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Papa Francesco alle confraternite di pietà popolare: non dimenticare la preghiera

“Sono molto lieto di accogliervi come pellegrini in questo Anno Giubilare. Sono venuti per ringraziare Dio per l’ultimo Congresso Internazionale delle Confraternite e della Pietà Popolare. Quando mi hanno detto che saresti venuto, ero un po’ preoccupato, perché nel messaggio ti avevo chiamato ‘pazzo’ e forse era per questo che eri interessato a incontrarmi. Ma mons. Saiz Meneses mi dice che questa iniziativa è stata una grazia i cui echi si possono ancora udire e che mi sento più a mio agio”: anche oggi papa Francesco, ancora non pienamente in forma, ha ricevuto in Casa santa Marta la Commissione esecutiva del II Congresso internazionale delle Confraternite e della pietà popolare.

Durante l’incontro ha ricordato un suo precedente messaggio: “Nel mio messaggio, se ricordate, ho proposto di vivere questo evento come una preghiera di lode, che accompagni il nostro cammino terreno come un pellegrinaggio verso Dio e verso i fratelli. In questo modo chiedeva loro di essere testimoni di un amore traboccante, al punto da sembrare pazzi, pazzi d’amore”.

Anche a loro ha ricordato il valore della preghiera: “Quanto sarebbe bello per noi se, al termine di questo evento, i primi echi si udissero soprattutto nelle famiglie. Si potrebbe udire come il silenzio fragoroso di una preghiera che giunge fino alle lacrime, perché viene dal cuore; sia davanti all’immagine del titolare della loro fratellanza, che presiede le loro case; sia davanti al Tabernacolo della parrocchia o del tempio, sia accanto al letto del malato o in compagnia degli anziani”.

Infine ha sottolineato la loro iniziativa di una casa per i ‘senzatetto’: “Il vostro Arcivescovo mi ha anche detto che un altro di questi echi, già realizzato, è una casa di accoglienza per i senzatetto, frutto della carità nascosta a cui ho fatto riferimento nel mio messaggio. Spero che in quest’opera potremo sempre sentire il battito di un cuore amorevole. Proponiamo che, attraverso ‘il rispetto, l’affetto e la cura’ in questa casa, la società e coloro che vengono accolti tornino a riconoscere la dignità unica di ogni persona”.

(Foto: Santa Sede)

Papa Francesco chiede impegno per debellare la tratta di esseri umani

“Sono felice di incontrarvi e di unirmi a voi che quotidianamente siete impegnati contro la tratta di persone. Ringrazio in particolare ‘Talitha Kum’ per il servizio che svolge. Grazie! Ci ritroviamo alla vigilia della festa di santa Giuseppina Bakhita, che fu vittima di questa terribile piaga sociale. La sua storia ci dà tanta forza, mostrandoci come, nonostante le ingiustizie e le sofferenze subite, con la grazia del Signore sia possibile rompere le catene, tornare liberi e diventare messaggeri di speranza per altri che sono in difficoltà”.

Pur non essendo in buona salute papa Francesco oggi ha incontrato a Casa Santa Marta una delegazione della rete contro la tratta delle persone, n occasione della XI Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone (istituita nel 2015), la cui promozione è stata affidata alla stessa rete, all’Unione internazionale delle superiori generali (Uisg) e all’Unione dei superiori generali (Usg), che si celebra domani, 8 febbraio, memoria liturgica di Santa Giuseppina Bakhita, vittima di questa piaga sociale:

“La tratta è un fenomeno globale che miete milioni di vittime e non si ferma davanti a nulla. Trova sempre nuovi modi per insinuarsi nelle nostre società, ad ogni latitudine. Di fronte a questo dramma non possiamo restare indifferenti e, proprio come fate voi, dobbiamo unire le nostre forze, le nostre voci e richiamare tutti alle proprie responsabilità, per contrastare questa forma di criminalità che guadagna sulla pelle delle persone più vulnerabili”.

