Mariapia Veladiano racconta ‘quel che ci tiene vivi’

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Angeletto Zoccolaro è diventato avvocato per riparazione. Bianca, psicologa da sopravvissuta. Per entrambi l’infanzia è stata l’inferno, e ciascuno ne è uscito a modo proprio: Angeletto congelando i ricordi, Bianca elaborando. Lui è abitato dall’oscurità che lo lambisce, lei, di contro, sull’oscurità di ciò che è stato ha costruito la sua luce. Così, strato per strato, si rivelano i protagonisti del nuovo romanzo di Mariapia Veladiano, ‘Quel che ci tiene vivi’: due polarità che rimangono insieme per attrazione, ben attente a non sbordare nelle ferite individuali.

Nel libro la vita si esprime con le parole di un avvocato, voce narrante che si occupa di ‘aggiustare’ famiglie anormali, e di una psicanalista che ‘aggiusta’ chi si è perso. Parla con le parole di un’avvocata, che si prende cura di una giovane esistenza smarrita nella solitudine, e di un cancelliere del tribunale, che vede il suo mondo crollare ma non odia, perché l’odio è nemico della vita. E si mostra attraverso le parole di un ragazzino, figura ‘difettosa’ ma salvifica, che attrae attorno a sé la parte migliore di un mondo adulto ferito.

All’autrice, Mariapia Veladiano (premio Calvino con ‘La vita accanto’ ed autrice di romanzi ‘Una storia quasi perfetta’, ‘Lei’ su Maria di Nàzaret, ed ‘Adesso che sei qui’), abbiamo chiesto di spiegare cosa è ‘che ci tiene vivi’: “Non sempre lo sappiamo. Qualche volta lo capiamo ad un certo punto e allora possiamo dare un nome a questa forza carsica che scorre in noi anche quando gli eventi ci colpiscono al cuore.

Di sicuro ci tiene vivi l’essere amati, o l’esserlo stati. La memoria è una storia a cui noi apparteniamo e che continua in quello che siamo. Chi invece si è trovato ad essere, come dire, dimenticato dalla vita alla nascita, può vivere  se ha la speranza di un amore.

Di essere visto e amato. Questo capita al protagonista di ‘Quel che ci tiene vivi’. La voragine c’è, lui pensa un minuto sì e un minuto anche alla morte, ma in nessun momento, lo dice, ha desiderato di non essere nato”.

Perché i protagonisti hanno l’obiettivo di aiutare le famiglie in difficoltà?

“Ci si trovano, a farlo. E ciascuno per un motivo diverso, e questa è un po’ la trama tutta del romanzo. Il protagonista, che fa l’avvocato e si occupa di diritto di famiglia, in verità sa benissimo che non sempre si può aiutare. Se siamo troppo rotti, è difficile praticare l’arte di aggiustare, e infatti anche se è una follia per un avvocato, rifiuta un bel po’ di clienti.

Bianca, la donna che ha in modo rocambolesco sposato, è psicoanalista e si capisce bene che ha una forza sua, una solidità che può, come dire, traboccare e servire agli altri. Giuditta invece di sicuro non aveva mai pensato a un bambino, ma esattamente un bambino le arriva davanti un giorno e lo accetta, così come si accetta la Grazia quando arriva”.

Quale ruolo ha la famiglia nella storia dei protagonisti?

“Per il protagonista è il luogo dell’eterno dolore. Infatti ricorda o dimentica con apparente incoerenza. In realtà c’è un tempo per ricordare e uno in cui dimenticare è salvezza. Per Bianca invece non sappiamo bene. Lei è sola, la morte dei genitori è stato un male ma il male che capita, non quello che si subisce dagli altri. Non ha a che vedere con il mistero della cattiveria. E poi lei ha dieci anni più di lui. Un percorso riparativo più disteso”.

Allora, esistono famiglie ‘normali’?

“La parola ‘normale’ sottintende un giudizio. La famiglia è il luogo in cui si impara ad amare e il giudizio non è mai un atto d’amore. Per cui no, se si intende definire un canone. Sì se si intende che la famiglia normale è quella in cui l’amore circola. Prendiamo Giuditta. E’ sola, tiene con sé questo bambino, che è poi  il protagonista, lui non ha conosciuto niente che somigli all’amore e però con lei può crescere e imparare. E infatti, da adulto sa amare”.

Come imparare a vedere le ferite?

“Guardi, si nasce già esperti, naturalmente esperti. I bambini vedono, si avvicinano a chi piange o è triste o è ferito e basterebbe accompagnare questo movimento naturale. Invece li mettiamo in guardia. Attento. Non ti impicciare. Chissà chi è. Impara a farti gli affari tuoi. Poi, certo, aiutare non è facile e non basta lo spontaneismo. Si fanno danni. Bisogna diventare competenti, vuol dire conoscere sé stessi, creare reti e alleanze, studiare. Da soli si può affogare nel senso di impotenza”.

In quale modo si può essere ‘responsabile di tutto’?

“Lo siamo comunque. Per il fatto stesso di essere nati, parte della comune umanità. Si può far finta che non sia vero, vivere scotomizzati, senza pensare al resto dell’umanità coltivando un egoismo costoso, sul piano emotivo. Perché bisogna sacrificare il nostro sentire. Indurirsi. Per poter essere liberi di vivere in modo responsabile è necessario non avere troppa paura. Se si ha paura, non ci si avvicina e gli altri rimangono estranei nel migliore dei casi, nemici nel peggiore”.

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