cammino a piccoli passi, bussando alla porta di madri come me. Nell’immediatezza sono consapevole di aver trovato la strada giusta: condivisione. Riunisco madri che si erano ammalate dal dolore. Inizio a formare il primo gruppo, dopo poco tempo, altri gruppi dei paesi vicini si uniscono”.
Perchè ha fondato l’associazione ‘Figli in Paradiso. Ali tra cielo e terra’?
“Da più parti mi veniva consigliato di lasciar perdere, ma con l’aiuto dell’amore per mio figlio e dei tanti ragazzi, di cui ogni giorno venivo a conoscenza, il desiderio di continuare diveniva sempre più forte. Fondo un Associazione ‘Figli in Paradiso, ali tra cielo e terra ODV’, con sede legale ad Otranto in Via S. Francesco 70, ricoprendo, fino ad oggi, il ruolo di fondatrice, presidente e promotrice.
La mia famiglia da sempre devotissima a sant’Antonio da Padova, santa Rita da Cascia, san Pio da Pietralcina, ricordando che da piccola, quando mia madre raccomandava mio padre all’arrivo della pensione o stipendio bisognava, prima di tutto, fare il bollettino a Sant’Antonio e a Santa Rita, che puntualmente arrivavano. La devozione, nel tempo, è rimasta immutata per questa Santa dei casi impossibili, madre, moglie con tanta sofferenza”.
In quale modo la fede trasforma il dolore?
“Intanto, col pensiero di portare avanti l’associazione ‘Figli in Paradiso’, inizio pian piano, ad allontanarmi dalla mia bella gioielleria e nel 2007 chiudo il mio amato negozio per dedicarmi a tempo pieno ad altri genitori. Ogni giorno un paese, ogni giorno un gruppo di genitori, ogni giorno una celebrazione eucaristica per i nostri ragazzi. Ogni giorno l’ascolto per poter plasmare la rabbia, il rancore, l’odio, la vendetta. Come unico scopo principale, aiutare le famiglie a non restare isolate, recluse, ma ‘ritornare a vivere da vivi’.
Da questo dolore trarre le opportunità positive, quale l’elaborazione del dolore, in un mondo che ci costringe a correre e ci allontana dai tempi dell’elaborazione. Il dolore se raccontato e condiviso ci rende liberi dalle tante maschere che siamo costretti ad indossare. La condivisione è un potente strumento per rigenerare le relazioni. Io volevo dare voce al mio dolore, ascoltandolo.
Da qui ho iniziato il percorso del perdono, ispirandomi a santa Rita, decidendo di andare ad incontrare lei, l’assassina, causa della perdita di mio figlio, e riconciliarmi; è stato un percorso duro, facendomi accompagnare con la preghiera e con il costante dialogo con Dio. Ci sono riuscita. Ho perdonato la mia assassina, faticoso cammino. La parola perdono l’ho trasformata in ‘per-dono’; perdonarsi in ‘per-donarsi’; perdonare in ‘per-donare’ al fratello come me. Alla fine del percorso perdono – riconciliazione, sono diventata una persona libera”.
Lei ha scritto un libro intitolato ‘Tu vivi in me’: come è possibile?
“Da persona libera, è la fede che mi accompagna e mi sostiene, rendendomi forte in questo percorso. Potevo sperare in tutto, tranne nel totale cambiamento di mio marito, il quale, da tanta indifferenza mostrata negli anni, adesso mi accompagna ovunque, parlando di nostro figlio con amore e serenità. Anche mio figlio Luigi, pian piano, ha faticosamente elaborato il dolore, e con la mia grande gioia, ora lo vedo più sereno, convinto di non aver perso un fratello, perché la sua presenza aleggia in casa, nell’Associazione oltre che nel cuore.
E’ vero, la maggior parte delle famiglie, dopo la perdita di un figlio, di un fratello si frantuma, la nostra no. Temevo che non avrei mai potuto parlare con Luigi dell’accaduto di suo fratello Daniel, invece, come per incanto, ne parlavamo spesso; ancora oggi, lontano da casa per lavoro, mi telefona, contento di sentirmi lontano da casa per l’impegno dell’associazione. Io li chiamo i piccoli miracoli di famiglia”.