Quindi ha esortato ad impegnarsi contro questo sfruttamento di milioni di persone: “Non possiamo accettare che tante sorelle e tanti fratelli siano sfruttati in maniera così ignobile. Il commercio dei corpi, lo sfruttamento sessuale, anche di bambini e bambine, il lavoro forzato sono una vergogna e una violazione gravissima dei diritti umani fondamentali”.

E’ stato un ringraziamento per questa ‘battaglia’ di sensibilizzazione: “So che siete un gruppo internazionale, alcuni di voi sono arrivati da molto lontano per questa settimana di preghiera e riflessione contro la tratta. Vi ringrazio! In modo speciale mi congratulo con i giovani ambasciatori contro la tratta che, con creatività ed energia, trovano sempre nuovi modi per sensibilizzare e informare”.

Il richiamo del papa è un ulteriore incoraggiamento ad essere ‘ambasciatori’ di speranza: “Incoraggio tutte le organizzazioni di questa rete e tutti i singoli che ne fanno parte a continuare ad unire le forze, mettendo al centro le vittime e i sopravvissuti, ascoltando le loro storie, prendendovi cura delle loro ferite e amplificando la loro voce. Questo significa essere ambasciatori di speranza; spero che in questo Giubileo tante altre persone seguano il vostro esempio”.

E per tale occasione papa Francesco ha indirizzato un messaggio a questi nuovi ambasciatori di speranza: “Con gioia mi unisco a voi nell’undicesima Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone. Questo evento ricorre nella memoria liturgica di santa Giuseppina Bakhita, donna e religiosa sudanese, sin da bambina vittima di tratta, divenuta simbolo del nostro impegno contro questo terribile fenomeno. In questo anno giubilare camminiamo insieme, come ‘pellegrini di speranza’, anche sulla strada del contrasto alla tratta”.

Il messaggio papale offre una concreta risposta alle domande impellenti per la dignità umana: “Ma come è possibile continuare a nutrire speranza davanti ai milioni di persone, soprattutto donne e bambini, giovani, migranti e rifugiati, intrappolate in questa schiavitù moderna? Dove attingere sempre nuovo slancio per contrastare il commercio di organi e tessuti umani, lo sfruttamento sessuale di bambini e bambine, il lavoro forzato, compresa la prostituzione, il traffico di droghe e di armi? Come facciamo a registrare nel mondo tutto questo e a non perdere la speranza?

Solo sollevando lo sguardo a Cristo, nostra speranza, possiamo trovare la forza di un rinnovato impegno che non si lascia vincere dalla dimensione dei problemi e dei drammi, ma nel buio si adopera per accendere fiammelle di luce, che unite possono rischiarare la notte finché non spunti l’aurora”.

Per questo i giovani sono un bell’esempio: “Ci offrono un esempio i giovani che in tutto il mondo lottano contro la tratta: ci dicono che bisogna diventare ambasciatori di speranza e agire insieme, con tenacia e amore; che occorre mettersi a fianco delle vittime e dei sopravvissuti”.

E’ una richiesta a combattere contro ogni ingiustizia: “Con l’aiuto di Dio possiamo evitare di assuefarci all’ingiustizia, allontanare la tentazione di pensare che certi fenomeni non possano essere debellati. Lo Spirito del Signore risorto ci sostiene nel promuovere, con coraggio ed efficacia, iniziative mirate per indebolire e contrastare i meccanismi economici e criminali che traggono profitti dalla tratta e dallo sfruttamento.

Ci insegna anzitutto a metterci in ascolto, con vicinanza e compassione, delle persone che hanno fatto esperienza della tratta, per aiutarle a rimettersi in piedi e insieme con loro individuare le vie migliori per liberare altri e fare prevenzione. La tratta è un fenomeno complesso, in continua evoluzione, e trae alimento da guerre, conflitti, carestie e conseguenze dei cambiamenti climatici. Pertanto richiede risposte globali e uno sforzo comune, a tutti i livelli, per contrastarlo.

