Papa Francesco invita i sacerdoti ad essere annunciatori di speranza

“Carissimi Vescovi e sacerdoti, cari fratelli e sorelle! ‘L’Alfa e l’Omega, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente’ è Gesù. Proprio il Gesù che Luca ci descrive nella sinagoga di Nazaret, tra coloro che lo conoscono fin da bambino e ora si stupiscono di Lui. La rivelazione (‘apocalisse’) si offre nei limiti del tempo e dello spazio: ha la carne come cardine che sostiene la speranza. La carne di Gesù e la nostra. L’ultimo libro della Bibbia racconta questa speranza. Lo fa in modo originale, sciogliendo tutte le paure apocalittiche al sole dell’amore crocifisso. In Gesù si apre il libro della storia e lo si può leggere”.
E’ iniziata con queste parole l’omelia scritta da papa Francesco e letta dal card. Domenico Calcagno, presidente emerito dell’APSA, che ha presieduto, nella Basilica Vaticana, la Santa Messa Crismale, a motivo della convalescenza, invitando la leggere la propria vita:
“Anche noi sacerdoti abbiamo una storia: rinnovando il Giovedì Santo le promesse dell’Ordinazione, confessiamo di poterla leggere soltanto in Gesù di Nazaret… Quando lasciamo che sia Lui a istruirci, il nostro diventa un ministero di speranza, perché in ognuna delle nostre storie Dio apre un giubileo, cioè un tempo e un’oasi di grazia. Chiediamoci: sto imparando a leggere la mia vita? Oppure ho paura a farlo?”
Nell’omelia il papa ha sottolineato l’importanza del sacerdozio per i fedeli: “E’ un popolo intero a trovare ristoro, quando il giubileo inizia nella nostra vita: non una volta ogni venticinque anni (speriamo!) ma in quella prossimità quotidiana del prete alla sua gente in cui le profezie di giustizia e di pace si adempiono. ‘Ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre’: ecco il popolo di Dio. Questo regno di sacerdoti non coincide con un clero”.
Il sacerdozio coincide con una nuova visione di popolo: “Il ‘noi’ che Gesù plasma è un popolo di cui non vediamo i confini, in cui cadono i muri e le dogane. Colui che dice: ‘Ecco, io faccio nuove tutte le cose’ ha squarciato il velo del tempio e ha in serbo per l’umanità una città- giardino, la nuova Gerusalemme che ha porte sempre aperte. Così, Gesù legge e ci insegna a leggere il sacerdozio ministeriale come puro servizio al popolo sacerdotale, che abiterà presto una città che non ha bisogno di tempio”.
L’anno giubilare è un nuovo inizio: “L’anno giubilare rappresenta così, per noi sacerdoti, una specifica chiamata a ricominciare nel segno della conversione. Pellegrini di speranza, per uscire dal clericalismo e diventare annunciatori di speranza. Certo, se Alfa e Omega della nostra vita è Gesù, anche noi potremo incontrare il dissenso da Lui sperimentato a Nazaret. Il pastore che ama il suo popolo non vive alla ricerca di consenso e approvazione a ogni costo. Eppure, la fedeltà dell’amore converte, lo riconoscono per primi i poveri, ma lentamente inquieta e attrae anche gli altri”.
E’ un invito a ‘ritornare’ a Nazareth: “Siamo qui radunati, carissimi, a fare nostro e ripetere questo ‘Sì, Amen!’ E’ la confessione di fede del popolo di Dio: ‘Sì, è così, tiene come una roccia!’ Passione, morte e risurrezione di Gesù, che ci apprestiamo a rivivere, sono il terreno che sostiene saldamente la Chiesa e, in essa, il nostro ministero sacerdotale. E che terreno è questo? In che humus noi possiamo non soltanto reggere, ma fiorire? Per comprenderlo bisogna ritornare a Nazaret, come intuì tanto acutamente San Charles de Foucauld”.
Ma occorre essere ‘innamorati’ della Parola di Dio: “Abbiamo qui evocate almeno due abitudini: quella a frequentare la sinagoga e quella a leggere. La nostra vita è sostenuta da buone abitudini. Esse possono inaridirsi, ma rivelano dov’è il nostro cuore. Quello di Gesù è un cuore innamorato della Parola di Dio: a dodici anni lo si capiva già e ora, divenuto adulto, le Scritture sono casa sua. Ecco il terreno, l’humus vitale che troviamo diventando suoi discepoli”.