In quale modo un lutto può trasformarsi in dono di Dio?
“Tutto questo è dono di Dio, e, perché no, anche certamente dell’aiuto celeste di Daniel. Mai mi sono sentita abbandonata; la mia fede, suffragata dalla partecipazione all’Eucarestia mensile, con le altre famiglie, genera tanti genitori, facendoli diventare guaritori feriti, favorendo l’impegno, nelle proprie parrocchie, come catechista, come volontario, come sostegno e aiuto verso gli anziani e malati, trasformando così il dolore indicibile in speranza, serenità dell’anima, convinta e convinti che con la fede si può tutto”.
Perchè condividere il dolore con altri genitori?
“Pur lavorando ancora nel settore turistico, con la collaborazione della mia famiglia, offro l’opportunità, gratuitamente, nei periodi di fermo, a genitori che vengono da lontano, di essere ospitati nel mio residence, così da poter seguire la formazione dei gruppi A.M.A. (auto-muto-aiuto), strumento riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, per il recupero della persona, facilitando l’elaborazione del dolore per la perdita di un figlio, per incidente stradale, malattia, suicidio, omicidio, depressione, mal di vivere, femminicidio e bullismo.
Un percorso iniziato nell’anno 1999, presente, oggi, in Italia centrale e meridionale (Umbria, Basilicata, Campania, Calabria, comprese le isole di Ischia, Sardegna, Sicilia, e tra breve anche in Toscana e Piemonte). In questi percorsi, per grazia di Dio, abbiamo accanto professionisti competenti, come il camilliano p. Arnaldo Pangrazzi, dottor Antonio Loperfido suicidologo, dottor Enrico Cazzaniga psicoterapeuta, sempre presenti nei convegni nazionali e regionali. Con questa organizzazione cerchiamo di gestire un numero notevole di gruppi (120) sparsi nelle Regioni con la richiesta di nuove aperture”.
In conclusione, quali sono le attività che l’associazione svolge?
“Attualmente dirigiamo una scuola Materna, Ecole des Angels-a Makua nel Congo francese, inaugurata nel 2022 con la mia presenza in loco. Dal 2012 organizziamo Convegni Nazionali ad Assisi (Domus Pacis). Annualmente organizziamo sei Convegni Regionali.
Dal 2010 sono nel direttivo del coordinamento nazionale A.M.A. e nel direttivo del CSVS Brindisi-Lecce, organizzando nelle scuole di secondo grado con i ragazzi, dai 15 ai 18 anni, convegni di prevenzione al suicidio, con il tema ‘Protagonista del tuo futuro’; ed, infine, nel direttivo nazionale della pastorale della salute A.I.P.A.S. (Associazione Italiana di Pastorale Sanitaria).
Attualmente sono anche presidente, nella cattedrale di Otranto, del Consiglio Pastorale, presidente dell’Apostolato della Preghiera; inoltre collaboro con il parroco nella preparazione dei genitori per il Battesimo dei loro figli e sono ministro straordinario della Comunione. Infine portiamo avanti l’iniziativa del 5xmille a favore del reparto pediatrico dell’ospedale Vito-Fazzi di Lecce”.