E’ un invito alla promozione della dignità umana: “Invito dunque tutti voi, in modo particolare i rappresentanti dei governi e delle organizzazioni che condividono questo impegno, a unirsi a noi, animati dalla preghiera, per promuovere le iniziative in difesa della dignità umana, per l’eliminazione della tratta di persone in tutte le sue forme e per la promozione della pace nel mondo…

Sorelle e fratelli, vi ringrazio per il coraggio e la tenacia con cui portate avanti quest’opera, coinvolgendo tante persone di buona volontà. Andate avanti con la speranza nel Signore, che cammina con voi!”

(Foto: Santa Sede)

Papa Francesco invita alla comunione tra Chiese

In mattinata papa Francesco ha ricevuto in udienza il personale sanitario degli ospedali di Catanzaro, Cosenza, Crotone e Vibo Valentia, a cui ah consegnato il discorso a motivo di problemi salutari, nel quale ha ‘esaltato’ la professione delle ostetriche e dei ginecologi: “In effetti, in Italia, e anche in altri Paesi, sembra si sia perso l’entusiasmo per la maternità e la paternità; le si guarda come fonte di difficoltà e di problemi, più che come lo spalancarsi di un nuovo orizzonte di creatività e di felicità”.

E’ stato un appello ad invertire la ‘rotta’ della denatalità, soffermandosi su tre parole: “E questo dipende molto dal contesto sociale e culturale. Per questo voi, come Ordine professionale, vi siete dati un obiettivo programmatico: invertire la tendenza della denatalità. Bravi! Mi congratulo con voi. E allora vorrei riflettere con voi su tre ambiti complementari e interdipendenti della vostra vita e della vostra missione: la professionalità, la sensibilità umana e, per chi crede, la preghiera”.

Per il papa, innanzitutto, è necessario essere professionali: “Il continuo miglioramento delle competenze è parte non solo del vostro codice deontologico, ma anche di un cammino di santità laicale. La competenza è lo strumento con cui potete esercitare al meglio la carità che vi è affidata, sia nell’accompagnamento ordinario delle future mamme, sia affrontando situazioni critiche e dolorose. In tutti questi casi la presenza di professionisti preparati dona serenità e, nelle situazioni più gravi, può salvare la vita”.

Però, oltre la professionalità, occorre possedere la sensibilità: “In un momento cruciale dell’esistenza come quello della nascita di un figlio o di una figlia, ci si può sentire vulnerabili, fragili, e perciò più bisognosi di vicinanza, di tenerezza, di calore. Fa tanto bene, in tali circostanze, avere accanto persone sensibili e delicate. Vi raccomando perciò di coltivare, oltre all’abilità professionale, anche un grande senso di umanità”.

Infine ha invitato anche a mettere al centro della professione la preghiera: “E veniamo al terzo punto: la preghiera. E’ una medicina nascosta ma efficace che chi crede ha a disposizione, perché cura l’anima. A volte sarà possibile condividerla con i pazienti; in altre circostanze, la si potrà offrire a Dio con discrezione e umiltà, nel proprio cuore, rispettando il credo e il cammino di tutti…

Vi incoraggio perciò a sentire nei confronti delle mamme, dei papà e dei bambini che Dio mette sulla vostra strada, la responsabilità di pregare anche per loro, specialmente nella Santa Messa, nell’Adorazione eucaristica e nell’orazione semplice e quotidiana”.

Inoltre ha incontrato anche i sacerdoti ed i monaci delle Chiese Autocefale Orientali, a cui ha detto (sempre nel discorso consegnato) di essere contento della visita: “Questa è la quinta visita di studio per giovani sacerdoti e monaci ortodossi orientali organizzata dal Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. Visite simili per sacerdoti cattolici sono state preparate dal Catholicossato armeno di Etchmiadzin e dalla Chiesa Ortodossa Sira Malankarese. Sono molto grato per questo ‘scambio di doni’, promosso dalla Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa Cattolica e le Chiese Ortodosse Orientali, perché permette di affiancare il dialogo della carità al dialogo della verità”.