La Sacra Scrittura offre ad ognuno una Parola da portare a termine: “Cari sacerdoti, ognuno di noi ha una Parola da adempiere. Ognuno di noi ha un rapporto con la Parola di Dio che viene da lontano. Lo mettiamo a servizio di tutti solo quando la Bibbia rimane la nostra prima casa. Al suo interno, ciascuno di noi ha delle pagine più care. Questo è bello e importante!
Aiutiamo anche altri a trovare le pagine della loro vita: forse gli sposi, quando scelgono le Letture del loro matrimonio; o chi è nel lutto e cerca dei brani per affidare alla misericordia di Dio e alla preghiera della comunità la persona defunta. C’è una pagina della vocazione, in genere, all’inizio del cammino di ciascuno di noi. Per suo tramite, Dio ci chiama ancora, se la custodiamo, perché non si intiepidisca l’amore”.
E’ un invito ad invocare lo Spirito Santo: “E’ questo lo Spirito che invochiamo sul nostro sacerdozio: ne siamo stati investiti e proprio lo Spirito di Gesù rimane silenzioso protagonista del nostro servizio. Il popolo ne avverte il soffio quando in noi le parole diventano realtà. I poveri, prima degli altri, e i bambini, gli adolescenti, le donne e anche coloro che nel rapporto con la Chiesa sono stati feriti, hanno il ‘fiuto’ dello Spirito Santo: lo distinguono da altri spiriti mondani, lo riconoscono nella coincidenza in noi tra l’annuncio e la vita.
Noi possiamo diventare una profezia adempiuta, e questo è bello! Il sacro Crisma, che oggi consacriamo, sigilla questo mistero trasformativo nelle diverse tappe della vita cristiana. E attenzione: mai scoraggiarsi, perché è un’opera di Dio. Credere, sì! Credere che Dio non fallisce con me! Dio non fallisce mai. Ricordiamo quella parola nell’Ordinazione: «Dio porti a compimento l’opera che in te ha iniziato». E lo fa”.
E’ un invito a compiere l’opera di Dio: “E’ l’opera di Dio, non la nostra: portare ai poveri un lieto messaggio, ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, la libertà agli oppressi. Se Gesù nel rotolo ha trovato questo passo, oggi lo continua a leggere nella biografia di ognuno di noi. Primariamente perché, fino all’ultimo giorno, è sempre Lui a evangelizzarci, a liberarci dalle prigioni, ad aprirci gli occhi, a sollevare i pesi caricati sulle nostre spalle.
E poi perché, chiamandoci alla sua missione e inserendoci sacramentalmente nella sua vita, Egli libera anche altri attraverso di noi. In genere, senza che ce ne accorgiamo. Il nostro sacerdozio diventa un ministero giubilare, come il suo, senza suonare il corno né la tromba: in una dedizione non gridata, ma radicale e gratuita”.
Al contempo ha invitato ad essere ‘operai’ di Dio: “Dio solo sa quanto la messe sia abbondante. Noi operai viviamo la fatica e la gioia della mietitura. Viviamo dopo Cristo, nel tempo messianico. Bando alla disperazione! Restituzione, invece, e remissione dei debiti; ridistribuzione di responsabilità e di risorse: il popolo di Dio si attende questo. Vuole partecipare e, in forza del Battesimo, è un grande popolo sacerdotale. Gli oli che in questa solenne celebrazione consacriamo sono per la sua consolazione e la gioia messianica”.
Ma per essere ‘operai’ è necessario assaporare la ‘gioia’ di Dio: “Il campo è il mondo. La nostra casa comune, tanto ferita, e la fraternità umana, così negata, ma incancellabile, ci chiamano a scelte di campo. Il raccolto di Dio è per tutti: un campo vivo, in cui cresce cento volte più di quello che si è seminato. Ci animi, nella missione, la gioia del Regno, che ripaga ogni fatica. Ogni contadino, infatti, conosce stagioni in cui non si vede nascere nulla. Non ne mancano anche nella nostra vita. È Dio che fa crescere e che unge i suoi servi con olio di letizia”.
Ed infine ha chiesto ai fedeli la preghiera: “Cari fedeli, popolo della speranza, pregate oggi per la gioia dei sacerdoti. Venga a voi la liberazione promessa dalle Scritture e alimentata dai Sacramenti. Molte paure ci abitano e tremende ingiustizie ci circondano, ma un mondo nuovo è già sorto. Dio ha tanto amato il mondo da dare a noi il suo Figlio, Gesù. Egli unge le nostre ferite e asciuga le nostre lacrime”.
(Foto: Santa Sede)