(Tratto da Aci Stampa)
Donne di Rita, la storia di Anna Jabbour, profuga siriana che prega la santa di Cascia
A Cascia nella festa di santa Rita tre donne riceveranno il riconoscimento del premio internazionale ‘Donne di Rita’: Cristina Fazzi, che da medico nello Zambia cura i bambini che sono gli ultimi della società; Virginia Campanile, che ha perso suo figlio ma è mamma per tanti genitori e ragazzi in difficoltà, e Anna Jabbour, profuga siriana che per sua figlia ha attraversato la guerra divenendo testimone di pace. ‘Donne di Rita’, sono chiamate le donne scelte per il prestigioso Riconoscimento Internazionale Santa Rita, che dal 1988 premia donne che come Rita da Cascia sanno incarnare i valori su cui si fonda il presente, che lunedì 20 maggio alle ore 10.00 nella Sala della Pace del Santuario di Santa Rita a Cascia condivideranno le loro testimonianze; mentre martedì 21 maggio alle ore 17.30 nella Basilica, riceveranno il Riconoscimento:
Cristina Fazzi, medico di Enna (Sicilia), che riceve il Riconoscimento Internazionale Santa Rita 2024 per il rispetto, la giustizia e l’amore con cui nei suoi 24 anni di servizio, professionale e umano, nello Zambia, in Africa, ha protetto la vita e costruito il futuro di tante persone nelle aree di estrema povertà, con un’attenzione speciale ai bambini e ai giovani, in una società dove sono ultimi tra gli ultimi, spesso abusati e maltrattati: ha creato il primo centro di salute mentale del Paese per i minori e progetti formativi, per generare opportunità di cambiamento e realizzazione;
Virginia Campanile vive a Otranto (Lecce) e riceve il Riconoscimento Internazionale Santa Rita 2024 perché dal dolore indescrivibile per la perdita del figlio Daniele e dalla libertà e pace acquisite grazie al perdono offerto a chi ne ha causato la morte in un incidente stradale, ha fatto nascere un ‘investimento d’amore’ che condivide con gli altri: ascoltando e aiutando tanti genitori toccati dal lutto a ritornare a vivere e impegnandosi coi giovani per tutelarli nella fragilità sociale e psicologica, accompagnandoli a riscoprire la bellezza della vita.
Anna Jabbour, nata ad Aleppo (Siria) ma oggi vive a Roma, riceve il Riconoscimento Internazionale Santa Rita 2024 per la testimonianza di pace, fratellanza e fede che incarna con la sua storia, da profuga di guerra a mamma di speranza e coraggio per sua figlia e allo stesso tempo per tutti coloro che incontra, non avendo mai perduto il forte desiderio di sognare e impegnarsi per un futuro di umanità e unione che possa cancellare ogni odio e sofferenza:
“Sono Anna, sono una cristiana di Aleppo. Penso molto spesso alla mia città, era bellissima. Con Subhi, mio marito, non volevamo lasciarla, abbiamo resistito fino al 2016. Avevamo la nostra vita tranquilla lì: le famiglie, il lavoro, gli amici, la parrocchia, i nostri sogni erano lì. Speravamo che la guerra finisse invece peggiorava di giorno in giorno. Uscivamo di casa e non sapevamo se saremmo tornati. Abbiamo visto morire vicini e amici, le bombe cadevano nell’ultimo periodo come una pioggia, tutte le persone urlavano, le sirene, i morti, i feriti, la distruzione ovunque, era un incubo. La nostra piccola Pamela era appena nata, aveva un mese, e per salvare lei abbiamo deciso di lasciare tutto e partire”.
Quale è stato il vostro ‘viaggio’ per giungere in Italia?
“Siamo andati verso il Libano ma anche lì la situazione era in peggioramento. Poi c’è stata l’esplosione del porto il 4 agosto 2020. Beirut è stata per metà distrutta, anche noi siamo rimasti un’altra volta senza casa. Non potevamo più vivere nemmeno in Libano. Ci siamo messi a cercare. Abbiamo sentito parlare dei corridoi umanitari, ci sembrava un sogno: la possibilità di vivere in pace, tranquillità, lavorare e impegnarci nella società, la possibilità per Pamela di vivere una vita ‘normale’.
Quando abbiamo fatto il primo colloquio, finalmente vedevamo un pò di luce, si era riaccesa la speranza. Siamo arrivati in Italia pochi giorni prima di Natale di quattro anni fa, veramente per noi era Natale, una nascita nuova per noi. Erano già passati quattro anni… Tutto era diverso: fin dall’arrivo.
Le persone ci sorridevano, ci accoglievano con i fiori, erano preoccupati per noi. Nei mesi seguenti abbiamo iniziato a scoprire Roma e l’Italia, imparando la lingua. Mia figlia ha iniziato subito la scuola. Non ci siamo mai sentiti soli, gli amici della Comunità di Sant’Egidio ci hanno preso per mano e ci hanno insegnato a camminare. Fanno la cosa più bella del mondo: ti danno speranza, la cosa fondamentale per chi ha vissuto nel buio della guerra”.
