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Papa Francesco ai vescovi statunitensi: lottare per la dignità umana

Papa Francesco

“Vi rivolgo alcune parole in questi momenti delicati che state vivendo come Pastori del Popolo di Dio che cammina negli Stati Uniti d’America”: con questo inizio di lettera papa Francesco ha scritto ai vescovi statunitensi, che si trovano ad affrontare una ‘crisi’ con il programma di ‘deportazione di massa’ di immigrati e rifugiati clandestini, voluto dall’amministrazione del presidente Trump, esortandoli in dieci punti a non cedere a ‘narrazioni’ discriminatorie.

Dopo la presa di posizione dei vescovi statunitensi il papa ha sottolineato che la storia del popolo ebreo è un esempio per la società contemporanea: “Il cammino del popolo d’Israele dalla schiavitù alla libertà, narrato nel libro dell’Esodo, ci invita a guardare alla realtà del nostro tempo, così marcatamente segnata dal fenomeno delle migrazioni, come a un momento decisivo della storia per riaffermare non solo la fede in un Dio sempre vicino, incarnato, migrante e rifugiato, ma anche l’infinita e trascendente dignità di ogni persona umana”.

Quindi ha voluto evidenziare che le sue parole non sono inventate, ma poggiano sulla Sacra Scrittura: “Le parole con cui inizio non sono pronunciate artificialmente. Anche un esame superficiale della Dottrina sociale della Chiesa mostra con grande forza che Gesù Cristo è il vero Emmanuele e che Egli non ha vissuto senza la difficile esperienza di essere espulso dalla propria terra a causa di un rischio imminente per la sua vita, e senza l’esperienza di dover rifugiarsi in una società e in una cultura estranee alla sua. Il Figlio di Dio, facendosi uomo, ha scelto di vivere anche il dramma dell’immigrazione”.

Ed ha ricordato anche le espressioni di papa Pio XII sulla cura dei migranti, che parla della famiglia di Nazareth costretta alla fuga: “Mi piace ricordare, tra le altre, le parole con cui Papa Pio XII iniziò la sua Costituzione apostolica sulla cura dei migranti, considerata la Magna Carta del pensiero della Chiesa sulle migrazioni:

La famiglia di Nazareth in esilio, Gesù, Maria e Giuseppe, emigranti in Egitto e lì profughi per sfuggire all’ira di un re empio, sono il modello, l’esempio e la consolazione degli emigranti e dei pellegrini di ogni età e paese, di tutti i profughi di qualsiasi condizione che, spinti dalla persecuzione o dalla necessità, sono costretti ad abbandonare la loro patria, i loro amati familiari e i loro cari amici per recarsi in terre straniere”.

Queste ‘deportazioni’ ledono la dignità umana, a cui i cristiani devono conformarsi: “Allo stesso modo, Gesù Cristo, amando tutti con un amore universale, ci insegna a riconoscere permanentemente la dignità di ogni essere umano, senza eccezioni. Infatti, quando parliamo di ‘dignità infinita e trascendente’, vogliamo sottolineare che il valore più decisivo che la persona umana possiede supera e sostiene qualsiasi altra considerazione giuridica che possa essere fatta per regolare la vita nella società. Pertanto, tutti i fedeli cristiani e le persone di buona volontà sono chiamati a considerare la legittimità delle norme e delle politiche pubbliche alla luce della dignità della persona e dei suoi diritti fondamentali, e non viceversa”.

Il messaggio è un invito ad esprimere un pensiero critico a seguito di una giusta informazione: “Ho seguito da vicino la grande crisi che si sta verificando negli Stati Uniti a causa dell’avvio di un programma di deportazioni di massa. Una coscienza debitamente formata non può esimersi dal formulare un giudizio critico e dall’esprimere il proprio dissenso nei confronti di qualsiasi provvedimento che identifichi, tacitamente o esplicitamente, la condizione di illegalità di alcuni migranti con la criminalità”.

Però riconosce anche il diritto di uno Stato a proteggere i propri cittadini senza ferire la dignità di una persona: “Allo stesso tempo, deve essere riconosciuto il diritto di una nazione a difendersi e a proteggere le proprie comunità da coloro che hanno commesso crimini violenti o gravi mentre si trovavano nel paese o prima di arrivarci. Detto questo, l’atto di deportare persone che in molti casi hanno abbandonato la propria terra per motivi di estrema povertà, insicurezza, sfruttamento, persecuzione o grave degrado ambientale, ferisce la dignità di molti uomini e donne, di intere famiglie, e li pone in uno stato di particolare vulnerabilità e indifesa”.

La giustizia di uno Stato si fonda su questo principio: “Non si tratta di una questione di poco conto: un autentico Stato di diritto si verifica proprio nel trattamento dignitoso che tutti gli uomini meritano, soprattutto i più poveri ed emarginati. Il vero bene comune si promuove quando la società e il governo, con creatività e rigoroso rispetto dei diritti di tutti (come ho affermato in numerose occasioni) accolgono, proteggono, promuovono e integrano i più fragili, indifesi e vulnerabili.

Ciò non impedisce lo sviluppo di una politica che regoli la migrazione ordinata e legale. Tuttavia, la suddetta ‘maturazione’ non può essere costruita attraverso il privilegio di alcuni e il sacrificio di altri. Ciò che si costruisce sulla base della forza, e non sulla base della verità sulla pari dignità di ogni essere umano, inizia male e finirà male”.

In ciò consiste l’amore cristiano che si differenzia da quello filantropico: “Noi cristiani sappiamo bene che solo affermando l’infinita dignità di tutti può giungere a maturazione la nostra identità come persone e come comunità. L’amore cristiano non è un’espansione concentrica di interessi che si estendono gradualmente ad altre persone e gruppi.

In altre parole: la persona umana non è un semplice individuo, relativamente espansivo, con qualche sentimento filantropico! La persona umana è un soggetto dotato di dignità che, attraverso la relazione costitutiva con tutti, specialmente con i più poveri, può maturare gradualmente la sua identità e vocazione. Il vero ‘ordo amoris’ da promuovere è quello che scopriamo meditando costantemente la parabola del ‘buon samaritano’, cioè meditando sull’amore che costruisce la fraternità”.

Per il papa risulta pericoloso riflettere solo su se stessi, riconoscendo il ‘lavoro’ svolto dalla Conferenza episcopale statunitense: “Preoccuparsi dell’identità personale, comunitaria o nazionale, al di fuori di queste considerazioni, introduce facilmente un criterio ideologico che distorce la vita sociale e impone la volontà del più forte come criterio di verità.

Riconosco i preziosi sforzi di voi, cari vescovi degli Stati Uniti, mentre lavorate a stretto contatto con i migranti e i rifugiati, annunciando Gesù Cristo e promuovendo i diritti umani fondamentali. Dio ricompenserà abbondantemente tutto ciò che fai per proteggere e difendere coloro che sono considerati meno preziosi, meno importanti o meno umani!”

Il messaggio è un’esortazione alla costruzione di ‘ponti’ di fraternità: “Esorto tutti i fedeli della Chiesa cattolica e tutti gli uomini e le donne di buona volontà a non cedere a narrazioni che discriminano e causano inutili sofferenze ai nostri fratelli migranti e rifugiati. Con carità e chiarezza siamo tutti chiamati a vivere in solidarietà e fraternità, a costruire ponti che ci avvicinino sempre di più, a evitare muri di ignominia e a imparare a donare la nostra vita come Gesù Cristo ha offerto la sua, per la salvezza di tutti”.