Quindi ha ricordato l’importanza del Concilio di Nicea: “La vostra visita ha una rilevanza particolare nell’anno in cui si celebra il 17° centenario del Concilio di Nicea, il primo Concilio ecumenico, che professò il Simbolo della fede comune a tutti i cristiani. Vorrei quindi riflettere con voi sul termine ‘Simbolo’, che ha una forte dimensione ecumenica, nel suo triplice significato.

In senso teologico, per Simbolo s’intende l’insieme delle principali verità della fede cristiana, che si completano e si armonizzano tra loro. In questo senso, il Credo niceno, che espone sinteticamente il mistero della nostra salvezza, è innegabile e ineguagliabile”.

Ed ha spiegato il significato ecclesiologico di questo Simbolo: “Tuttavia, il Simbolo ha anche un significato ecclesiologico: infatti, oltre alle verità, unisce anche i credenti. Nell’antichità, la parola greca symbolon indicava la metà di una tessera spezzata in due da presentare come segno di riconoscimento. Il Simbolo è quindi segno di riconoscimento e di comunione tra i credenti”.

Ecco l’importanza del Simbolo: “Ognuno possiede la fede come “simbolo”, che trova la sua piena unità solo assieme agli altri. Abbiamo dunque bisogno gli uni degli altri per poter confessare la fede, ed è per questo che il Simbolo niceno, nella sua versione originale, usa il plurale ‘noi crediamo’. Andando oltre in questa immagine, direi che i cristiani ancora divisi sono come dei ‘cocci’ che devono ritrovare l’unità nella confessione dell’unica fede. Portiamo il Simbolo della nostra fede come un tesoro in vasi d’argilla”.

Infine il terzo significato è quello ‘spirituale’: “Non dobbiamo mai dimenticare che il Credo è soprattutto una preghiera di lode che ci unisce a Dio: l’unione con Dio passa necessariamente attraverso l’unità tra noi cristiani, che proclamiamo la stessa fede. Se il diavolo divide, il Simbolo unisce! Come sarebbe bello che, ogni volta che proclamiamo il Credo, ci sentissimo uniti ai cristiani di tutte le tradizioni!”

Ed ha auspicato che tale ‘fede comune’ possa diventare comunione: “La proclamazione della fede comune, difatti, richiede prima di tutto che ci amiamo gli uni gli altri, come la liturgia orientale invita a fare prima della recita del Credo: ‘Amiamoci gli uni gli altri, affinché in unità di spirito, professiamo la nostra fede nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo’.

Cari fratelli, auspico che la vostra presenza diventi un ‘simbolo’ della nostra comunione visibile, mentre perseveriamo nella ricerca di quella piena unità che il Signore Gesù ha ardentemente desiderato”.

(Foto: Santa Sede)

Per il Giubileo settimana di mobilitazione contro la tratta

‘Ambasciatori di speranza. Insieme contro la tratta di persone’ è il tema scelto, in continuità con il Giubileo in corso, per l’undicesima Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone, che si celebra ogni anno l’8 febbraio, in occasione della festa di santa Bakhita, donna e suora sudanese vittima di tratta e simbolo universale dell’impegno della Chiesa contro questo fenomeno.

Giovani della rete globale contro la tratta, provenienti da tutti i continenti, sono giunti a Roma in occasione della Giornata, per una settimana di formazione e incontri, con un momento centrale di preghiera e riflessione insieme a papa Francesco, che ha istituito nel 2015 la Giornata, affidandone la promozione all’Unione internazionale delle superiore generali (Uisg) e all’Unione dei superiori generali (Usg) e il coordinamento a ‘Talitha Kum’, la rete internazionale anti-tratta che conta più di 6.000 suore, amici e partner in tutto il mondo.