Come si trova in Italia?
“Oggi siamo sereni, mio marito lavora in una ditta di pulizie e io lavoro con una signora anziana, abitiamo vicino a lei. Pamela è felice di studiare e di avere gli amici della scuola. Abbiamo pensato di restituire il dono che abbiamo ricevuto e allora ci siamo impegnati. Un mese fa il terremoto che ha colpito la Siria e la Turchia ci ha buttato di nuovo nell’angoscia, ho pensato alla gente di Aleppo che aveva già sofferto tanto, ci chiediamo perché? Perché tutto questo male? alcuni miei amici qui hanno perso familiari, tanta gente vive per la strada e ha perso quel pochissimo che aveva.
Prego e vorrei aiutare per dare loro una speranza. Santità, la ringrazio perché lei vuole bene ai migranti, prega e lavora per la pace. in Siria tutti sappiamo che Lei non ci ha dimenticato e ci ama. Alla fine posso dire che ho lasciato il mio amato paese, ma Dio mi ha mandato in un Paese che mi rispetta e mi dà sicurezza.
Vedo mia figlia felice. Stiamo andando avanti poco a poco ed abbiamo speranza per un futuro migliore non dimenticando mai ciò che il Signore e santa Rita hanno fatto per me La mia piccola famiglia… questa è la mia umile storia. Io lavoro, mio marito lavora e mia figlia va a scuola; abbiamo fatto tante amicizie e ci sono giorni in cui andiamo ad aiutare i poveri con i ‘Corridoi Umanitari’, in quanto i volontari della Comunità di Sant’Egidio hanno molto a cuore i poveri e li aiutano; e stanno vicino anche a molti anziani soli”.
Dopo 14 anni la guerra in Siria ancora continua: cosa significa credere nella pace?
“Come persona cristiana, sono ancora viva perché credo che il mio Dio è un Dio di pace e di amore. La pace è una cosa reale. Prego sempre per il mio caro Paese, la Siria. Ho una grande speranza di vederla vivere in pace e desidero che i bambini vivano felici”.
Cosa vuol dire lasciare il proprio Paese?
“Lasciare il mio Paese è stata una delle cose più difficili che ho fatto nella mia vita… E’ difficile lasciare il tuo Paese, la tua casa, la tua chiesa e la tua famiglia: è stato difficile lasciare il posto dove sono cresciuta, ho studiato, ho vissuto e ho avuto tante persone che amavo. Quando lasci la tua terra, lasci lì un pezzo della tua anima e del tuo cuore: questo purtroppo è tutta colpa della guerra”.
In quale modo la fede può trasformare il dolore?
“La fede ha un ruolo importante nell’alleviare il dolore: durante la guerra molti dei nostri amici e parenti sono morti. Il dolore era indescrivibile, ma la preghiera e la fede ci hanno aiutato molto ad alleviare il dolore. Infatti quando metti le tue ferite, il tuo dolore e le tue paure nelle mani di Dio tutto diventa migliore nella tua vita”.
Come si viveva ad Aleppo?
“Vivere ad Aleppo è stato molto bello: eravamo molto felici! Tutti erano felici con un solo cuore e un’anima sola… E’ un paese di cultura, bellezza e storia: le sue chiese, moschee e strade, tutto è bello.. La sua gente è buona, istruita, lavoratrice… Aleppo è veramente speciale”.
Quale è il suo rapporto con santa Rita da Cascia?
“Il mio rapporto con Santa Rita è un rapporto molto bello. Dal primo momento in cui ho visto la sua foto ed ho chiesto di Lei ad uno dei sacerdoti. Quando ho conosciuto la sua storia, sono rimasta molto colpita. Ho iniziato a indossare il suo abito nel mese di maggio ogni anno e vado nella sua chiesa a pregare per lei… Durante la guerra e nei momenti di estrema paura, pregavo sempre Gesù e Lei, che ci ha aiutato e ci ha protetto molto in tante situazioni. Vorrei dire che l’intercessione di santa Rita per le cose impossibili mi ha toccato in molte situazioni della mia vita. Nelle mie preghiere ringrazio sempre il Signore,e Santa Rita …per dove siamo oggi(la cosa più importante é vivere in pace”.