Ed ha invitato a pregare la Madonna di Guadalupe: “Chiediamo alla Beata Vergine Maria di Guadalupe di proteggere le persone e le famiglie che vivono nella paura o nel dolore a causa della migrazione e/o della deportazione. La ‘Vergine oscura’, che ha saputo riconciliare i popoli quando erano in conflitto, ci conceda di rincontrare tutti come fratelli, nel suo abbraccio, e di fare così un passo avanti nella costruzione di una società più fraterna, inclusiva e rispettosa della dignità di tutti”.

Giornata dei Malati di Lebbra: chi è malato guarisce solo se qualcuno lo abbraccia

Ogni anno, l’ultima domenica di gennaio, si celebra la Giornata Mondiale dei malati di Lebbra ed, a qualche giorno di distanza, la Giornata Internazionale delle malattie tropicali neglette. Sono occasioni per ricordare l’attualità di queste gravi patologie e per ribadire che il diritto alla salute è reale e concreto solo se ogni persona malata riceve le giuste attenzioni e cure. I malati di lebbra sono ancora oggi l’emblema dell’esclusione sociale, di un isolamento che spesso li condanna alla povertà e alla disabilità. Sono milioni gli uomini e le donne invisibili, che non hanno accesso alla sanità di base e non godono di alcun sostegno.

La Giornata Mondiale dei Malati di Lebbra GML di quest’anno, sotto l’Altro Patronato del Presidente della Repubblica, giunta alla 72^ edizione, rappresenta per AIFO un momento fondamentale per sensibilizzare l’opinione pubblica sul diritto alla salute di miliardi di persone, sulla lebbra e le altre malattie tropicali neglette. Il tema scelto per il 2025 è l’abbraccio come concetto che unisce: ‘Chi è malato guarisce solo se qualcuno lo abbraccia’, pone l’accento sulla centralità della persona e non della malattia e sottolinea l’importanza dell’inclusione, della cura e del sostegno per chi è malato, a partire dalle persone colpite dalla lebbra e per tutti coloro che vivono ai margini della società.

Molti credono che la lebbra e le malattie tropicali neglette siano ormai debellate o sopravvivano solo in pochi e sperduti luoghi. Queste patologie colpiscono ogni anno 1.700.000.000 persone nel mondo, tra cui molti bambini (il 50% delle persone malate ha meno di 14 anni), causando disabilità ed emarginazione. Inoltre, il tema delle malattie tropicali neglette si intreccia con altre grandi questioni del presente, come le migrazioni, i cambiamenti climatici, la globalizzazione, l’intensificarsi dei flussi turistici.

Alla coordinatrice della comunicazione e della raccolta fondi di AIFO, Federica Dona, chiediamo di spiegarci il motivo per cui un malato guarisce solo con un abbraccio: “Con lo slogan ‘Un malato guarisce solo se qualcuno lo abbraccia’ si intende sottolineare che la guarigione non riguarda solo il trattamento medico, ma anche l’impegno collettivo e la solidarietà verso le persone colpite da malattie dimenticate, come la lebbra. Questo abbraccio simbolico rappresenta la volontà di farsi carico delle necessità di chi troppo spesso è emarginato, sensibilizzando la società e garantendo un sostegno che va oltre la cura fisica. Solo così è possibile restituire dignità, speranza e inclusione ai malati”.

Nella malattia quanto è importante l’inclusione?

“L’inclusione sociale è fondamentale nel trattamento della lebbra. L’emarginazione e la discriminazione aggravano le sofferenze dei malati, mentre l’accoglienza ed il supporto della comunità favoriscono la guarigione fisica e mentale. Un semplice gesto come un abbraccio può avere un impatto psicologico positivo, aiutando a combattere l’isolamento e promuovendo il benessere complessivo dell’individuo”.

Perché stare bene è un diritto?

“Il diritto alla salute è un principio fondamentale riconosciuto a livello internazionale. Non si limita alla semplice assenza di malattia, ma comprende una serie di fattori determinanti per il benessere individuale e collettivo. Secondo AIFO, il diritto alla salute include non solo l’accesso ai servizi sanitari, ma anche ad altri elementi essenziali come un’istruzione, una lavoro, una rete sociale di appartenenza. Garantire questi diritti significa promuovere l’inclusione sociale, l’uguaglianza e la dignità per ogni individuo, assicurando che nessuno venga lasciato ai margini della società e quindi della salute nel suo senso più pieno ed olistico”.

Per quale motivo oggi la lebbra ancora esiste?

“Nonostante la diminuzione dei casi dagli anni in cui s è scoperta la cura ad oggi, la lebbra continua a essere presente in oltre 120 paesi, soprattutto in Africa, Asia e America Latina a causa di condizioni socioeconomiche precarie: la povertà estrema limita l’accesso a servizi sanitari adeguati e favorisce la diffusione della malattia. Mancanza di igiene e alimentazione insufficiente: questi fattori indeboliscono il sistema immunitario, aumentando la vulnerabilità all’infezione.

Sistemi sanitari deboli: in molte regioni, le infrastrutture sanitarie sono insufficienti per garantire diagnosi precoci e trattamenti tempestivi. Stigma e discriminazione: il pregiudizio associato alla lebbra porta spesso all’emarginazione dei malati, impedendo loro di cercare e ricevere cure appropriate.

Per eliminare definitivamente la lebbra, è fondamentale affrontare questi problemi attraverso interventi integrati che migliorino le condizioni di vita, rafforzino i sistemi sanitari e promuovano l’inclusione sociale. Questa la strategia che AIFO persegue per arrivare a zero disabilità, zero trasmissione, zero discriminazione”.

‘a carità è la proiezione del volto di Cristo sul viso del povero, del sofferente, del perseguitato’: diceva in un discorso del 1955. In quale modo è possibile rendere concreta la ‘Civiltà dell’Amore’, quest’appello di Raoul Follereau?

“La ‘Civiltà dell’Amore’ auspicata da Raoul Follereau  è possibile solo se scegliamo di vedere nell’amore e nella solidarietà la chiave per trasformare il mondo. È un richiamo a superare l’indifferenza e a mettere in pratica un amore che diventa azione, che cura le ferite, abbatte le barriere e costruisce un futuro più umano per tutti. E’ quindi necessario che ciascun individuo faccia la propria parte per promuovere la solidarietà, l’inclusione e il rispetto dei diritti umani, combattendo le disuguaglianze e garantendo a tutti l’accesso alle cure e a una vita dignitosa”.

Brevemente, chi è Aifo?

“La nostra storia ha inizio nel 1961, a Bologna, quando un gruppo di missionari comboniani e di volontari decide di fondare un’associazione espressamente ispirata ai valori di amore e giustizia diffusi da Raoul Follereau. A muoverli è il desiderio di lavorare al fianco degli ultimi della terra, gli esclusi, i più fragili, per favorire la loro partecipazione alla vita sociale, per riscattare la loro dignità e per difendere i loro diritti. Il primo impegno concreto che AIFO assume, in linea con l’azione di Follereau, è il contrasto alla lebbra. Il malato di lebbra, infatti, era (e molto spesso è ancora) il simbolo stesso dell’emarginazione: privato di cure, di lavoro, di relazioni. Con il tempo, l’impegno contro la lebbra è diventato l’impegno contro tutte le lebbre, cioè le ferite più profonde della società: emarginazione, ingiustizia, povertà, egoismo”.

