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Don Diego Di Modugno: il sacerdozio è fedeltà di Dio all’umanità

“Il sacerdozio mantiene ed esprime nel mondo lo svelarsi della vita come scopo. Per il presbitero l’appartenenza a Cristo come ‘Mandato dal Padre’ è la definizione esauriente della propria personalità. Vita e ministero sono così risposta ad un Avvenimento reale, storico ed esistenziale… La missione, negata dal mondo come violenza antilibertaria, nasce dallo struggimento della carità… L’uomo non vive più per se stesso, come affermazione di sé, ma per ‘Colui che è morto e risorto per lui’… Il ‘per chi si vive’ nuovo indica all’interno della figura del tempo e dello spazio il sorgere di una morale nuova. Nuova perché non nasce adeguatamente né dipende da leggi analiticamente scoperte e fondate nei vari dinamismi della natura, ma dal fascino assecondato di un incontro”.
Parto da questo articolo di mons. Luigi Giussani, ‘Il sacerdote di fronte alle sfide radicali della società contemporanea’, pubblicato nel 1995 dal mensile ‘30Giorni’ per un dialogo con il parroco della parrocchia ‘Santa Famiglia’ di Tolentino, nella diocesi di Macerata, don Diego Di Modugno, chiedendo di spiegarci il significato di festeggiare 50 anni di sacerdozio:
“E’ la prova di fedeltà del Signore nei riguardi di un ragazzo, che si è sentito chiamato a seguirLo nella forma concreta del sacerdozio, in quanto ci sono molte forme di vocazione, e constatare la sua fedeltà; così come mi ha riempito di entusiasmo, mettendomi alcune persone vicine appena è apparso il segno della vocazione, questo seme (ecco il motivo per cui si va in seminario a prepararsi ad essere sacerdote) non ha mancato mai Dio fino ad oggi, dopo 50 anni dall’ordinazione sacerdotale, di essere da parte di Dio coltivato, cioè aiutato affinchè ne prenda coscienza delle occasioni offerte.
Di questa Sua fedeltà ringrazio Dio, perché mi dà nuovo slancio, ormai non più giovanile, per un uomo che ha 50 anni di sacerdozio, di chiedere a Dio che mi dia altri anni perché non venga a meno quell’entusiasmo che si vive negli anni della maturità con più consapevolezza anche delle proprie limitazioni. Quanti ripensamenti dopo 50 anni!”
Perché hai scelto la vita sacerdotale?
“Uno non sceglie, uno è scelto. Per questo si usa la parola vocazione, che significa chiamare: è Gesù, inviato dal Padre, che ha scelto i discepoli. Quindi dopo tanti anni Cristo continua a far sorgere il desiderio, attraverso testimonianze che si riceve, di servire il Signore: Dio ti chiama a seguirLo. Io non ho fatto altro che seguire quel desiderio, riconoscendolo autentico in quanto non me lo aspettavo, perché non mi sentivo capace di questo, ma ho detto di sì per arrivare all’ordinazione, che mi sento di rinnovarla ogni volta che celebro la messa”.
‘L’educazione conferma e svolge il cuore dell’uomo, in quanto la coscienza dell’io vive come essenziale esigenza di una totalità. Per cui un punto meno del tutto non appaga la mia ricerca, cioè non appaga il mio ‘cuore’, direi traducendo biblicamente la cosa’: così affermava nel 1996 mons. Luigi Giussani ad una conferenza all’Università di Bologna. Cosa è stato per te l’incontro con mons. Luigi Giussani?
“Nel momento in cui si decide definitivamente deve avere un desiderio: in quel tempo insieme ad altri ragazzi partecipando ai gruppi di Gioventù Studentesca, poi Comunione e Liberazione, ho assaporato la loro compagnia, rendendo più evidente la richiesta di Gesù quando ha scelto me, chiedendo tutta la mia persona, compresa la scelta del celibato. Mi hanno sostenuto le parole di mons. Giussani e gli amici”.