Cosa ha provato per questo riconoscimento internazionale?
“Il mio sentimento di felicità non si può descrivere. Santa Rita continua a mandarmi doni; sono sicura che mi ascolta sempre e sa cosa c’è nel mio cuore e nei miei pensieri. Questo riconoscimento internazionale significa molto per me e per mia famiglia. Santa Rita, mi hai rafforzato; mi ha reso paziente e capace di sopportare le difficoltà con gioia e fede”.
(Tratto da Aci Stampa)
Mons. Lorefice: le morti sul lavoro sono una sconfitta sociale
“Le cinque vittime di Casteldaccia (ennesimo tragico incidente sul lavoro), portano alla ribalta l’urgenza della sicurezza che ‘è come l’aria che respiriamo’… Sicurezza significa un’economia e un mercato del lavoro governati dall’istanza etica, attenzione alla persona del lavoratore, alla sua dignità e ai suoi affetti familiari. In queste ore particolarmente drammatiche, sento di far giungere un forte appello alla sicurezza sui luoghi di lavoro, auspicando un maggiore impegno di quanti hanno la responsabilità (legislatori, imprese, organizzazioni e associazioni di categoria) di tutelare i lavoratori. Queste morti, come anche gli infortuni, sono una sconfitta sociale, una profonda ferita del corpo sociale, riguarda tutti, non solo le imprese o le famiglie coinvolte”.
All’indomani dell’ennesimo incidente sul lavoro, avvenuto a Casteldaccia, in provincia di Palermo, l’arcivescovo di Palermo, mons. Corrado Lorefice, in modo chiaro ha invitato a non assuefarci a tali morti, esprimendo il dolore che ha colpito i familiari: “Desidero esprimere ai familiari delle vittime e dei feriti i miei più sentiti sentimenti di vicinanza e di cordoglio, anche a nome dell’intera Chiesa palermitana, nonché la viva partecipazione al dolore delle città coinvolte e, in particolare, di Casteldaccia.
Dobbiamo sentire queste morti, far nostro questo dolore, ‘con-patirlo’, sentirlo nelle nostre viscere, portarlo insieme a quanti ora ne sono schiacciati. Dobbiamo cambiare. Tutti. Non possiamo abituarci agli incidenti sul lavoro, né rassegnarci all’indifferenza verso gli infortuni”.
I cinque operai morti nella rete fognaria di Casteldaccia non sarebbero dovuti scendere all’interno della stazione di sollevamento, in quanto il contratto di appalto stipulato con la municipalizzata Amap, prevedeva che l’aspirazione dei liquami avvenisse dalla superficie attraverso un autospurgo e che il personale non scendesse sotto terra: nessuna delle vittime indossava la mascherina né avesse il gas alert, che è un apparecchio che misura la concentrazione dell’idrogeno solforato, il gas che poi li ha uccisi.
Anche il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, da New York, ha espresso il proprio cordoglio con l’auspicio di un impegno comune per eliminare tali morti: “Auspico che sia fatta piena luce sulle dinamiche dell’incidente. Ma l’ennesima inaccettabile strage sul lavoro, a pochi giorni dal 1^ maggio, deve riproporre con forza la necessità di un impegno comune che deve riguardare le forze sociali, gli imprenditori e le istituzioni preposte”.
Anche l’Azione Cattolica Italiana ha espresso cordoglio alle famiglie dei cinque operai morti, ma anche alle famiglie che negli anni hanno visto i loro familiari perdere la vita sul posto di lavoro: “Denunciamo la carenza di tutela e di misure di prevenzione da parte di soggetti pubblici e privati, sottolineando come i fatti di Casteldaccia ripropongano l’imperativo assoluto di interventi e controlli stringenti per la sicurezza sul lavoro e per spezzare la drammatica catena di morti bianche”.