Azione contro la fame lancia ‘Hope4Gaza’ per inviare messaggi di speranza alle famiglie di Gaza

Azione Contro la Fame lancia la campagna globale Hope4Gaza con l’obiettivo di raccogliere e inviare messaggi di solidarietà e speranza presso la popolazione di Gaza, già supportata sul campo dall’organizzazione.

Nata dalla determinazione del team locale di Azione Contro la Fame, che non ha mai smesso di operare sul campo dall’inizio del conflitto, l’iniziativa prevede la traduzione dei messaggi in arabo, che saranno poi stampati e inseriti nelle migliaia di pacchi alimentari distribuiti dall’organizzazione nei primi mesi del 2025. Ogni messaggio rappresenta un filo di speranza che unisce persone di tutto il mondo alle famiglie in difficoltà.

L’iniziativa ‘Hope4Gaza’ ambisce a superare i confini del tradizionale aiuto umanitario, affiancando al sostegno materiale già fornito una significativa dimensione emotiva. ‘Hope4Gaza’ non consiste soltanto in aiuti alimentari: “E’ un’occasione per nutrire lo spirito e mostrare la nostra vicinanza alle famiglie di Gaza” dichiara Simone Garroni, Direttore Generale di ‘Azione Contro la Fame’.

Chiunque può partecipare inviando il proprio messaggio tramite il sito ufficiale della campagna e condividendo l’iniziativa sui social media con l’hashtag #Hope4Gaza. Ogni singolo contributo è prezioso e si intesse perfettamente con il mosaico globale di azioni di supporto già attive.

Ecco alcuni dei messaggi ricevuti:

‘Non perdete la speranza, la luce tornerà e i fiori sbocceranno nuovamente. Vi auguro serenità e felicità!’  – Claudia

‘La mia speranza è che tacciano le armi, si silenzi l’odio, che abbia voce solo la pace, la vita, la serenità. Ogni bambino ha diritto a un futuro di speranza’. – Luisa

‘Non siete soli, portiamo la vostra voce per le strade qui in Italia! Vi pensiamo e nel nostro piccolo cerchiamo di esservi vicino e far sì che non si smetta di parlare di voi! Un abbraccio!’ – Laura

‘Il mio piccolo contributo possa esservi di conforto e vi dia la forza per non abbandonare la speranza per la pace e per la condivisione fraterna di ciò che il mondo ci ha messo a disposizione’. – Mauro

‘Azione contro la Fame’ è un’organizzazione umanitaria internazionale impegnata a garantire a ogni persona il diritto a una vita libera dalla fame: “Specialisti da 45 anni, prevediamo fame e malnutrizione, ne curiamo gli effetti e ne preveniamo le cause. Siamo in prima linea in 56 paesi del mondo per salvare la vita dei bambini malnutriti e rafforzare la resilienza delle famiglie con cibo, acqua, salute e formazione.

Guidiamo con determinazione la lotta globale contro la fame, introducendo innovazioni che promuovono il progresso, lavorando in collaborazione con le comunità locali e mobilitando persone e governi per realizzare un cambiamento sostenibile. Ogni anno aiutiamo 21.000.000 di persone”.

Open Doors: aumentano le persecuzioni contro i cristiani

Nei giorni scorsi è stato pubblicato il nuovo report dell’associazione ‘Open Doors – Porte Aperte’ sulla persecuzione contro i cristiani, che salgono da 365.000.000 ad oltre 380.000.000: 15.000.000 in più rispetto allo scorso anno, come ha sottolineato Cristian Nani, direttore della sezione italiana di ‘Porte aperte/Open doors’:

“Non solo i massacri e i rapimenti ma le oltre 7.600 chiese, cliniche e scuole cristiane attaccate o chiuse, le oltre 28.000 case o attività economiche saccheggiate o distrutte, costringono alla fuga famiglie e intere comunità cristiane, dando vita a esodi inumani e a una Chiesa profuga che grida aiuto. In 32 anni di ricerca, registriamo un costante aumento della persecuzione anticristiana in termini assoluti! Il 2024 è di nuovo anno record dell’intolleranza: 1 cristiano su 7 patisce discriminazione o persecuzione a causa della sua fede: è cruciale tornare a parlare di libertà religiosa nel dibattito pubblico”.

Però sono 13 i luoghi più pericolosi del mondo per essere cristiani: in cima alla classifica c’è sempre la Corea del Nord che obbliga i battezzati a vivere il proprio credo in assoluta segretezza, rinchiudendo tra i 50.000 ed i 70.000 credenti nei campi di lavoro forzato. Seguono Somalia, Yemen, Libia e Sudan nei quali la persecuzione è intimamente legata al conflitto. Poi l’Eritrea (scesa al sesto posto non per un calo del fenomeno bensì per l’aumento negli altri Stati) e la Nigeria, la nazione con più vittime cristiane: 3.100. Pakistan e Iran sono stabili in ottava e decima posizione. L’Afghanistan dei taleban è decimo.

Intanto in India (undicesima nell’elenco) prosegue il declino dei diritti e delle libertà fondamentali: nello scorso anno sono stati assassinati almeno 20 cristiani, mentre 459 chiese sono state distrutte ed oltre 2000 persone sono detenute senza processo. Mentre qualche spiraglio positivo si registra in Arabia Saudita dove, soprattutto nelle grandi città, c’è stata una maggiore tolleranza per le decorazioni natalizie anche se la pratica di religioni non musulmane resta vietato.

Resta sempre allarmante la condizione del Myanmar, che la guerra, seguita al colpo di Stato del 2021, ha catapultato nel gruppo di Paesi dove le persecuzioni sono estreme, ‘scalando’ 4 posizioni nella lista: i battezzati, che costituiscono l’8% della popolazione, sono intrappolati nei combattimenti in corso, i luoghi di culto sono attaccati con la falsa accusa di accogliere i ribelli, oltre 100.000 di loro, nella sola regione di Kachin, sono sfollati a causa delle violenze.

Preoccupante anche la situazione dell’Asia centrale: l’epicentro è il Kirghizistan, balzato dal 61^ al 47^ posto; anche nel Kazakistan di Nursultan Narbayev, messo a dura prova dai disordini seguiti alla crescita dei prezzi dell’energia, hanno ridotto la libertà di fede. I battezzati ne hanno fatto le spese, soprattutto per quanto riguarda la maggior diffusione dei matrimoni forzati e degli stupri.

In compenso le uccisioni di cristiani per motivi legati alla fede diminuiscono ancora a 4.476 da 4.998: è la Nigeria a determinare questa diminuzione, visto che le uccisioni scendono da 4.118 a 3.100, pur rimanendo epicentro di atrocità, poiché di fatto aumentano la violenza e gli attacchi alle comunità, così come aumentano le vittime cristiane in altri paesi della WWL 2025 (da 880 a 1.376).

Il numero di chiese o proprietà cristiane pubbliche attaccate, chiuse o confiscate, con diversi livelli di gravità, è quasi dimezzato da 14.766 a 7.679, diminuzione dovuta alla Cina, che tuttavia mantiene un record di 31.000 chiese chiuse, confiscate o demolite (vedasi più avanti approfondimento sulle dinamiche). Nel frattempo, il numero in Rwanda è aumentato da 120 a 4.000.