Secondo le Nazioni Unite, sono 50.000.000 le persone vittime della tratta a livello globale. Coloro che ne soffrono maggiormente le conseguenze sono donne, bambini, migranti e rifugiati. Una vittima su tre è un bambino, mentre il 79% delle vittime dello sfruttamento sessuale a livello globale sono donne e ragazze. Le persone costrette alla migrazione forzata sono circa 120.000.000.

Guerre, conflitti, violenze, povertà e catastrofi ambientali li portano ad abbandonare le proprie case, rendendoli particolarmente vulnerabili alla tratta e allo sfruttamento per la pericolosità delle rotte e perché spesso si fa ricorso a trafficanti o al mercato nero per spostarsi da un Paese all’altro. A questo si aggiunge un’altra forma di tratta, che è lo sfruttamento online.

Oggi continuano  le attività di formazione e sensibilizzazione sul tema della tratta; giovedì 6 febbraio, al mattino, pellegrinaggio dei giovani attraverso le Porte Sante, mentre il pomeriggio, dalle 17 alle 19, all’Università Pontificia della Santa Croce di Roma si svolgerà l’evento Appello alla speranza e alla guarigione, con le testimonianze di alcuni sopravvissuti alla tratta, giovani attivisti e la performance di artisti come la band Gen Verde.

La mattina di venerdì 7 febbraio papa Francesco incontrerà la delegazione dei giovani ambasciatori, i sopravvissuti e i rappresentanti della rete delle organizzazioni promotrici della Giornata. Subito dopo ci sarà il pellegrinaggio online di preghiera e riflessione contro la tratta, che attraverserà tutti i continenti e i fusi orari: dall’Oceania all’Asia, Medio Oriente, Africa, Europa, Sud America e, infine, il Nord America. L’evento sarà trasmesso in diretta streaming in cinque lingue (inglese, spagnolo, portoghese, francese, italiano) su www.preghieracontrotratta.org/yt/it.

Sabato 8 febbraio, i giovani ambasciatori si riuniranno per un giorno intero di dialogo e lavoro, che culminerà con il lancio della nuova chiamata all’azione globale contro la tratta, che diventerà un nuovo strumento di sensibilizzazione e mobilitazione da usare in tutto il mondo. Gli organizzatori invitano tutti a dedicare un post, un tweet e condividerlo il 7 e l’8 febbraio usando gli hashtag ufficiali #PrayAgainstTrafficking #iubilaeum2025.

Ed ecco la storia di Grace, raccontata nel sito della rete: “Grace è fuggita dai suoi trafficanti a Dubai e ha cercato subito aiuto in una chiesa locale. Lì ha incontrato un sacerdote e delle suore che l’hanno messa rapidamente in contatto con le Sorelle di Talitha Kum nel suo Paese d’origine, la Nigeria. Grazie al loro sostegno, ha potuto lasciare gli Emirati Arabi Uniti ed è stata accolta calorosamente dalle suore di Villa Bakhita all’aeroporto. Grace ricorda quanto siano state premurose mentre elaborava il trauma della sua esperienza, dandole modo di condividere la sua storia solo quando si fosse sentita pronta.

Durante il periodo trascorso al rifugio, Grace ha avuto la possibilità di andare regolarmente a Messa e ha instaurato un forte legame con le suore. Speranzosa e determinata a proseguire gli studi, le suore le hanno offerto corsi di informatica e una formazione pratica in cucina e pasticceria. Talitha Kum infatti mette a disposizione anche corsi di catering, sartoria e parruccheria per consentire ai sopravvissuti di recuperare l’indipendenza e reintegrarsi nella società.

La vicenda di Grace porta con sé un potente messaggio di speranza, non solo per i sopravvissuti, ma anche per chi li assiste. Una sorella di Villa Bakhita ha detto: Storie come la sua sono molto incoraggianti. Questo lavoro può essere impegnativo e frustrante, ma quando si è testimoni di persone che rispondono e collaborano, si rafforza la motivazione a continuare e ci si rassicura che c’è speranza. E’ un forte messaggio di speranza per tutti gli altri sopravvissuti”.