E’ stato un richiamo ad applicare il Decreto Legislativo 81/08, che regola la salute e la sicurezza sul lavoro e prevede una formazione più vicina alle attività lavorative delle imprese: “Come il Movimento Lavoratori di Ac ha ricordato più volte c’è la necessità di piani di sicurezza e interventi standardizzati che le aziende dovrebbero implementare per legare di più la sicurezza alle attività produttive.
Occorre inoltre un impegno a ridurre la distanza tra chi fa impresa e chi può aiutare gli imprenditori (a partire dai vari istituti di ricerca specializzati) ad elaborare in modo semplice delle azioni di sicurezza efficaci e di controllo dell’effettiva applicazione di queste. Occorre far crescere una cultura della sicurezza, a partire dalla consapevolezza condivisa che investire in sicurezza non è un costo ma un investimento sul futuro dell’azienda e dei suoi lavoratori”.
La presidenza nazionale dell’Azione Cattolica Italiana ha chiesto una maggior dignità al lavoro ed ai lavoratori: “Tutti devono fare la loro parte, perché tutti sono responsabili della sicurezza dei lavoratori. Qualcuno però lo è più degli altri. È dunque necessario passare con prontezza dalle denunce ai fatti concreti, agli investimenti precauzionali, alle verifiche e ai controlli.
Tutti i soggetti devono fare la loro parte, con un supplemento di responsabilità; ma è dagli imprenditori in particolare che si attendono quelle provviste e quelle innovazioni strutturali che sole possono garantire il successo degli altri interventi. La vita è sacra, e distintamente lo è quella impegnata sul lavoro duro e rischioso”.
Papa Francesco: prendersi cura per combattere la cultura dello scarto
Oggi, ricevendo in udienza i partecipanti alla plenaria della Pontificia Commissione Biblica, che riflettono sul tema della sofferenza e della malattia nella Bibbia, papa Francesco ha sottolineato che il tema interpella tutte le persone, in quanto il dolore è parte della vita: “E’ una ricerca che riguarda ogni essere umano, in quanto soggetto all’infermità, alla fragilità, alla morte. La nostra natura ferita, infatti, porta inscritta in sé anche le realtà del limite e della finitudine, e patisce le contraddizioni del male e del dolore”.
Infatti il dolore e la malattia sono argomenti che non si devono rimuovere dai ragionamenti: “Il tema mi sta molto a cuore: la sofferenza e la malattia sono avversarie da affrontare, ma è importante farlo in modo degno dell’uomo, in modo umano, diciamo così: rimuoverle, riducendole a tabù di cui è meglio non parlare, magari perché danneggiano quell’immagine di efficienza a tutti i costi, utile a vendere e a guadagnare, non è certamente una soluzione. Tutti vacilliamo sotto il peso di queste esperienze e occorre aiutarci ad attraversarle vivendole in relazione, senza ripiegarsi su sé stessi e senza che la legittima ribellione si trasformi in isolamento, abbandono o disperazione”.
Ed ha offerto due riflessioni alla luce della fede, che invita a prendersi cura del malato: “Sappiamo, anche per la testimonianza di tanti fratelli e sorelle, che il dolore e l’infermità, nella luce della fede, possono diventare fattori decisivi in un percorso di maturazione: il ‘setaccio della sofferenza’ permette infatti di discernere ciò che è essenziale da ciò che non lo è.
Ma è soprattutto l’esempio di Gesù a indicare la via. Egli ci esorta a prenderci cura di chi vive in situazioni di infermità, con la determinazione di sconfiggere la malattia; al tempo stesso, invita delicatamente a unire le nostre sofferenze alla sua offerta salvifica, come seme che porta frutto. Concretamente, la nostra visione di fede mi ha suggerito di proporvi qualche spunto di riflessione attorno a due parole decisive: compassione e inclusione”.