Dietro i numeri relativi agli edifici attaccati si nascondono la paura e l’insicurezza di molte comunità cristiane che utilizzano quegli edifici. Tali attacchi possono portare alla disgregazione delle comunità ecclesiali, anche se i cristiani non vengono costretti con la forza a lasciare le loro case o proprietà.

La ‘persecuzione digitale’ rimane uno degli strumenti più efficaci usati dal governo cinese e, di recente, da altri Stati autocratici per limitare la libertà religiosa: il cosiddetto ‘modello cinese’ di controllo della popolazione e sviluppo senza diritti viene pericolosamente emulato da altri stati, a cui la Cina esporta tecnologia a tal scopo.

I cristiani detenuti o condannati per ragioni legate alla fede aumentano da 4.125 a 4.744. Il livello di ingiustizia in questi casi rasenta la parodia: in carcere finiscono uomini e donne senza processi e senza prove. Inoltre, il grado di impunità spesso concesso a coloro che invece accusano falsamente e/o aggrediscono fino a uccidere i cristiani in vari paesi è davvero preoccupante. L’India è anche quest’anno il paese con dati più preoccupanti (2.176).

I rapimenti decrescono da 3.906 a 3.775, con la Nigeria sempre terra di sequestri per riscatto (2.830), ma sorprende il Messico con almeno 116 casi, sintomo di quanto impatto abbia la criminalità organizzata in questa società. Seguono varie nazioni dell’Africa Subsahariana (Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Mali, Ciad, ma anche Etiopia, Uganda, Mozambico) e dal sempre presente Pakistan, con la piaga dei rapimenti di donne cristiane per darle in sposa a musulmani (matrimoni forzati).

Invece sono decine di migliaia ogni anno i cristiani aggrediti (picchiati o vessati con minacce di morte) esclusivamente a causa della loro fede: la stragrande maggioranza di questi casi non viene alla luce, ma un dato minimo di partenza per il periodo da ottobre 2023 a settembre 2024 va oltre le 54.700 (erano 42.800 l’anno precedente).

Il livello di insicurezza e paura causato dall’incessante flusso di attacchi ai cristiani e alle comunità cristiane da parte di gruppi di terroristi islamici e altri gruppi religiosi radicali in molti paesi subsahariani e asiatici non è ben fotografato da questo numero, poiché sono milioni a subirne le conseguenze (16.200.000 cristiani sfollati solo in Africa Subsahariana, senza contare le famiglie delle vittime di uccisioni, stupri, detenzioni…). Gli attacchi a case, negozi e attività economiche di cristiani crescono ancora nonostante il record dell’anno precedente di oltre 27.100 unità: sale infatti a 28.368 creando sovente un danno permanente alla capacità di sostentamento di queste persone e costringendole spesso alla fuga.

Giornata contro la violenza contro le donne: nessuna scusa

“La violenza contro le donne presenta numeri allarmanti. E’ un comportamento che non trova giustificazioni, radicato in disuguaglianze, stereotipi di genere e culture che tollerano o minimizzano gli abusi, che si verificano spesso anche in ambito familiare. La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, nota anche come Convenzione di Istanbul, è il primo strumento giuridicamente vincolante ad aver riconosciuto la violenza di genere come una violazione dei diritti umani”.

Questo è stato il messaggio del presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, nella giornata contro al violenza sulle donne, in cui è stato sottolineato che ancora non è sufficiente la legislazione finora approvata: “L’Italia ha ratificato la Convenzione nel 2013, dotandosi di strumenti di tutela per garantire una piena protezione alle vittime di violenza di genere.

Quanto fatto finora non è, tuttavia, sufficiente a salvaguardare le donne, anche giovanissime, che continuano a vedere i loro diritti violati. E’ un’emergenza che continua. Si tratta di madri, sorelle, figlie, persone con sogni e progetti che vedono violato il diritto di poter vivere una vita libera e dignitosa, donne che lottano per la propria indipendenza, per poter scegliere il proprio destino”.

Ritornando al tema di questa giornata, ‘Nessuna scusa’, il presidente Mattarella ha sollecitato azioni concrete: “E’ addirittura superfluo sottolineare che, quindi, non ci sono scuse accettabili a giustificazione della violenza di genere. Occorrono azioni concrete. E’ fondamentale continuare a lavorare per eradicare i pregiudizi e gli atteggiamenti discriminatori che rendono ancora oggi le donne più deboli nella società, nel lavoro e nella famiglia.

Le istituzioni, le forze della società civile devono sostenere le donne nella denuncia di qualsiasi forma di sopruso, offrendo protezione e adeguato supporto. E’ un valore per l’intera società far sì che siano pienamente garantiti i diritti umani dell’universo femminile”.

Mentre nell’editoriale del giornale online ‘Interris’ il fondatore don Aldo Bonaiuti ha sottolineato che la situazione non è migliorata in questi anni: “In un quarto di secolo la situazione è tutt’altro che migliorata. La violenza sulle donne, secondo il pontefice, ‘è una velenosa gramigna che affligge la nostra società e che va eliminata dalle radici’. E queste radici sono culturali e mentali, crescono nel terreno del pregiudizio, del possesso, dell’ingiustizia”.

Il rischio è quello di diventare invisibili: “Di tutte le forme di violenza di genere quella barbaramente esercitata sulle vittime della tratta è la più ‘invisibile’ e rimossa dall’opinione pubblica… I complici delle violenze sulle donne sono coloro che potrebbero risvegliare le coscienze in tutti gli ambiti della società a partire dalle agenzie educative le quali spesso sembrano essere più sulla difensiva invece di occuparsi del tragico fenomeno”.

Ed ha raccontato un episodio: “Una notte mi trovavo a Perugia nella zona di Pian di Massiano dove si ritrova un gruppo (chiamato Goel) a pregare ogni sabato il Santo Rosario a mezzanotte. Un’invocazione a Dio per le donne schiavizzate, che sono lì accanto, sui cigli delle strade e spesso impossibilitate ad attraversarle per aggregarsi a noi nella preghiera.

Un Rosario recitato nella cattedrale del cielo al cospetto di una modesta statua della Vergine di Fatima, illuminata da quelle piccole fiaccole che continuano incessantemente ad accendersi da decenni per donare la speranza di una rinascita e il coraggio di abbandonare la strada strappando le catene della servitù…

Rileggere l’ultimo grido d’allarme delle vittime di femminicidi stringe un nodo di angoscia in gola. ‘Mi spaventi perché so come sei fatto: mi vieni a cercare e mi fai paura’, messaggia una studentessa al fidanzato che pochi giorni dopo l’avrebbe uccisa. Da educatore all’oratorio Carlo Acutis riscontro quotidianamente la centralità dell’educazione. E’ fondamentale il ruolo delle famiglie perché i condizionamenti di ogni tipo vanno contrastati con un’azione educativa che, a partire dalle mura domestiche, valorizzi la persona con la sua dignità”.

Inoltre in questa giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne l’ong ‘Porte Aperte’ richiama l’attenzione sui milioni di donne cristiane vessate a causa della loro fede attraverso dati del report ‘Insicurezza’: le donne ‘sperimentano una persecuzione più complessa ed invisibile’ rispetto agli uomini. Nello specifico “donne e ragazze sperimentano la persecuzione in una sfera privata, spesso proprio dentro le mura di casa e proprio da parte di coloro che conoscono bene.