Dalla tua esperienza in quale modo è possibile raccontare che la speranza non delude?
“La speranza è una delle tre virtù teologali, cioè hanno a che fare con Gesù e il Padre. La speranza non è ottimismo; Gesù ha detto che avremo sempre guerre e terremoti, ma c’è Lui che ha guarito i malati e resuscitato i morti: ‘Dove ci sono Io l’uomo può vivere una vita piena’, che ce la dona per grazia Gesù. Quindi la Chiesa ci conduce a vivere la certezza che il mondo sarà salvato e le nostre colpe sono perdonate, perché il Suo aiuto non verrà mai meno e staremo con Lui per sempre nell’eternità.
Siamo certi che Colui che è venuto è presente e si manifesta al mondo e noi saremo con Lui. Se non avessi questa certezza dovrei essere triste. La speranza è che si compirà ciò che Gesù ha cominciato; si sta compiendo ora e si manifesterà nella totale completezza dell’eternità. E staremo con Lui per sempre”.
E’ iniziato il Giubileo, che tu e la parrocchia ‘Santa Famiglia’ avete anticipato di un anno: cosa significa questa parola?
“Giubileo è la disponibilità di Dio al perdono. La certezza è che i peccati sono perdonati, se uno si pente: questa è una certezza data da Dio al popolo. Quindi a chi aveva debiti venivano condonati e si ritornava ad essere persona libera. Questa prassi giubilare è attuale. Con il giubileo è data a tutti la possibilità di un nuovo inizio; grazie alla misericordia di Dio posso ricominciare e non sono solo inchiodato al mio peccato, come dice papa Francesco, ma posso rialzarmi e riprendere a camminare”.
Papa Francesco ricorda alla Congregazione di san Vincenzo de’ Paoli il ‘fuoco’ della missione

“Mentre la Congregazione della Missione si prepara a commemorare il quarto centenario della sua fondazione, porgo affettuosi auguri a Lei, ai sacerdoti e ai fratelli della Congregazione e a tutti i membri della grande Famiglia vincenziana. Prego affinché questo significativo anniversario sia un’occasione di grande gioia e di rinnovata fedeltà alla concezione del discepolato missionario, fondato sull’imitazione dell’amore preferenziale di Cristo per i poveri”: così inizia il messaggio scritto da papa Francesco a p. Tomaz Mavric, superiore generale della Congregazione della Missione di San Vincenzo de’ Paoli in occasione dei 400 anni di fondazione.
Nel messaggio il papa ha ripercorso la storia della nascita delle opere di carità di quello che oggi chiamiamo la ‘San Vincenzo’: “Gli inizi della vostra Congregazione sono radicati nella profonda esperienza personale di san Vincenzo de’ Paoli, in quel ‘fuoco d’amore’ che ardeva nel cuore del Figlio di Dio incarnato e che lo portò a identificarsi con i poveri e gli emarginati.
Angosciato per la mancanza di cure pastorali nelle campagne francesi, all’inizio del 1617 decise di organizzare le missioni volte a fornire un’istruzione catechistica di base e incoraggiare un ritorno ai sacramenti. Un sogno che avrebbe portato a compimento, circa otto anni dopo, con la fondazione della Congregazione della Missione il 17 aprile 1625”.
E’ stato un inizio con forte impulso missionario: “Nei primi sette anni di vita, i sacerdoti e i fratelli della Congregazione svolsero 140 missioni. Tra il 1632 e il 1660, i missionari della Casa madre di Parigi organizzarono altre 550 missioni. A partire dal 1635, con la nascita di comunità fuori Parigi, furono avviate centinaia di altre missioni. Questa notevole espansione testimonia la fecondità religiosa e missionaria dello zelo sacerdotale di San Vincenzo e la sua sete di convertire i cuori e le menti a Cristo”.
