Italiani più poveri e impauriti

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Il 56^ Rapporto sulla situazione sociale del Paese, presentato nelle scorse settimane dal Censis, fotografa un’Italia che vive in uno ‘stato di latenza, post-populista e malinconica’, con una scuola e un’università senza studenti, una sanità senza medici e infermieri e soprattutto con il 61% degli italiani che teme possa scoppiare il terzo conflitto mondiale, paventa il ricorso alla bomba atomica (59%) e ha paura che si entri in guerra (58%), come ha spiegato Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis:

“Il nostro Paese, nonostante lo stratificarsi di crisi e difficoltà, non regredisce grazie allo sforzo individuale, ma non matura. Riceve e produce stimoli a lavorare, a mettersi sotto sforzo, a confrontarsi con le ferite della storia, ma non manifesta una sostanziale reazione: rinuncia alla pretesa di guardare in avanti. Vive in una sorta di latenza di risposta, in attesa che i segnali dei suoi sensori economici e sociali siano tradotti in uno schema di mappatura della realtà e dei bisogni, adattamento, funzionamento.

La società italiana aspetta di divenire adulta, si affida alle rendite di posizione e di ricchezza, senza corse in avanti affronta i grandi eventi delle crisi globali con la sola soggettiva resistenza quotidiana. Ma un prolungamento della fase latente della vita sociale comporta il rischio di una sorta di masochistica rinuncia, senza forza e ambizione, a ogni tensione a trasformare l’assetto sistemico e civile della nostra società. Una sorta di acchiocciolamento nell’egoismo, di avvolgimento a spirale su sé stessa della struttura sociale che attesta tutti a traguardi brevi”.

La quasi totalità degli italiani (il 92,7%) è convinta che l’accelerata dell’inflazione durerà a lungo e che bisogna pensare subito a come difendersi. Il 76,4% è convinto che non potrà contare su aumenti significativi delle entrate familiari nel prossimo anno, il 69,3% teme che nei prossimi mesi il proprio tenore di vita si abbasserà (e la percentuale sale al 79,3% tra le persone che già detengono redditi bassi), il 64,4% sta ricorrendo ai risparmi per fronteggiare l’inflazione.

La moneta che perde valore rompe l’argine tra i tradizionali ‘garantiti’ e i ‘non garantiti’ del mondo del lavoro, colpendo anche i percettori di redditi fissi, lavoratori dipendenti e pensionati, non solo i lavoratori autonomi e i piccoli imprenditori. E’ su questo scenario che si innestano novità rilevanti dal punto di vista dell’immaginario collettivo. Assume una valenza socio-politica significativa la ripulsa verso i privilegi di alcuni ritenuti oggi odiosi, con effetti divisivi.

Gli italiani ritengono particolarmente insopportabili, nell’attuale situazione, i seguenti fenomeni: l’87,8% l’eccessivo gap esistente tra le retribuzioni dei dipendenti e quelle dei manager; l’86,6% i bonus milionari di buonuscita per i manager, pagati per andarsene piuttosto che per lavorare; l’84,1% le tasse troppo ridotte pagate dai giganti del web; l’81,5% i facili, immeritati guadagni di influencer, personaggi senza un comprovato talento e competenze certe; l’80,8% le remunerazioni

milionarie di azionisti e manager; il 79,7% l’incremento boom dei patrimoni dei super-ricchi; il 78,7% gli eccessi e gli sprechi per le feste delle celebrities; il 73,5% l’uso di jet privati da parte di ricchi paperoni; il 71,0% lo sfrecciare di auto potenti e Suv dai consumi incontrollati; il 70,5% la presenza di piscine e giardini da innaffiare nelle grandi ville private; il 69,4% l’esibizione sui social network di vacanze e viaggi di gran lusso; il 69,3% l’ostentazione di spese stratosferiche per ristoranti, hotel, locali notturni.

L’84,5% degli italiani, di più i laureati (89,2%) e i giovani (87,8%), si è ormai convinto che vada presa seriamente in considerazione la possibilità che anche eventi geograficamente lontani possano cambiare improvvisamente e radicalmente la propria quotidianità, sconvolgendo i propri destini.

I principali rischi globali in grado di condizionare le vite nel futuro prossimo sono: le guerre per il 46,2% degli italiani, per il 45,0% le crisi economiche, per il 37,7% i virus e le nuove minacce biologiche alla salute, per il 26,6% le instabilità dei mercati globali (dalla scarsità delle materie prime al boom dei prezzi dell’energia), per il 24,5% gli eventi atmosferici catastrofici, con temperature torride e precipitazioni intense, per il 9,4% gli attacchi informatici su vasta scala.

Così, il 66,5% degli italiani (oltre 10 punti percentuali in più rispetto al 2019 pre-Covid), dopo gli eventi che hanno stravolto il quotidiano, si sente insicuro pensando al futuro proprio e della propria famiglia: due italiani su tre sono pervasi dall’insicurezza. Il rischio percepito condiziona il quotidiano soprattutto con riferimento a ciò che sfugge in quanto inedito e imprevedibile, che fa sentire impotenti al di là di ogni iniziativa di prevenzione alla propria portata, ricorrendo alle coperture assicurative.

Inoltre l’Italia è interessata da un progressivo processo di invecchiamento della popolazione, che affonda le radici nel passato e di cui si cominciano ad apprezzare le implicazioni profonde sul funzionamento del mercato del lavoro, sui livelli di competitività e sull’equilibrio del sistema di welfare.