Quest’anno, i matrimoni forzati sono identificati come il maggior ‘Punto di Pressione’ per le donne cristiane, in quanto forma di sfruttamento e controllo che spesso è strettamente intrecciata con la violenza sessuale. Nei contesti di insicurezza, la violenza sessuale viene utilizzata come una vera e propria ‘strategia di guerra’, perpetrata con lo scopo ultimo di punire ed umiliare le comunità sotto attacco. Allo stesso tempo, però, può essere riscontrata anche nell’ambiente domestico, in quanto i conflitti violenti possono portare a una visione sempre più normalizzata della violenza”.

Mentre Paolo Ragusa, presidente dell’Associazione lavoratori stranieri del Movimento cristiano lavoratori, ha sottolineato la violenza contro le donne migranti è in aumento: “La donna anche nelle migrazioni è centrale come figura di riferimento per la coesione familiare e per questo dobbiamo fare ogni sforzo affinché, chi si trova in una situazione comunque di fragilità, perché migrante, non debba subire ogni forma di violenza di genere e soprattutto non debba pagare lo scotto di un diffuso pregiudizio nei confronti di chi arriva da altri Paesi. La nostra esperienza ci dice che a pagare sono soprattutto le donne. E questa per noi è violenza”.

Ed esiste anche la violenza nel lavoro: “In ambito lavorativo, spesso la donna migrante deve subire non violenze fisiche, ma quelle che chiamiamo culturali legate ad un’idea sbagliata di chi arriva da altri paesi. La paura di chi è diverso dobbiamo trasformarla in uno stimolo all’incontro e all’integrazione. Sostenere una donna migrante significa anche dare una chance ai suoi figli nell’inserimento nelle nostre comunità. Questo impedisce la nascita di ghetti, ma aiuta a formare cittadini consapevoli e partecipi”.

Anche le Acli ribadiscono il proprio impegno per contrastare ogni forma di violenza di genere. Questa giornata richiama a una responsabilità collettiva: costruire una società che rifiuti ogni sopruso e promuova il rispetto e l’uguaglianza con Chiara Volpato, responsabile nazionale del Coordinamento Donne Acli, sottolinea:

“La violenza contro le donne è una delle violazioni dei diritti umani più diffuse e devastanti del nostro tempo. Non conosce confini geografici o culturali, eppure troppo spesso resta nascosta dietro il silenzio, lo stigma e la vergogna. Serve un cambiamento culturale che parta dall’educazione nelle famiglie e nelle scuole, ma anche un impegno attivo da parte degli uomini per diventare veri alleati nel contrasto alla violenza di genere”.

Italia protagonista G7: passo avanti per inclusione persone con disabilità

FISH esprime grande soddisfazione per il ruolo di primo piano che l’Italia ha svolto nell’ambito del G7 Inclusione e Disabilità. E’ in particolare nella stesura della Carta di Solfagnano. Questo evento ha rappresentato un momento di svolta nell’affermazione dei diritti delle persone con disabilità a livello internazionale.

Grazie alla partecipazione dell’Italia, il G7 ha ribadito il proprio impegno a promuovere la piena ed effettiva partecipazione delle persone con disabilità in ogni aspetto della vita sociale, economica, culturale e politica. La Carta di Solfagnano rappresenta un ulteriore passo verso l’inclusione, con un forte richiamo ai principi della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità e al fondamentale principio del ‘Nulla su di Noi senza di Noi’.

L’Italia, attraverso la partecipazione di FISH e dell’intero movimento associativo, ha contribuito ad influenzare le politiche internazionali in questo ambito, dimostrando ancora una volta che il nostro Paese è all’avanguardia nell’inclusione. La Carta di Solfagnano pone l’accento su questioni cruciali come l’accessibilità, il diritto a una vita indipendente, il lavoro dignitoso, accesso alle attività sportive e culturali, servizi comunitari adeguati, l’uso di nuove tecnologie inclusive. L’inclusione delle persone con disabilità è stata ribadita come una priorità nell’agenda politica di tutti i Paesi G7. Temi su cui FISH è da sempre in prima linea.

“Un G7 che ha segnato un cambiamento di rotta, in primis con la partecipazione attiva del movimento associativo. Fish ha tracciato la linea del dibattito all’interno del G7 nel suo intervento di apertura, andando a toccare temi di rilevanza internazionale. Dai vari panel è emerso che il sistema Italia è molto più avanti di altri Paesi del G7. Significativo l’intervento del ministro del Sudafrica, che presiederà il prossimo G20, che ha anticipato che il tema della disabilità sarà inserito tra le priorità di discussione.

Ancora una volta il movimento associativo ha dato prova di saper tradurre in atti concreti le istanze che arrivano quotidianamente dai cittadini con disabilità e dalle loro famiglie. Ora non si può più tornare indietro. Gli impegni assunti all’interno della Carta di Solfagnano porteranno i Paesi sottoscrittori a cambiare rotta, ad essere più concreti nelle politiche e ad investire sempre più risorse affinché i diritti siano realmente esigibili.

Per non lasciare indietro nessuno e garantire diritti e pari opportunità. Il rilancio è possibile se fatto insieme, con convinzione e determinazione. Solo così possiamo rilanciare le economie dei nostri Paesi. Solo così possiamo scardinare stigmi e pregiudizi”. A dirlo il presidente FISH, Vincenzo Falabella.

Per la Giornata dell’Alimentazione papa Francesco ha detto che il cibo è un diritto

“La quarantaquattresima Giornata Mondiale dell’Alimentazione ci invita a riflettere sul diritto al cibo per una vita e un futuro migliori. Si tratta di una priorità, poiché soddisfa uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano, cioè quello di nutrirsi per vivere secondo standard qualitativi e quantitativi adeguati, che garantiscano l’esistenza dignitosa della persona umana. Tuttavia, vediamo spesso che questo diritto viene minato e non applicato equamente, con le conseguenze dannose che ciò comporta”: con queste parole è iniziato il messaggio di papa Francesco inviato al direttore generale della FAO, Qu Dongyu, in occasione della Giornata Mondiale dell’Alimentazione, svoltasi mercoledì 16 ottobre, letto da mons. Fernando Chica Arellano durante il World Food Forum, svoltosi a Roma.

Nel messaggio il papa ha sottolineato il valore sociale dell’alimentazione, che è un diritto: “Per fare questo è necessario non dimenticare la dimensione sociale e culturale intrinseca all’atto di nutrirsi. A questo proposito, i leader politici ed economici a livello internazionale devono ascoltare le istanze di coloro che stanno alla base della catena alimentare, come i piccoli agricoltori, e delle formazioni sociali intermedie, come la famiglia, che sono direttamente coinvolte nell’alimentazione delle persone”.

E’ un richiamo ai principi di solidarietà e di sussidiarietà: “Questo pensavo quando proponevo di considerare il paradigma dell’ecologia integrale, perché si tenga conto dei bisogni di ogni uomo e di tutti gli uomini, perché sia ​​tutelata la loro dignità nel rapporto con gli altri e in stretta connessione con la cura del creato. Solo se prendiamo l’ideale della giustizia come guida della nostra azione possiamo soddisfare i bisogni delle persone”.

E’ un invito a tutelare le future generazioni: “In questo modo, la tutela delle generazioni future andrà di pari passo con l’ascolto e l’agire in favore delle istanze delle generazioni presenti, attraverso un’alleanza intra e intergenerazionale che chiama tutti alla fraternità e dà un significato nuovo, più autentico, alla cooperazione internazionale, cooperazione che deve favorire questa Organizzazione e l’intero sistema multilaterale”.