Quindi per comprendere la malattia è necessaria la compassione: “La prima, la compassione,indica l’atteggiamento ricorrente e caratterizzante del Signore nei confronti delle persone fragili e bisognose che incontra. Vedendo i volti di tanta gente, pecore senza pastore che faticano a orientarsi nella vita, Gesù si commuove. Ha compassione della folla affamata e sfinita e accoglie senza stancarsi gli ammalati, di cui ascolta le richieste: pensiamo ai ciechi che lo supplicano e ai tanti infermi che chiedono guarigione; è preso da ‘grande compassione’ (dice il Vangelo) per la vedova che accompagna al sepolcro l’unico figlio”.
Sono episodi che rivelano la vicinanza di Gesù per la gente: “Tutto ciò rivela un aspetto importante: Gesù non spiega la sofferenza, ma si piega verso i sofferenti. Non si accosta al dolore con incoraggiamenti generici e consolazioni sterili, ma ne accoglie il dramma, lasciandosene toccare. La Sacra Scrittura è illuminante in questo senso: non ci lascia un prontuario di parole buone o un ricettario di sentimenti, ma ci mostra volti, incontri, storie concrete…
Così, chi assimila la Sacra Scrittura purifica l’immaginario religioso da atteggiamenti sbagliati, imparando a seguire il tragitto indicato da Gesù: toccare con mano la sofferenza umana, con umiltà, mitezza, serenità, per portare, in nome del Dio incarnato, la vicinanza di un sostegno salvifico e concreto. Toccare con mano, non teoricamente, con mano”.
Ed ecco il secondo atteggiamento, l’inclusione: “Anche se non è un vocabolo biblico, questa parola esprime bene un tratto saliente dello stile di Gesù: il suo andare in cerca del peccatore, dello smarrito, dell’emarginato, dello stigmatizzato, perché siano accolti nella casa del Padre. Pensiamo ai lebbrosi: per Gesù nessuno deve essere escluso dalla salvezza di Dio”.
Infatti l’inclusione crea la condivisione: “Questa prospettiva di inclusione ci porta ad atteggiamenti di condivisione: Cristo, che è passato in mezzo alla gente facendo del bene e curando gli infermi, ha comandato ai suoi discepoli di aver cura dei malati e di benedirli nel suo nome, condividendo con loro la sua missione di consolazione. Dunque, attraverso l’esperienza della sofferenza e della malattia, noi, come Chiesa, siamo chiamati a camminare insieme a tutti, nella solidarietà cristiana e umana, aprendo, in nome della comune fragilità, opportunità di dialogo e di speranza”.
Ugualmente ai partecipanti all’assemblea plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, che riflettono sul tema: ‘Disability and the human condition’, il papa ha evidenziato il bisogno di una cultura della cura: “In tempi recenti la comunità internazionale ha compiuto notevoli passi in avanti nel campo dei diritti delle persone con disabilità. Molti Paesi si stanno muovendo in questa direzione. In altri, invece, tale riconoscimento è ancora parziale e precario. Tuttavia, là dove questo percorso è stato intrapreso, tra luci e ombre vediamo fiorire le persone e i germogli di una società più giusta e più solidale”.
Tale ‘progresso’ si è compiuto attraverso l’ascolto: “Ascoltando la voce degli uomini e delle donne con disabilità, siamo diventati più consapevoli del fatto che la loro vita è condizionata, oltre che dalle limitazioni funzionali, anche da fattori culturali, giuridici, economici e sociali, i quali possono ostacolarne le attività e la partecipazione sociale… La vulnerabilità e la fragilità appartengono alla condizione umana e non sono proprie solo delle persone con disabilità”.
E’ stato un invito a combattere la cultura dello scarto: “Combattere la cultura dello scarto significa promuovere la cultura dell’inclusione (vanno uniti), creando e rafforzando i legami di appartenenza alla società. Gli attori protagonisti di questa azione solidaristica sono coloro che, sentendosi corresponsabili del bene di ciascuno, si adoperano per una maggiore giustizia sociale e per rimuovere le barriere di vario genere che impediscono a tanti di godere dei diritti e delle libertà fondamentali”.