(Foto: Talitha Kum)

I vescovi della Puglia non legittimano la guerra

“Questa sera siamo qui, insieme, come Popolo di Dio, non semplicemente per pregare invocando il dono della pace, ma per celebrarla. In un mondo segnato dalla piaga delle guerre, noi celebriamo la pace, la pace con la ‘P’ maiuscola, quella vera, la sola in grado di trasformare nel profondo il cuore dell’uomo: Cristo Gesù! E’ Lui il vero nome della pace… Non è possibile legittimare la guerra neanche dinanzi a ingiustizie criminali. La guerra è sempre un tornare indietro e un aprire alla barbarie”: lo ha affermato mons. Giuseppe Satriano, arcivescovo di Bari-Bitonto e presidente della Conferenza episcopale pugliese (Cep), nell’omelia pronunciata nella celebrazione eucaristica nella basilica di San Nicola a Bari, durante l’assemblea ordinaria dei vescovi pugliesi, svoltasi fino al 15 gennaio presso l’Oasi francescana ‘De Lilla’ di Bari.

Nell’omelia l’arcivescovo di Bari ha invitato ad essere ‘servitori luminosi’ come il santo barese: “Da sempre il Signore ci ha pensati e plasmati come servitori luminosi della Sua Parola che arreca pace e salvezza, perché tale salvezza possa raggiungere tutti, ma proprio tutti, come afferma il profeta Isaia… San Nicola, con i suoi gesti, con la sua vita, ci richiama insistentemente al nostro essere servitori luminosi del Regno di Dio, un Regno che si va realizzando nella storia, nonostante a volte sembri che le tenebre dell’odio e della vendetta prevalgano, dissimulando la verità luminosa della pace e della salvezza”.

La Bibbia invita ad essere custode del ‘gregge’: “Custodire implica un amore unico e totalizzante nei confronti del Signore, nostra Pace, che ci chiede: ‘mi ami tu, più di tutto il resto?’. Solo un amore grande per il Signore può aprirci a un’alterità da custodire e non da manipolare in maniera dispotica e indegna, passando dalla logica mortifera di Caino a quella feconda di vita a cui Cristo ci orienta; dalla logica prepotente e omicida, alla pace di popoli fratelli che si riscoprono insieme eredi di un’unica Promessa di futuro, la quale si realizza nelle reciproche libertà”.

Un ‘appello’ alla pace ed alla custodia che è sfida evangelica: “Ecco la sfida evangelica: mettersi in gioco, sapendo rigenerare le relazioni, i valori del vivere, alimentando la cultura dell’incontro, perché da indifferenti e ostili si possa divenire ospitali. L’immagine dei pascoli, in cui il Signore desidera pascere il suo popolo, e che attraversa tutta la liturgia della Parola, accende la nostra fantasia, rievocando orizzonti ampi, profumi intensi che aprono a respiri profondi. ‘Inspirare’ la pace, accoglierla in noi, facendole spazio nei pensieri, nei sentimenti, nei gesti, nei linguaggi: questo ci aiuta a viverne la profezia”.

Tutto ciò si può ottenere attraverso la preghiera: “C’è una sottile operazione di discredito sul tema della pace che, come Chiesa, non possiamo sottacere e, dinanzi alla quale dobbiamo abbracciare con forza la risorsa della preghiera. La preghiera è patrimonio di tutti e, in particolare, la preghiera d’intercessione, vissuta da Gesù sulla croce, ha il sapore della misericordia e l’obiettivo della riconciliazione”.

La pace si ‘ottiene’ solo se uno è capace di viverla: “Non ci può essere pace nel mondo se prima non ci lasciamo abitare da lei, se non ci lasciamo rappacificare intimamente dalla voce del Signore che richiama ciascuno, con il suo amore impossibile, a realizzare tutto il bene possibile”.