Ed ha garantito il sostegno della Chiesa in questa sfida: “In questo cammino, pieno di ostacoli e difficoltà, ma allo stesso tempo appassionante e pieno di sfide, la comunità internazionale avrà l’incoraggiamento della Santa Sede e della Chiesa cattolica, che non cessano di offrire il loro tenace contributo affinché tutti possano avere di cibo in quantità e qualità adeguate per sé e per le proprie famiglie, perché ogni persona possa condurre una vita dignitosa e perché sia ​​definitivamente sconfitto il doloroso flagello della miseria e della fame nel mondo”.

E nella giornata dedicata all’alimentazione l’ong ‘Save the Children’ ha sottolineato che ogni due secondi al mondo nasce un bambino destinato a soffrire la fame e ad avere il piatto desolatamente vuoto, anche a causa dell’aumento dei conflitti: “La malnutrizione acuta infantile è aumentata del 20% tra il 2020 e il 2022 nei 19 Paesi più colpiti da crisi umanitarie, passando da 23.000.000 nel 2020 (pre-pandemia) a 27.700.000 nel 2022. 

Il proliferare dei conflitti armati ed il fatto che siano sempre più prolungati nel tempo (basti considerare quelli in Medioriente, Ucraina e Sudan) e gli eventi metereologici estremi sempre più intensi e frequenti, stanno avendo conseguenze devastanti sulla vita dei civili, rischiando di aumentare ulteriormente i livelli di insicurezza alimentare e di malnutrizione infantile. Considerando i trend attuali, si stima che 128,5 milioni di bambini (19,5%) saranno affetti da malnutrizione cronica nel 2030, circa la metà dei quali in Africa occidentale e centrale”.

Il rapporto dell’Organizzazione Non Governativa ha evidenziato come i conflitti siano le principali cause dell’insicurezza alimentare per circa 135.000.000 di persone in 20 Paesi del mondo: “Solo a Gaza, dove si registra il più alto tasso di malnutrizione a livello globale, è colpita quasi l’intera popolazione infantile, pari a 1.100.000 di bambini. Un anno di guerra a Gaza sta evidenziando le conseguenze disastrose della proibizione dell’accesso umanitario: ben il 96% della popolazione della Striscia sta affrontando un’insicurezza alimentare acuta a livelli critici o anche maggiori, con oltre 495.000 persone (22%) che sono approdate allo stadio più alto secondo la classificazione IPC5, e affrontano livelli catastrofici di insicurezza alimentare acuta”.

Ma anche la crisi climatica è tra le principali cause della malnutrizione: “Si stima che gli eventi metereologici estremi, siano stati la causa primaria di alti livelli di insicurezza alimentare per 72.000.000 di persone in 18 Paesi, tra cui 33 milioni di minori. Numero più che raddoppiato dal 2018, quando gli eventi meteorologici estremi erano la causa primaria della fame per 29.000.000 di persone, di cui 13.000.000 di bambini. La maggiore intensità e frequenza dei fenomeni climatici estremi (come le inondazioni in Pakistan, le prolungate siccità nel Sahel e in Somalia e il distruttivo uragano Freddy in Mozambico e Malawi) la siccità e la deforestazione hanno degli impatti profondi sui sistemi alimentari e sulla competizione per le risorse naturali, a sua volta responsabile di conflitti crescenti, come quelli tra agricoltori e popolazioni pastorali”.

Per questo fino al 31 dicembre è possibile sostenere la campagna, per dare cibo terapeutico, acqua e cure mediche a tanti bambini malnutriti, donando 2 euro con un SMS al 45533 dal proprio cellulare personale Wind Tre, Tim, Vodafone, Iliad, Poste Mobile, Coop Voce e Tiscali; 5 o 10 euro chiamando da rete fissa TIM, Vodafone, Wind Tre, Fastweb, Tiscali, TWT Group Unidata, Convergenze e Poste Mobile. Per donare con carta di credito basta chiamare l’800 08 18 18.

Testimonial della campagna di Save the Children quest’anno sono Cesare Bocci, Ambasciatore dell’Organizzazione, Michela Andreozzi, Giada Desideri, Tosca D’Aquino, Caterina Guzzanti, Neva Leoni, Luana Ravegnini, Ema Stokholma, ‘diretti’ e ‘fotografati’ da Fabio Lovino: https://vimeo.com/1018246977/bfef6471b9. Inoltre fino al 20 ottobre è in programma la settimana di raccolta fondi con il sostegno informativo di Rai per la Sostenibilità – ESG, attraverso i canali editoriali Rai, che supporterà lo sviluppo di interventi di contrasto alla malnutrizione in Somalia.

Altri spazi editoriali saranno messi a disposizione daSky per il Sociale, Tv 2000. Nel weekend del 19-20 ottobre, grazie al supporto della Lega serie A, tutte le squadre della Serie A TIM scenderanno in campo per supportare Save the Children invitando tutti i tifosi a contribuire con una semplice donazione. La campagna sull’emergenza fame di Save the Children e i suoi progetti di contrasto alla malnutrizione sono supportati dai nostri partner Fondazione Giorgio Armani, Nexi e OVS.

Al contrario Coldiretti ha evidenziato che gli italiano gettano 1.800.000.000 di chilogrammi di cibo: “Il fenomeno dello spreco nelle case incide per oltre la metà sul totale del valore del cibo gettato, con le abitazioni che rappresentano la prima voce davanti alla grande distribuzione all’industria e alle campagne. Proprio per sensibilizzare i cittadini rispetto a un problema sempre più grave Coldiretti è impegnata con il progetto dei mercati di Campagna Amica, sostenendo le realtà locali, riducendo l’impatto ambientale dei lunghi trasporti e garantendo alle famiglie prodotti più freschi che durano di più”.

E questi sono alcuni consigli forniti da Coldiretti per evitare lo spreco: “Importante fare la lista della spesa, leggere attentamente la scadenza sulle etichette, verificare quotidianamente il frigorifero dove i cibi vanno correttamente posizionati. Meglio poi effettuare acquisti ridotti e ripetuti nel tempo, privilegiare confezioni adeguate, scegliere frutta e verdura con il giusto grado di maturazione, preferire la spesa a km 0 e di stagione che garantisce una maggiore freschezza e durata. Ma lo spreco si batte anche a tavola, riscoprendo le ricette degli avanzi, dalle marmellate di frutta alle polpette fino al pane grattugiato, ma anche chiedendo la doggy bag al ristorante”.

Michele Zanzucchi: alto il rischio di conflitto in Medio Oriente

“Seguo con grandissima preoccupazione quanto sta accadendo in Medio Oriente, e auspico che il conflitto, già terribilmente sanguinoso e violento, non si estenda ancora di più. Prego per tutte le vittime, in particolare per i bambini innocenti, ed esprimo vicinanza alla comunità drusa in Terra Santa e alle popolazioni in Palestina, Israele, e Libano… Gli attacchi, anche quelli mirati, e le uccisioni non possono mai essere una soluzione. Non aiutano a percorrere il cammino della giustizia, il cammino della pace, ma generano ancora più odio e vendetta. Basta, fratelli e sorelle! Basta! Non soffocate la parola del Dio della Pace ma lasciate che essa sia il futuro della Terra Santa, del Medio Oriente e del mondo intero! La guerra è una sconfitta!”