Inoltre il papa ha sottolineato anche l’importante ruolo delle donne nelle opere di carità nella società: “Nella sua opera di sensibilizzazione verso i poveri, Vincenzo si rese subito conto che le opere di carità dovevano essere ben organizzate. Le donne furono le prime a raccogliere questa sfida. Nel 1617, nella parrocchia di Châtillon, fondò la prima delle ‘Confraternite della Carità’, che continuano oggi come Associazione Internazionale di Carità o Volontariato Vincenziano.
Nel 1633, insieme a Santa Luisa de Marillac, fondò una forma rivoluzionaria di comunità femminile, le ‘Figlie della Carità’. Fino a quel momento, le religiose vivevano nei monasteri; le Figlie della Carità furono invece inviate nelle strade di Parigi per servire gli ammalati e i poveri. Questa innovazione darà i suoi frutti in una vera e propria proliferazione di Congregazioni religiose femminili dedite alle opere apostoliche nei secoli successivi”.
E si dedicò anche alla formazione del clero, per cui il papa ha invitato a non dimenticare questa eredità spirituale: “In questo anniversario, è opportuno riflettere sull’eredità spirituale, sullo zelo apostolico e sulla cura pastorale che san Vincenzo de’ Paoli ha trasmesso alla Chiesa universale. L’elenco di coloro che hanno assimilato la spiritualità vincenziana e l’hanno vissuta eroicamente nel corso degli anni è lungo e abbraccia tutti i continenti…
Ancora oggi, sulle orme di san Vincenzo, la sua famiglia continua ad avviare opere di carità, ad intraprendere nuove missioni e ad aiutare nella formazione del clero e del laicato. Più di 100 rami di sacerdoti, fratelli, sorelle, laici e uomini costituiscono oggi la famiglia vincenziana. La Società di San Vincenzo de’ Paoli, fondata nel 1833 dal Beato Frédéric Ozanam, è diventata una straordinaria forza di bene al servizio dei poveri, con centinaia di migliaia di membri in tutto il mondo”.
Quindi la ‘crescita’ missionaria è la ‘forza’ della congregazione: “La Congregazione della Missione sta vivendo attualmente nuovi segni di crescita. Le Province più giovani, soprattutto in Asia e in Africa, dove le vocazioni alla Congregazione sono fiorenti, hanno risposto alla chiamata di iniziare missioni in altri Paesi. La Congregazione continua anche a intraprendere nuove opere creative tra i bisognosi”.
Una missione attenta ai poveri: “Penso all’ ‘Alleanza Famiglia Vincenziana con le persone senza fissa dimora’, un’iniziativa internazionale per fornire alloggi a prezzi accessibili alle persone senzatetto, ispirata all’esempio di Vincenzo de’ Paoli, che iniziò il suo lavoro nei loro confronti nel 1643, costruendo tredici case a Parigi per i poveri. Questa iniziativa intende svilupparsi nei Paesi dove sono presenti i vincenziani con la costruzione di altre case superando così l’obiettivo iniziale di accogliere 10.000 persone”.
Ed il carisma di san Vincenzo de’ Paoli è un arricchimento per la Chiesa: “Quattro secoli dopo la fondazione della Congregazione della Missione, non c’è dubbio che il carisma di San Vincenzo de’ Paoli continui ad arricchire la Chiesa attraverso i vari apostolati e le buone opere dell’intera Famiglia vincenziana.
Spero che le celebrazioni del quarto centenario mettano in evidenza l’importanza della concezione di San Vincenzo del servizio a Cristo nei poveri per il rinnovamento della Chiesa del nostro tempo, nella sequela missionaria e nell’aiuto ai bisognosi e agli abbandonati nelle molte periferie del nostro mondo e ai margini di una cultura superficiale e ‘usa e getta’.
Sono convinto che l’esempio di San Vincenzo possa ispirare in modo particolare i giovani, che con il loro entusiasmo, la loro generosità e la loro preoccupazione per la costruzione di un mondo migliore, sono chiamati a essere testimoni audaci e coraggiosi del Vangelo tra i loro coetanei e ovunque si trovino”.