Per questo ha chiamato gli operatori di pace ‘audaci’: “I veri audaci non sono quelli che in nome di una causa, giusta per quanto sia, uccidono i fratelli. Veri audaci sono piuttosto coloro che coltivano la pace come frutto della giustizia, secondo l’espressione del profeta Isaia. La non-violenza è l’unica scelta cristiana in linea con il Vangelo di Gesù Cristo”.

Quindi l’altro passo, che non può essere disgiunto dalla pace è la preghiera: “Il perdono di Cristo ci aiuta a trovare il pascolo comune dove possiamo condividere il cibo della pace con chiunque, con il povero e con il ricco, con l’amico e con il nemico, con il fratello e con lo straniero. Un pascolo comune dove approdare insieme, sapendoci fidare di quella parola perentoria e soave: Seguimi”.

Così ha fatto san Nicola di Mira: “Il Santo vescovo di Mira, nostro grande intercessore, ha seguito il Signore nella sua vita così da diventare egli stesso segno efficace del suo Amore, pastore vittorioso non nel potere o nel successo, ma in quella peculiare capacità di edificare il Regno di Dio in mezzo agli uomini. Da qui, da questo altare, da questa comunione vissuta, desideriamo implorare l’aiuto del Signore mediante l’intercessione di Nicola”.

Papa Francesco invita a celebrare la Pasqua unitariamente

“Gesù arriva nella casa delle sue amiche, Marta e Maria, quando il loro fratello Lazzaro è già morto da quattro giorni. Ogni speranza sembra ormai perduta, al punto che le prime parole di Marta esprimono il suo dolore insieme al rammarico perché Gesù è arrivato tardi… E’ quell’atteggiamento di lasciare sempre la porta aperta, mai chiusa! E Gesù, infatti, le annuncia la risurrezione dalla morte non soltanto come un evento che si verificherà alla fine dei tempi, ma come qualcosa che accade già nel presente, perché Lui stesso è risurrezione e vita… Soffermiamoci anche su questo interrogativo: ‘Credi questo? E’ una domanda breve ma impegnativa”.

Nella giornata conclusiva della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani nel giorno della conversione di san Paolo, papa Francesco ha riletto la resurrezione di Lazzaro, affermando che la speranza non svanisce: “Questo tenero incontro tra Gesù e Marta, che abbiamo ascoltato nel Vangelo, ci insegna che, anche nei momenti di desolazione, non siamo soli e possiamo continuare a sperare. Gesù dona vita, anche quando sembra che ogni speranza sia svanita.

Dopo una perdita dolorosa, una malattia, una delusione amara, un tradimento subito o altre esperienze difficili, la speranza può vacillare; ma se ciascuno di noi può vivere momenti di disperazione o incontrare persone che hanno perso la speranza, il Vangelo ci dice che con Gesù la speranza rinasce sempre, perché dalle ceneri della morte Egli sempre ci rialza. Gesù ci rialza sempre, ci dona la forza di riprendere il cammino, di ricominciare”.

Per questo la speranza non delude: “La speranza è quella corda alla quale noi siamo aggrappati con l’ancora sulla spiaggia. E questo non delude mai! Questo è importante anche per la vita delle Comunità cristiane, delle nostre Chiese e delle nostre relazioni ecumeniche. A volte siamo sopraffatti dalla fatica, siamo scoraggiati per i risultati del nostro impegno, ci sembra che anche il dialogo e la collaborazione tra di noi siano senza speranza, quasi destinati alla morte e, tutto ciò, ci fa sperimentare la stessa angoscia di Marta; ma il Signore viene”.

Quindi è stato un invito a credere che la speranza è nella resurrezione: “Questo messaggio di speranza è al centro del Giubileo che abbiamo iniziato… Tutti (tutti!) abbiamo ricevuto lo stesso Spirito, e questo è il fondamento del nostro cammino ecumenico. C’è lo Spirito che ci guida in questo cammino. Non sono cose pratiche per capirci meglio. No, c’è lo Spirito, e noi dobbiamo andare sotto la guida di questo Spirito”.