Partendo dall’appello di domenica scorsa dopo la recita dell’Angelus da parte di papa Francesco per la pace in Medio Oriente dialoghiamo con il prof. Michele Zanzucchi, già direttore della rivista ‘Città Nuova’ e docente di comunicazione all’università ‘Sophia’ di Loppiano ed all’università ‘Gregoriana’ di Roma: “Come rispondere se non che l’instabilità è la nota che da ottant’anni, e forse più, sta occupando i pensieri e le azioni di chi vive in quella regione? Tale instabilità è dovuta a molteplici ragioni, la principale delle quali è la presenza di troppe potenze globali e locali in lotta per questioni di geopolitica, ma anche per il possesso delle risorse di idrocarburi, come di acqua e di minerali preziosi, le tanto citate ‘terre rare’.

L’instabilità è accentuata dalla questione israeliana, che ha avuto origine da una gestione poco illuminata del post-colonialismo, per la cattiva coscienza di chi aveva vinto (o perso) la Seconda guerra mondiale. L’eredità indicibile della Shoah ha impedito quella lucidità che avrebbe forse permesso di evitare un conflitto epocale come quello israelo-palestinese. Il solo tentativo di vera pace nella regione, gli Accordi di Oslo, è stata spazzata via sì dall’assassino del presidente Rabin, ma soprattutto dagli interessi che quella pace aveva osato toccare”.

Quanto è destabilizzante per il mondo il conflitto in Medio Oriente?

“Ovviamente non si può rispondere che lo è in sommo grado. Si può addirittura dire che l’instabilità nel Medio Oriente ha delle conseguenze globali, anche in terre da lì lontanissime. La comunità internazionale, anche per la progressiva e ininterrotta delegittimazione delle istanze internazionali, Onu in testa, e per la progressiva creazione di organismi intermedi (i vari G6, G7, G8 e via dicendo), ha creato destabilizzazione più che trovare soluzioni ai singoli problemi. Anche perché i vari ‘G’ non hanno che la legittimazione della forza, non certo del diritto. Il mondo soffre di questa mancanza di coordinamento internazionale, soprattutto dopo le tragedie della pandemia e delle ultime guerre e per il sorgere di problemi di governance mondiale per via della rivoluzione digitale”.

‘Tornare in Libano suscita inevitabilmente sorpresa. Accompagnato dallo stillicidio degli spacci di agenzia sui lanci di missili da parte di Hezbollah contro Israele e delle reazioni dell’esercito con la stella di Davide, fatte di bombardamenti e lanci di ogni sorta di ordigni, mentre imperversa una invisibile cyberwar, una guerra digitale, un visitatore mal avvertito avrebbe il terrore di finire nel pentolone infernale della tenzone che dal 1948, praticamente ininterrotta, imperversa su quella che era e resta una parte della Terra Santa, ‘terra di latte e di miele’ di biblica memoria’: qualche mese fa lei scrisse così in un articolo per la rivista ‘Città Nuova’ a conclusione di una sua visita in Libano. E se ‘scoppia’ il Libano cosa può succedere?

“Dio ci preservi da una tale sciagura che, oltre a destabilizzare nuovamente il Paese dei cedri, che non ha ancora sanato le ferite della lunga guerra (in)civile, provocherebbe un conflitto realmente globale, perché una guerra tra Israele ed Hezbollah vorrebbe dire aprire un conflitto tra Iran e Israele, e tra i rispettivi alleati. Il rischio attuale di apertura delle ostilità in modo generalizzato (in realtà dal 7 ottobre sono migliaia i colpi di missili, mortai e droni che hanno viaggiato al di sopra delle teste dell’Unifil, la forza di interposizione che dal 2006, per un’intuizione importante di Romano Prodi e del suo amico Massimo Toschi) porterebbe a un aumento delle ostilità in Siria, in Iraq, probabilmente anche nel Kurdistan e chissà ancora dove. Il che ci avvicinerebbe a una guerra mondiale militare generalizzata”.

Ma quale è la visione dell’Occidente per il Medio Oriente?

“Non c’è nessuna visione, questa è la realtà. Si riesce solo a ipotizzare scenari di dominio e non di collaborazione tra popoli e culture. L’Europa è assente, se non con qualche apprezzato intervento pacificatore, a livello locale. Servirebbe una visione che, attualmente, solo le autorità religiose più illuminate, come papa Francesco o il patriarca Bartolomeo riescono ad avere”.

Anche un po’ più lontano dal Medio Oriente, nelle repubbliche del Caucaso il fondamentalismo si sta ‘ravvivando’: stiamo vivendo la terza guerra mondiale?

“Bisogna fare attenzione a non fare amalgama non corrette. Le questioni caucasiche (anzi cis-caucasiche) sono innanzitutto interne alla Confederazione russa, al contrasto esistente da decenni tra movimenti di liberazione nazionale locali musulmane, contrastate dalle autorità del Cremlino e dai loro alleati locali, come Ramzan Kadyrov. Il fondamentalismo islamista (Daesh e simili) ha la sua importanza, ma non credo che le questioni del Daghestan e della Cecenia, così come dell’Inguscezia e dell’Ossezia del Nord, o anche della Cabardino-Balcaria, abbiano una valenza globale. A proposito della Terza guerra mondiale a pezzi, credo che l’espressione fortunata proposta da Bergoglio nel viaggio di ritorno dalla Corea e a Redipuglia non sia più di attualità, perché siamo già in presenza di una guerra mondiale generalizzata; solo che essa si sta svolgendo su livelli diversi, commerciale, industriale (la produzione di armi), di intelligenze, digitale, mediatica… e anche militare”.

‘Il paradigma tecnologico incarnato dall’intelligenza artificiale rischia allora di fare spazio a

un paradigma ben più pericoloso, che ho già identificato con il nome di paradigma tecnocratico’.Al G7 di giugno scorso papa Francesco ha parlato di un ‘paradigma tecnocratico’: come limitarlo?

“La questione è grave, quando un manipolo di enormi gruppi del digitale hanno assunto una potenza straordinaria, superando i budget di Stati importanti come la Spagna o la Svizzera. Queste imprese cercano di detenere non solo la ricchezza, ma anche le chiavi scientifiche atte a incrementare il loro potere economico. Pensiamo alle ricerche sul DNA, pensiamo all’intelligenza artificiale, pensiamo allo sfruttamento dei cieli. La questione va regolata, ma soprattutto nella governance mondiale bisogna integrare Stati, società civile e settore privato”.

La Corte Costituzionale: non esiste un diritto alla morte

La decisione della Corte Costituzionale n. 135 della scorsa settimana in tema di suicidio assistito ribadisce quanto già affermato nel 2019 con la sentenza n. 242 e, in questo senso, per quanto la sentenza n. 242 fosse per certi aspetti discutibile, ribadisce che i più fragili vanno comunque tutelati anche rispetto ai possibili abusi e strumentalizzazioni, primo tra i quali la spinta sociale a sentirsi un peso per gli altri con la conseguenza di indurre a optare per la richiesta di morire, come ha sottolineato la presidente del Movimento per la Vita, prof.ssa Marina Casini:

“Fondamentale dunque l’importanza delle cure palliative da assicurare a tutti senza eccezioni. Sono questi i due aspetti, protezione dei fragili e cure palliative, su cui bisogna lavorare molto a livello culturale, operativo e legislativo”.