(Foto: Congregazione San Vincenzo de’ Paoli)
XXV domenica del Tempo Ordinario: autorità come servizio

Nel brano del Vangelo mentre si descrive il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, itinerario non solo geografico ma spirituale, Gesù per la seconda volta annuncia ai suoi discepoli la imminente Pasqua di passione, morte e risurrezione. La rivelazione che Gesù fa ai suoi discepoli è la via inattesa attraverso la quale egli realizzerà la sua missione salvifica ‘quando sarò innalzato tra la terra e il cielo io attirerò tutto a me’; discorso assai duro che gli apostoli cercano di sviare pensando ad un altro tipo di regno che Gesù sarebbe venuto ad instaurare e discutono tra di loro sul ruolo futuro di ciascuno di essi in questo nuovo regno.
Gesù parla di passione e morte, i dodici discutono invece chi dovrà occupare il primo posto in questo regno. Gesù si pone così ad una distanza abissale dai suoi discepoli: ‘se uno vuole essere il primo sia il servo’, e, come se ciò non bastasse, aggiunge ‘sia servo di tutti’ e con l’immagine del bambino evidenzia loro le virtù proprie del discepolo di Cristo: fiducia e umiltà. Propone un bambino come modello del credente. Il bambino non conosce né filosofia né teologia; è il più disarmato ed indifeso ma conosce bene la fiducia e si abbandona sicuro tra le braccia del papà o della mamma.
In questo Regno che Cristo dovrà instaurare il valore di una persona non dipende dal ruolo che ricopre ma si misura sul servizio che rende: non su quello che si ha, ma su quello che si dà. Vuoi primeggiare?, comincia a servire. La nostra fedeltà al Signore si misura dalla nostra disponibilità a servire. I discepoli mostrano di non essere ancora preparati a recepire questo messaggio rivoluzionario che parla di spirito di rinuncia e di sacrificio. Ecco perchè, laddove Gesù parla della sua passione e morte, essi appaiono presi da altri pensieri: chi sarà il primo nel regno di Gesù?, quali compiti, onori, governo avrà ciascuno di noi?
Due logiche, due processi mentali (quello di Gesù e quello degli apostoli) diametralmente opposti. Arrivati a destinazione e fermatisi, questa volta è Gesù ad interrogarli: di che cosa parlavate lungo la strada?, quale l’oggetto del vostro conversare? Domande che sono un richiamo, un rimprovero, un volere evidenziare ai suoi che stavano viaggiando su aree diametralmente opposte. E Gesù scende al pratico, al concreto: prende un bambino e dice ai suoi discepoli: se non diventate come questo bimbo non entrerete nel regno dei cieli.
Nasce spontanea una domanda: è un male volere primeggiare, sforzarsi di essere il primo? Certamente è un desiderio innato in ciascuno di noi emulare gli altri; adoperarsi a sviluppare il proprio essere, le proprie capacità, i doni e i talenti ricevuti da Dio per assestarsi ai primi posti. Questo è proprio della natura umana ed è voluto da Dio. Gesù non è contrario quando l’uomo cerca di realizzare i desideri innati, né allo sforzo di arrivare al primo posto; ciò che invece cambia è la motivazione: essere il primo per meglio aiutare gli altri e se stesso, questa è la vera grandezza.
Il Vangelo ci ricorda l’episodio di quella donna, la madre dei figli di Zebedeo, che prega Gesù onde i suoi figli possano sedere nel regno uno a destra, l’altro a sinistra: povera donna, non sapeva ciò che stava chiedendo. Gli apostoli, credendo imminente l’inaugurazione del regno, si candidano per i primi posti. La risposta di Gesù è di tutt’altro tenore: prende un bambino, lo mette in mezzo ed abbracciandolo dice: chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me.