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco: alziamo lo sguardo
“Le donne vanno al sepolcro alle prime luci dell’alba, ma dentro di sé conservano il buio della notte. Pur essendo in cammino, sono ancora ferme: il loro cuore è rimasto ai piedi della croce. Annebbiate dalle lacrime del Venerdì Santo, sono paralizzate dal dolore, sono rinchiuse nella sensazione che ormai sia tutto finito, che sopra la vicenda di Gesù sia stata messa una pietra. E proprio la pietra è al centro dei loro pensieri”: nella veglia pasquale papa Francesco ha sottolineato i dubbi che assillavano le donne durante l’omelia.
Nell’omelia il papa ha evidenziato due momenti, che conducono alla gioia della Pasqua: “Anzitutto, primo momento, c’è la domanda che assilla il loro cuore spezzato dal dolore: chi ci farà rotolare via la pietra dal sepolcro? Quella pietra rappresentava la fine della storia di Gesù, sepolta nella notte della morte. Lui, la vita venuta nel mondo, è stato ucciso; Lui, che ha manifestato l’amore misericordioso del Padre, non ha ricevuto pietà; Lui, che ha sollevato i peccatori dal peso della condanna, è stato condannato alla croce.
Il Principe della pace, che aveva liberato un’adultera dalla furia violenta delle pietre, giace sepolto dietro una grossa pietra. Quel masso, ostacolo insormontabile, era il simbolo di ciò che le donne portavano nel cuore, il capolinea della loro speranza: contro di esso tutto si era infranto, con il mistero oscuro di un tragico dolore che aveva impedito ai loro sogni di realizzarsi”.
Ciò avviene ogni qualvolta si sperimenta la delusione: “Sono ‘macigni della morte’ e li incontriamo, lungo il cammino, in tutte quelle esperienze e situazioni che ci rubano l’entusiasmo e la forza di andare avanti: nelle sofferenze che ci toccano e nelle morti delle persone care, che lasciano in noi vuoti incolmabili; li incontriamo nei fallimenti e nelle paure che ci impediscono di compiere quanto di buono abbiamo a cuore; li troviamo in tutte le chiusure che frenano i nostri slanci di generosità e non ci permettono di aprirci all’amore; li troviamo nei muri di gomma dell’egoismo e dell’indifferenza, che respingono l’impegno a costruire città e società più giuste e a misura d’uomo; li troviamo in tutti gli aneliti di pace spezzati dalla crudeltà dell’odio e dalla ferocia della guerra”.
Eppure le donne sono state capaci di alzare lo sguardo per vedere Gesù risorto: “Risuscitato dal Padre nella sua, nella nostra carne con la forza dello Spirito Santo, ha aperto una pagina nuova per il genere umano. Da quel momento, se ci lasciamo prendere per mano da Gesù, nessuna esperienza di fallimento e di dolore, per quanto ci ferisca, può avere l’ultima parola sul senso e sul destino della nostra vita. Da quel momento, se ci lasciamo afferrare dal Risorto, nessuna sconfitta, nessuna sofferenza, nessuna morte potranno arrestare il nostro cammino verso la pienezza della vita”.
Questa è la Pasqua: “Fratelli e sorelle, Gesù è la nostra Pasqua, Lui è Colui che ci fa passare dal buio alla luce, che si è legato a noi per sempre e ci salva dai baratri del peccato e della morte, attirandoci nell’impeto luminoso del perdono e della vita eterna. Fratelli e sorelle, alziamo lo sguardo a Lui, accogliamo Gesù, Dio della vita, nelle nostre vite, rinnoviamogli oggi il nostro ‘sì’ e nessun macigno potrà soffocarci il cuore, nessuna tomba potrà rinchiudere la gioia di vivere, nessun fallimento potrà relegarci nella disperazione”.
E’ un invito ad alzare lo sguardo al cielo: “Fratelli e sorelle, alziamo lo sguardo a Lui e chiediamogli che la potenza della sua risurrezione rotoli via i massi che ci opprimono l’anima. Alziamo lo sguardo a Lui, il Risorto, e camminiamo nella certezza che sul fondo oscuro delle nostre attese e delle nostre morti è già presente la vita eterna che Egli è venuto a portare”.
(Foto: Santa Sede)