I vescovi del Triveneto contro l’eutanasia

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Svolta nel dibattito sul suicidio medicalmente assistito in Italia: nelle scorse settimane l’Azienda Sanitaria Regionale del Veneto ha dato il via libera senza ostacoli ad una richiesta di ‘fine vita’. Questa è la seconda volta che tale decisione viene presa nella regione, aprendo la strada a un’opzione di scelta per i pazienti che soffrono di gravi malattie terminali.

L’annuncio è stato fatto dall’Associazione Luca Coscioni, che ha svolto un ruolo determinante nell’assistere la paziente, Gloria (nome di fantasia), nel suo percorso di richiesta di suicidio medicalmente assistito. Gloria, una donna veneta di 78 anni affetta da una malattia oncologica, ha rilasciato una dichiarazione in cui spiega le sue motivazioni:

“Ho vissuto periodi pesanti con forza e volontà per affrontarli, ma le mie sofferenze sono diventate insopportabili. Nonostante tutto, l’ultima parola per me sarà ‘la vita è bella’, ma desidero terminare la mia vita con dignità”.

La procedura per accedere al suicidio assistito è durata circa 6 mesi, durante i quali l’azienda sanitaria e il Comitato etico hanno esaminato attentamente le condizioni di Gloria e le modalità del suo desiderio di porre fine alla vita. La richiesta è stata presentata ai legali dell’Associazione Luca Coscioni, che hanno fornito supporto legale ed emotivo alla paziente lungo tutto il percorso.

L’azienda sanitaria ha valutato la situazione di Gloria sulla base dei requisiti stabiliti dalla sentenza Cappato della Corte costituzionale. E’ stato accertato che la paziente ha fatto una scelta autonoma e consapevole di procedere con il suicidio assistito, che la sua patologia oncologica è irreversibile e causa una sofferenza da lei stessa considerata intollerabile. E’ stato inoltre stabilito che i trattamenti antitumorali mirati costituiscono il suo unico sostegno vitale.

Tale sentenza è stata commentata così dal presidente del Veneto, Luca Zaia, che è intervenuto sul canale twitch: “Viene detto impropriamente ‘suicidio assistito’, io parlerei piuttosto di riconoscimento del percorso di fine vita, che forse è anche più rispettoso.

Io non sono qui a promuovere il fine vita, ma un fatto di civiltà: un diritto che deve essere garantito ai cittadini. Se succedesse a me vorrei poter decidere…  Spesso i tribunali hanno preceduto il legislatore per quanto riguarda temi come il fine vita.

Il padre di Eluana Englaro, ad esempio, ha ottenuto l’autorizzazione a sospendere l’alimentazione non dal Parlamento, riunito a discutere senza concludere nulla, ma tramite la sentenza di un tribunale”.

A questa decisione i vescovi del Triveneto hanno risposto con una nota, in cui hanno sottolineato che compito della sanità è la cura: “Il suicidio assistito, come ogni forma di eutanasia, si rivela una scorciatoia: il malato è indotto a percepirsi come un peso a causa della sua malattia e la collettività finisce per giustificare il disinvestimento e il disimpegno nell’accompagnare il malato terminale.

Primo compito della comunità civile e del sistema sanitario è assistere e curare, non anticipare la morte. La deriva a cui ci si espone, in un contesto fortemente tecnologizzato, è dimenticarsi che lo sforzo terapeutico non può avere come unico obiettivo il superamento della malattia quanto, piuttosto, il prendersi cura della persona malata”.

I vescovi del Triveneto hanno posto il problema del diritto del malato terminale: “Oggi i progressi della medicina hanno portato a situazioni nuove e del tutto inedite. Ma, come la recente pandemia ha dimostrato, la persona non può esimersi dal confronto con il mistero del limite creaturale e della morte che ne rappresenta l’esito estremo e non si può evitare di fare i conti con essa. Si pongono con forza domande sul dolore fisico e sulla sofferenza che ne consegue”.

Il problema posto dai vescovi riguarda la vulnerabilità: “La ‘vulnerabilità’ emerge come una cifra insita nell’essere umano e, in una logica di ecologia integrale, in ogni essere vivente. La persona si legge come ‘essere del bisogno’: un bisogno che si concretizza nel pianto del neonato, nella fragilità dell’adolescente, nello smarrimento dell’adulto, nella solitudine dell’anziano, nella sofferenza del malato, nell’ultimo respiro di chi muore. Tale cifra attraversa ogni fase dell’esistenza umana”.

Per i vescovi occorre affrontare il tema della dignità della persona: “E’ essenziale porre l’accento sul tema della dignità della persona malata e sul dovere inderogabile di cura che grava su ogni persona ed in particolare su chi opera nel settore socio-sanitario chiamando in causa l’etica, la scienza medica e la deontologia professionale.

Il suicidio assistito, come ogni forma di eutanasia, si rivela una scorciatoia:il malato è indotto a percepirsi come un peso a causa della sua malattia e la collettività finisce per giustificare il disinvestimento e il disimpegno nell’accompagnare il malato terminale”.

Quindi il compito è la cura: “Primo compito della comunità civile e del sistema sanitario è assistere e curare, non anticipare la morte. La deriva a cui ci si espone, in un contesto fortemente tecnologizzato, è dimenticarsi che lo sforzo terapeutico non può avere come unico obiettivo il superamento della malattia quanto, piuttosto, il prendersi cura della persona malata. Il paziente inguaribile non è mai incurabile”.

Quindi è necessario non ‘cadere’ nell’accanimento terapeutico oppure nell’abbandono terapeutico: “Per il paziente inguaribile il rischio è duplice: o l’accanimento terapeutico, che determina il superamento del criterio di ragionevolezza e proporzionalità nel processo di cura, o l’abbandono terapeutico, nel momento in cui viene meno la possibilità di ottenere la guarigione, senza ricordare che, se non è possibile guarire, si può sempre alleviare il dolore e la sofferenza attraverso le cure palliative. Nessuno può essere lasciato morire da solo!”

Ed hanno richiamato il ‘compito’ che le Regioni devono svolgere: “E’ compito delle Regioni favorire luoghi di confronto e deliberazione etica quali sono i Comitati etici richiamati dalla sentenza stessa della Corte, poco diffusi sul territorio nazionale e spesso fatti intervenire quando tutto è già stato deciso, vanificando la funzione del Comitato stesso o mettendolo di fronte alla ratifica quasi obbligata di decisioni assunte da altri. E invece essi sono chiamati ad offrire la loro valutazione avendo sempre a cuore la tutela e il bene delle persone”.

Ed hanno chiesto una maggior promozione delle cure palliative: “E’ compito delle Regioni promuovere politiche sanitarie che favoriscano la diffusione della conoscenza e l’uso delle cure palliative, la formazione adeguata del personale, la presenza e l’azione di hospice dove la persona malata in fase terminale trovi un accompagnamento pieno, nelle varie dimensioni del suo essere, cosicché sia alleviato il dolore e lenita la sofferenza”.

Quindi hanno chiesto che esse siano accessibili a tutti: “Dispiace, invece, constatare come le cure palliative non siano adeguatamente diffuse e accessibili a tutti, anche nella forma domiciliare, e come vi siano anche differenze tra Regioni che rendono difficile e perciò impraticabile una vera assistenza di qualità, condizione necessaria per una vera alleanza terapeutica in cui il paziente possa sentirsi libero, anche di amare e lasciarsi amare, fino al sopraggiungere naturale della morte che, per il credente, è l’ingresso nella vita piena in Dio”.

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