‘Voi mi chiamate, dirà Gesù, signore e maestro ed io vi ho lavato i piedi; vi ho dato l’esempio: come ho fatto io , fate voi’, ecco la vera grandezza. La vera grandezza o autorità non consiste nel primeggiare, nello spadroneggiare sugli altri, nell’affermare se stessi e rendere schiavi o sottomessi gli altri; ma vera grandezza è mettere a fuoco i talenti ricevuti da Dio a beneficio di chi è meno dotato. Si ha così un rovesciamento dal concetto di autorità, del potere, del governo. Governare è servire; servire è amare come Gesù che ha dato la vita, è morto in croce per salvare l’uomo e riconciliare il cielo e la terra.
Amico che ascolti, se sei discepolo di Cristo devi persuaderti che il tuo lavoro, la tua intelligenza, il tuo cuore non è per te ma è per gli altri; ogni autorità è una paternità ed essere padre significa amore e sacrificio. L’autorità, diceva uno scrittore, non è una poltrona ma un timone; non è un titolo di nobiltà ma di responsabilità; non è un bastone ma una croce.
E’ necessario allora rivedere il programma della vita: se vuoi essere felice devi diventare come il bambino, che è felice solo tra le braccia del papà o della mamma; è necessario ridestare il “fanciullo che dorme dentro ciascuno di noi”, riamare la bontà e l’innocenza ed ancora una volta rivolgersi a Dio invocando: “Padre nostro che sei nei cieli”. La Vergine Maria ci aiuti a comprendere che c’è più gioia nel dare che nel ricevere.
A Palermo il card. Parolin invita ad essere testimoni di fede

Il solenne Pontificale per il IV Centenario del ritrovamento delle spoglie mortali di Santa Rosalia a Palermo è stato presieduto dal segretario di stato vaticano, card. Pietro Parolin, che nell’omelia ha ricordato tutti i martiri palermitani: “Rosalia continua ad essere un esempio di fedeltà e coraggio per vivere in comunione con Cristo e per promuovere giustizia e legalità”.
Nell’omelia il segretario di stato vaticano ha ricordato i testimoni della fede: “La testimonianza della fede in Gesù Cristo lega Rosalia agli altri Santi e Sante siciliani: Agata, Lucia, Gerlando, Vito, Alberto degli Abati, per citarne solo alcuni. Questi coraggiosi testimoni di Cristo hanno gettato il seme del Cristianesimo della Chiesa siciliana e noi oggi, frutto di quel seme fecondo, facciamo memoria di una di questi testimoni, la Vergine Rosalia, per venerarne con sentimenti di gratitudine, la testimonianza esemplare ed implorarne la protezione divina sulla Chiesa palermitana.
I santi di ogni tempo e luogo sono infatti modelli di fedeltà e di coraggio per tutti coloro che vogliono vivere secondo il Vangelo di Gesù. Siccome però non abbiamo un insegnamento diretto della nostra Santa siamo invitati ad accogliere l’insegnamento indiretto che ci viene impartito dalle Sacre Scritture che la Liturgia ci propone in occasione della sua festa”.
L’omelia è stato un invito ad ascoltare l’invito che Dio rivolge all’umanità: “Dio invita l’uomo, e quindi ciascuno di noi, a cercare il suo volto e ad ascoltare la sua parola. L’umanità desidera vedere Dio, l’abbiamo detto nel salmo responsoriale, L’umanità desidera vedere Dio, ma anche Dio desidera vedere il volto autentico dell’umanità…
L’umanità deve ascoltare la voce di Dio ma anche Dio ama ascoltare la voce dell’umanità. Comprendiamo bene allora che la santità cui siamo chiamati non è una statica perfezione morale ma una dinamica di relazione, non è solo essere buoni, certamente anche questo è parte fondamentale della santità, ma è soprattutto un’esperienza della vita stessa di Dio che include la dimensione dell’intimità, del silenzio, anche talvolta dell’assurdo che abita la nostra esistenza umana. La santità a cui oggi Rosalia ci richiama è correre il rischio di vivere la trasformazione operata in noi da Cristo, altrimenti la fede diventa una passione inutile”.