La popolazione di almeno 65 anni di età, in uscita o fuori dal mercato del lavoro, è pari al 23,8% del totale e rispetto a 30 anni fa (il 1992) registra un aumento del 60%. Sulla base delle previsioni demografiche, tra 20 anni (nel 2042) il 33,7% della popolazione italiana sarà costituito da anziani, con 65 anni e oltre.

Ad oggi, l’indice di dipendenza strutturale, che misura il rapporto tra la popolazione inattiva e la popolazione attiva, è pari al 57,5% (+12,8 punti percentuali rispetto al 1992) e quello di vecchiaia è pari al 187,9% (+87,5% rispetto al 1992).

Inoltre, il divario territoriale che separa le regioni del Mezzogiorno dal resto dell’Italia si evince dalla lettura dei dati sulla distribuzione della povertà. Nel 2021 le famiglie che vivevano in condizione di povertà assoluta in Italia erano 1.900.000, pari al 7,5% del totale, aumentate di 1,1 punti percentuali rispetto al 2019, per un totale di quasi 5.600.000 di individui (il 9,4% della popolazione totale: +1,7 punti percentuali rispetto al 2019) impossibilitati ad acquistare un paniere di bene e servizi giudicati essenziali per uno standard di vita accettabile. Di questi, il 44,1% risiedeva nel Sud e nelle isole.

Inoltre, analizzando gli indicatori relativi al livello di istruzione giovanile, emerge che nel 2021 i giovani 18-24enni usciti precocemente dal sistema di istruzione e formazione erano pari a1 12,7% a livello nazionale e al 16,6% nelle regioni del Mezzogiorno, contro una media europea di dispersione scolastica pari al 9,7%.

Ma lo scostamento rispetto alle medie europee si mantiene anche nelle coorti con età maggiore: infatti, se mediamente nei Paesi dell’Unione europea la quota di 25-34enni con il diploma è pari all’85,2%, in Italia il valore è pari al 76,8% e scende al 71,2% nelle regioni del Mezzogiorno.

E’ inferiore alla media europea anche la percentuale di 30-34enni laureati o in possesso di titolo terziario, che in Italia sono il 26,8% (quota che sale al 31,3% nel Nord-Est e si arresta al 20,7% nel Mezzogiorno) contro una media Ue del 41,6%.

Una fragilità tutta italiana è poi rappresentata dai Neet, i giovani che non studiano e non lavorano, di cui il nostro Paese detiene il primato in Europa: il 23,1% di 15-29enni a fronte di una media Ue del 13,1%. Nelle regioni del Mezzogiorno l’incidenza sale al 32,2%. Si tratta, in definitiva, di un esercito inerme di risorse giovanili bisognoso di essere riattivato.

Infatti negli ultimi cinque anni gli alunni iscritti ai diversi ordini di scuola (dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di secondo grado) sono passati da più di 8.600.000 a circa 8.200.000, segnando una contrazione del 4,7%, pari a 403.356 ragazzi in meno. Solo nell’anno scolastico 2020-2021, rispetto a quello precedente, sono scomparsi dalle aule italiane 102.280 alunni: -1,2%. L’onda negativa della dinamica demografica è particolarmente evidente nella scuola dell’infanzia (-11,5% nei cinque anni considerati).

Ma si dispiega pienamente tra i bambini nella scuola primaria, diminuiti in 5 anni dell’8,3%: ciò equivale a ben 227.325 alunni in meno nell’arco del quinquennio, di cui 61.651 solo nell’ultimo anno (-2,4%). Anche per l’università le prospettive non sono rosee. Nell’anno accademico 2021-2022 si assiste a una brusca contrazione del numero di immatricolati (pari a 320.871) rispetto all’anno precedente (quando gli immatricolati erano stati 330.271): -2,8%.

Infine s partire dal 2020 si è registrata una inversione di tendenza nelle scelte di finanziamento pubblico della sanità. Mentre nel decennio precedente (dal 2010 al 2019) l’andamento del Fondo sanitario nazionale ha fatto registrare una sostanziale stabilità (con un incremento medio annuo dello 0,8%), passando da € 105.600.000.000 ad € 113.800.000.000, a partire dal 2020 si è registrato un significativo incremento.

Nel 2020 si è passati ad € 120.600.000.000 e nel periodo 2020-2022 il finanziamento pubblico ha fatto registrare un incremento medio annuo dell’1,6%. Ma l’incidenza del finanziamento del Sistema sanitario nazionale scenderà al 6,2% del Pil nel 2024 (era il 6,6% nel 2010). I dati su medici e infermieri del Ssn segnalano che, dal 2008 al 2020, il rapporto medici/abitanti è passato da 19,1 a 17,3 per 10.000 abitanti, mentre quello relativo agli infermieri da 46,9 a 44,4 per 10.000.

Vero è che, per far fronte all’emergenza Covid, è stato necessario assumere personale sanitario: secondo i dati del Ministero della Salute aggiornati a luglio 2121, si è trattato di 21.414 medici e di 31.990 infermieri, insieme a 29.766 assunzioni di altro personale sanitario. Tuttavia, sono prevalenti le assunzioni temporanee, mentre quelle a tempo indeterminato riguardano una quota ridotta sia di medici (in tutto 1.350, pari al 6,3% delle assunzioni), sia di infermieri (8.757, cioè il 27,4%).

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