Al legislatore spetta, quindi, il compito di mettere mano alla materia in maniera assolutamente coerente con i quattro paletti indicati dalla Corte Costituzionale, senza allentamenti, allargamenti, smagliature, scappatoie, inganni semantici, ambiguità, ha specificato Marina Casini: “Deve restare chiaro che le persone colpite dalla malattia e dalla disabilità sono persone da proteggere, che l’ordinamento giuridico non si piega a logiche di morte, che l’assistenza al suicidio deve restare una eccezione circoscritta in presenza dei cinque requisiti, i quattro più il quinto che riguarda le cure palliative, rigorosamente circoscritti, interpretati e intesi”.

Per la presidente del Movimento per la Vita occorre evitare la situazione creatasi con la legge sull’aborto: “Bisogna evitare di ripetere quanto accaduto con la legge sull’aborto, anch’essa preceduta da una sentenza costituzionale, la n. 25 del 1975: la Legge 194 nella disciplina dell’interruzione volontaria di gravidanza nei primi tre mesi di gravidanza è andata ben oltre i criteri stabiliti dalla Corte Costituzionale. “Al di là dell’aspetto legislativo va assolutamente dato spazio e promozione a un’autentica cultura della vita affinché ogni persona si senta, e sappia di esserlo davvero, accolta e amata”.

Sulla decisione della Corte Costituzionale è intervenuti anche il prof. Alberto Gambino, presidente Centro studi ‘Scienza&Vita’, componente Comitato nazionale per la bioetica:“Per la Corte costituzionale non c’è un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza. Si tratta di un’affermazione importante. Il suicidio assistito resta un’eccezione e, dunque, non si realizza alcuna disparità di trattamento tra pazienti che dipendono da trattamenti di sostegno vitale e pazienti che non vi dipendano”.

Ed ha affermato la ‘oggettività’ della sentenza: “Anzi la Corte ritiene, giustamente, che il requisito ‘oggettivo’ dell’essere sottoposti ad un presidio sanitario eviti che si finisca per creare una ‘pressione sociale indiretta’ su persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali (sono parole della Corte) ‘potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte’.

La via italiana, secondo la Corte, è dunque legittima e corrisponde a quanto già recentemente ha ritenuto anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. La Corte sembra però sposare una posizione per la quale il sostegno vitale non coincide necessariamente con una completa sostituzione di funzioni vitali ma possa esserlo anche il trattamento che si riveli in concreto necessario ‘ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo”.

Infatti, intervenendo sui confini di non punibilità dell’aiuto al suicidio, la Corte costituzionale ha ribadito un punto fermo della sua giurisprudenza recente in materia: non esiste né è invocabile un ‘diritto di morire’ nel nostro ordinamento, al centro del quale c’è invece la ‘tutela della vita umana’, un bene che ‘si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona’, come ricorda l’articolo 2 della Costituzione Italiana.

Anche il prof. Marco Ronco, presidente del Centro Studi Livatino, docente universitario emerito di Diritto penale e vicepresidente del Comitato nazionale per la Bioetica, ha ritenuto fondamentale la sentenza della Corte Costituzionale: “La Corte Costituzionale, con sentenza n. 135/2024, impone un chiaro stop alle istanze di estensione dei casi di non punibilità dell’aiuto al suicidio…

La sentenza ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice penale, che punisce chi aiuta un’altra persona a togliersi la vita. Di conseguenza non ha creato nessuna nuova estensione, rispetto a quelle riconosciute con le pronunce del 2018 e 2019, del diritto di accedere al suicidio assistito. Per questo, sono piuttosto soddisfatto”.

Ed ha sottolineato che non esiste nella legislazione il ‘diritto’ a morire: “Appare di assoluto rilievo che la Corte abbia evidenziato, con tanta chiarezza, il rischio della ‘pressione sociale indiretta’ che una legislazione sul suicidio assistito si presta a generare, rischio già più volte posto in evidenza dal Centro Studi Livatino.

Sotto altro profilo la Corte, nel ribadire che non esiste un ‘diritto a morire’, ha richiamato (par. 7.3.) l’attenzione sul fatto che, ‘dal punto di vista dell’ordinamento, ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle concrete condizioni in cui essa si svolga’. Sicché, come sottolineato anche da vari amici curiae (fra cui il Centro Studi Livatino), certamente non potrebbe affermarsi che il divieto penalmente sanzionato di cui all’art. 580 cod. pen. costringa il paziente a vivere una vita, oggettivamente, ‘non degna’ di essere vissuta”.

Tale sentenza non contrasta la giurisprudenza fin qui espressa: “La sentenza si pone, dunque, in continuità con la giurisprudenza precedente, nulla concedendo alle istanze di (ulteriori) balzi perorate dall’ordinanza di rimessione e, anzi, per alcuni profili mostrando sviluppi argomentativi di particolare pregio. Ciò non significa, naturalmente, che la stessa giurisprudenza precedente, cui la Corte si conforma, andasse esente da critiche.

Come ricordato anche di recente dalla CEDU, infatti, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo non impone di escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio neppure nei casi in cui la Corte Costituzionale Italiana aveva ritenuto, invece, nel 2019, che la punizione dell’aiuto al suicidio fosse da considerarsi contraria a Costituzione”.

I vescovi europei: l’aborto non è un diritto

“La promozione delle donne e dei loro diritti non è legata alla promozione dell’aborto. Lavoriamo per un’Europa in cui le donne possano vivere la loro maternità liberamente e come un dono per loro e per la società e in cui l’essere madre non sia in alcun modo una limitazione per la vita personale, sociale e professionale. Promuovere e facilitare l’aborto va nella direzione opposta alla reale promozione delle donne e dei loro diritti”: con questa nota del Comece, che è il coordinamento degli episcopati cattolici dei 27 Paesi membri Ue, arriva un ammonimento al Parlamento europeo per ribadire che l’aborto non è un diritto e non può essere inserito in qualsiasi Costituzione.

Riprendendo la dichiarazione ‘Dignitas infinita’ i vescovi europei hanno ribadito che la vita è un diritto fondamentale da tutelare: “L’aborto non potrà mai essere un diritto fondamentale. Il diritto alla vita è il pilastro fondamentale di tutti gli altri diritti umani, in particolare il diritto alla vita delle persone più vulnerabili, fragili e indifese, come il bambino non ancora nato nel grembo della madre, il migrante, l’anziano, la persona con disabilità e il malato”.

Inoltre i vescovi della Comece ricordano un principio dell’Europa comunitaria, che consiste nella non imposizioni ideologiche sulla persona e sulla famiglia: “L’Unione europea deve rispettare le diverse culture e tradizioni degli Stati membri e le loro competenze nazionali. L’Unione europea non può imporre ad altri, all’interno e all’esterno dei suoi confini, posizioni ideologiche sulla persona umana, sulla sessualità e sul genere, sul matrimonio e sulla famiglia…”.

Quindi la nota si conclude con un monito al rispetto dei diritti scritti nelle Costituzioni dei singoli Stati: “La Carta dei diritti fondamentali dell’UE non può includere diritti che non sono riconosciuti da tutti e che sono divisivi. Non esiste un diritto riconosciuto all’aborto nel diritto europeo o internazionale e il modo in cui questo tema è trattato nelle Costituzioni e nelle leggi degli Stati membri varia notevolmente.

Come afferma il suo preambolo, la Carta deve rispettare la ‘diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli d’Europa’, nonché i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri”.

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