Infine ha invitato a promuovere la cultura della legalità, liberando la città dalle ‘pesti’ che la invadono: “Le reliquie di Santa Rosalia nel 1624 furono portate in processione per la città che fu così purificata e liberata da una grave epidemia di peste. Chiediamoci allora, cari fratelli e sorelle, qual è la peste che avvolge ancora la nostra città, che avvolge il mondo, un mondo che ha tanto bisogno di confronto con la verità e con l’esperienza di fede, quindi recuperiamo anche nelle celebrazioni del Festino un forte senso di sobrietà evangelica e di servizio che sono i veri valori incarnati da Rosalia”.
E questo può avvenire attraverso la testimonianza: “La città di Palermo ha perseguito la giustizia attraverso forme di testimonianza altissima, fino al sacrificio della vita. Qui ci sono i martiri della giustizia, tra i quali il caro don Giuseppe Puglisi. Nella memoria di tutti noi è rimasta impressa l’invettiva del cardinale Salvatore Pappalardo: Mentre a Roma si discute, Sagunto è espugnata dai nemici, e questa volta non è Sagunto ma la nostra Palermo. Il clima era cupo in quegli anni ma la città seppe reagire. Dal sangue versato nacquero migliaia di voci e di esperienze sul cammino del cambiamento.
La Chiesa di Palermo continui anche adesso ad essere attenta e sollecita nel favorire processi e percorsi atti a promuovere la cultura della giustizia e della legalità, collaborando con le numerose associazioni che operano tra le maglie del tessuto urbano e che sono presenti sul territorio per aiutare la cittadinanza a superare una mentalità che può rischiare alle volte di essere in contrasto con la legalità”.
E nel messaggio alla città mons. Corrado Lorefice,arcivescovo di Palermo, ha chiesto a chi si vuole lasciare la città: “A questa nuova peste che, sotto i nostri occhi, camuffata di normalità e di ineluttabilità, sta contagiando i nostri giovani, cioè i nostri figli e nipoti, a Ballarò come al Cep, a Bagheria come a Termini Imerese?! Questa tremenda peste entra nelle nostre case, nelle nostre scuole, nei luoghi di ritrovo dei giovani, nei luoghi di divertimento e dello sport. Ci invade sotto i nostri occhi”.
E’ un preciso atto di accusa contro i trafficanti di droga: “Si diffonde come cosa ordinaria il consumo di crack e di altre droghe come il fentanyl, aggiunto all’eroina. Neonati ricoverati per overdose. Giovani piegati o stramazzati a terra. Esaltati, o depressi. A Palermo si abbassa anche l’età dei consumatori di droga. La prima dose si consuma anche a dieci anni. Penso a Ballarò e alle sue stradine, dove vediamo ragazzini e giovani distesi sui marciapiedi con lo sguardo perso, con gli occhi dello sballo da crack. Ragazze costrette a vendere i loro corpi per racimolare il prezzo di una dose. Non sono figli di altri, sono i nostri figli e ne siamo responsabili. Giovani, bambini, adescati per farli diventare dipendenti. Schiavi. Manipolabili. Consumatori”.
E’ un invito a non abbandonare i giovani: “Genitori, educatori, docenti, animatori delle comunità cristiane, rimaniamo accanto ai giovani, facciamo nostre le loro paure, le loro fragilità, le loro incertezze che noi adulti abbiamo provocato. Non li abbandoniamo. Ma stiamo con loro da adulti, non come adolescenti, con sapienza, come loro punti certi di riferimento. Noi adulti siamo sbandati. Depistati anche noi da questa mentalità individualista e da questa cultura che idolatra la soddisfazione illimitata dell’io, il profitto indiscriminato, il consumo sfrenato. Una cultura che crea scarti, emarginazione”.
Infine un invito ad una ‘sana’ indignazione: “Rosalia ci chiede di indignarci come e con lei, a metterci insieme per fare crescere una sensibilità di impegno civile e sociale. Ci chiede di alzarci. Di sbracciarci. Di liberarci da un falso perbenismo e dall’indifferenza. Diamo cibo robusto ai nostri giovani non frivolezze e assenza di presenza significativa. Testimoni di bene. Di vita. Di cura. Di responsabilità e libertà. Mettiamoci insieme per fare alleanze educative e impiantare cantieri educativi”.
(Foto: Arcidiocesi di Palermo)
Papa Francesco: la pazienza è vitamina per il cristiano

Alla viglia del Triduo pasquale papa Francesco ha continuato il ciclo di catechesi su ‘I vizi e le virtù’, incentrando la riflessione sul tema ‘La pazienza’, attraverso l’inno paolino alla carità con un appello alla pace in Ucraina ed in Terra Santa, aggiungendo anche considerazioni a braccio per la pioggia, attraverso il racconto della Passione:
“Alle sofferenze che subisce, Gesù risponde con una virtù che, pur non contemplata tra quelle tradizionali, è tanto importante: la virtù della pazienza. Essa riguarda la sopportazione di ciò che si patisce: non a caso pazienza ha la stessa radice di passione.
E proprio nella Passione emerge la pazienza di Cristo, che con mitezza e mansuetudine accetta di essere arrestato, schiaffeggiato e condannato ingiustamente; davanti a Pilato non recrimina; sopporta gli insulti, gli sputi e la flagellazione dei soldati; porta il peso della croce; perdona chi lo inchioda al legno e sulla croce non risponde alle provocazioni, ma offre misericordia. Questa è la pazienza di Gesù”.
Però la pazienza di Cristo non è quella stoica, ma è frutto dell’Amore di Dio, come emerge dall’inno alla Carità dell’apostolo Paolo: “Infatti, nel descrivere la prima qualità della carità, utilizza una parola che si traduce con ‘magnanima’, ‘paziente’. La carità è magnanima, è paziente.
Essa esprime un concetto sorprendente, che torna spesso nella Bibbia: Dio, di fronte alla nostra infedeltà, si mostra ‘lento all’ira’: anziché sfogare il proprio disgusto per il male e il peccato dell’uomo, si rivela più grande, pronto ogni volta a ricominciare da capo con infinita pazienza. Questo per Paolo è il primo tratto dell’amore di Dio, che davanti al peccato propone il perdono”.
Però spesso a noi manca questa virtù: “Tuttavia, dobbiamo essere onesti: siamo spesso carenti di pazienza. Nel quotidiano siamo impazienti, tutti. Ne abbiamo bisogno come della ‘vitamina essenziale’ per andare avanti, ma ci viene istintivo spazientirci e rispondere al male col male: è difficile stare calmi, controllare l’istinto, trattenere brutte risposte, disinnescare litigi e conflitti in famiglia, al lavoro o nella comunità cristiana. Subito viene la risposta, non siamo capaci di essere pazienti”.
Per questo motivo il papa ha ricordato che la pazienza è una ‘chiamata’: “E ciò chiede di andare controcorrente rispetto alla mentalità oggi diffusa, in cui dominano la fretta e il ‘tutto subito’; dove, anziché attendere che maturino le situazioni, si spremono le persone, pretendendo che cambino all’istante. Non dimentichiamo che la fretta e l’impazienza sono nemiche della vita spirituale. Perché? Dio è amore, e chi ama non si stanca, non è irascibile, non dà ultimatum, Dio è paziente, Dio sa attendere… La pazienza ci fa salvare tutto”.
E la pazienza si può accrescere con la contemplazione al Crocifisso: “Specialmente in questi giorni ci farà bene contemplare il Crocifisso per assimilarne la pazienza. Un bell’esercizio è anche quello di portare a Lui le persone più fastidiose, domandando la grazia di mettere in pratica nei loro riguardi quell’opera di misericordia tanto nota quanto disattesa: sopportare pazientemente le persone moleste. E non è facile. Pensiamo se noi facciamo questo: sopportare pazientemente le persone moleste. Si comincia dal chiedere di guardarle con compassione, con lo sguardo di Dio, sapendo distinguere i loro volti dai loro sbagli”.
Ed infine il consiglio per ‘coltivare’ la pazienza è quello di ampliare la propria visione, come insegna il libro ‘Imitazione di Cristo’: “Infine, per coltivare la pazienza, virtù che dà respiro alla vita, è bene ampliare lo sguardo… Ed ancora, quando ci sentiamo nella morsa della prova, come insegna Giobbe, è bene aprirsi con speranza alla novità di Dio, nella ferma fiducia che Egli non lascia deluse le nostre attese. Pazienza è saper sopportare i mali”.
Inoltre, al termine dell’udienza papa Francesco ha ricordato che sono presenti due padri, che hanno perso le figlie nella guerra, uno israeliano e una arabo, e sono amici: “Non guardano all’inimicizia della guerra, ma guardano l’amicizia di due uomini che si vogliono bene e che sono passati per la stessa crocifissione. Pensiamo a questa testimonianza tanto bella di queste due persone che hanno sofferto nelle loro figlie la guerra della Terra Santa. Cari fratelli, grazie per la vostra testimonianza!”
(Foto: Santa Sede)
Nuovi beati spagnoli: capaci di perdono

“Ieri a Siviglia sono stati beatificati Manuel Gonzales-Serna, sacerdote diocesano, e diciannove compagni presbiteri e laici, uccisi nel 1936 nel clima di persecuzione religiosa della guerra civile spagnola. Questi martiri hanno dato testimonianza a Cristo fino alla fine. Il loro esempio conforti i tanti cristiani che nel nostro tempo sono discriminati per la fede. Un applauso ai nuovi beati!”:
XXXIII domenica Tempo Ordinario: chi è fedele nel poco, avrà la vita eterna!

Siamo ormai vicini alla fine dell’anno liturgico; la prossima domenica si conclude l’anno con la festa di Cristo Re. Oggi la Liturgia ci presenta la parabola dei talenti invitando ciascuno di noi a fare i conti davanti Dio perché la nostra vita non risulti un fallimento. Mentre si è in attesa della venuta del Signore è indispensabile essere operosi.
San Nicola da Tolentino e la Lituania, ne parla l’Arcivescovo Makrickas

Nello scorso febbraio papa Francesco aveva nominato mons. Rolandas Makrickas vescovo di Tolentino, con il conferimento del titolo personale di arcivescovo. mantenendo viva la memoria storica dell’antica diocesi, che resta guidata da mons. Nazzareno Marconi, vescovo della diocesi di Macerata; si tratta di una nomina onorifica che permette alla città di conservare il vecchio status di diocesi.
Papa Francesco alla Rota romana: il matrimonio è un bene

Inaugurando l’anno giudiziale della Rota romana, nella scorsa settimana, papa Francesco ha riflettuto sul valore del matrimonio, in quanto è necessario riscoprire il valore dell’unione coniugale “tra uomo e donna su cui si fonda la famiglia. Infatti, un aspetto certamente non secondario della crisi che colpisce tante famiglie è l’ignoranza pratica, personale e collettiva, circa il matrimonio”.
Card. Zuppi: la fedeltà per il bene comune

‘Virgo Fidelis’ è l’appellativo cattolico di Maria, madre di Gesù, scelta quale patrona dell’Arma dei Carabinieri l’11 novembre 1949, data della promulgazione di un apposito Breve apostolico da parte di papa Pio XII. Il titolo di ‘Virgo Fidelis’, proposto con voto unanime dai cappellani militari dell’Arma e dall’Ordinariato militare per l’Italia, era stato sollecitato in relazione al motto araldico dell’Arma (‘Nei secoli fedele’) dall’arcivescovo, mons. Carlo Alberto Ferrero di Cavallerleone, che nel 1949 era ordinario militare, che compose anche il testo della Preghiera del Carabiniere alla ‘Virgo Fidelis’.