Ecco il motivo per cui ha ricordato l’importanza del Concilio di Nicea: “E questo Anno giubilare della speranza, celebrato dalla Chiesa cattolica, coincide con un anniversario di grande significato per tutti i cristiani: il 1700° anniversario del primo grande Concilio ecumenico, il Concilio di Nicea.

Questo Concilio si impegnò a preservare l’unità della Chiesa in un momento molto difficile, e i Padri conciliari approvarono all’unanimità il Credo che molti cristiani recitano ancora oggi ogni domenica durante l’Eucaristia. Questo Credo è una professione di fede comune, che va oltre a tutte le divisioni che nel corso dei secoli hanno ferito il Corpo di Cristo”.

Quest’anno è data un’opportunità: “L’anniversario del Concilio di Nicea rappresenta dunque un anno di grazia; rappresenta anche una opportunità per tutti i cristiani che recitano lo stesso Credo e credono nello stesso Dio: riscopriamo le radici comuni della fede, custodiamo l’unità! Sempre avanti! Quell’unità che tutti noi vogliamo trovare, che accada. Non vi viene in mente quello che diceva un grande teologo ortodosso, Ioannis Zizioulas: ‘Io so quando sarà la data dell’unità piena: il giorno dopo il giudizio finale’? Ma nel frattempo dobbiamo camminare insieme, lavorare insieme, pregare insieme, amarci insieme. E questo è molto bello!”

Ma l’anniversario del Concilio di Nicea è anche una ‘sfida’: “L’anniversario, infatti, non deve essere celebrato solo come ‘memoria storica’, ma anche come impegno a testimoniare la crescente comunione tra di noi. Dobbiamo fare in modo di non lasciarcela sfuggire, di costruire legami solidi, di coltivare l’amicizia reciproca, di essere tessitori di comunione e di fraternità”.

Una ‘sfida’ che si può concretizzare nella celebrazione pasquale in un unico giorno: “In questa Settimana di preghiera per l’Unità dei Cristiani possiamo vivere l’anniversario del Concilio di Nicea anche come un richiamo a perseverare nel cammino verso l’unità. Provvidenzialmente, quest’anno, la Pasqua sarà celebrata nello stesso giorno nei calendari gregoriano e giuliano, proprio durante questo anniversario ecumenico.

Rinnovo il mio appello affinché questa coincidenza serva da richiamo a tutti i cristiani a compiere un passo decisivo verso l’unità, intorno a una data comune, una data per la Pasqua; e la Chiesa Cattolica è disposta ad accettare la data che tutti vogliono fare: una data dell’unità”.

Ed ha concluso l’omelia con l’invito a confermare la propria fede in Gesù attraverso la professione di fede del Credo niceno: “In Gesù la speranza è sempre possibile. Egli sostiene anche la speranza del nostro cammino comune verso di Lui. E ritorna ancora la domanda fatta a Marta e stasera rivolta a noi: ‘Tu credi questo?’ Ci crediamo nella comunione tra di noi? Crediamo che la speranza non delude?

Care sorelle, cari fratelli, questo è il tempo di confermare la nostra professione di fede nell’unico Dio e trovare in Cristo Gesù la via dell’unità. Nell’attesa che il Signore ‘torni nella gloria per giudicare i vivi e i morti’, non stanchiamoci mai di testimoniare, davanti a tutti i popoli, l’unigenito Figlio di Dio, fonte di ogni nostra speranza”.

Fratel Chialà: l’unità dei cristiani riparte dal Concilio di Nicea

“Al centro della Settimana di quest’anno c’è la domanda che Gesù rivolge a Marta nel racconto della resurrezione di Lazzaro: ‘Credi tu questo?’ Riceveremo anche noi, insieme, questa domanda, la stessa per tutti e posta dall’unico Signore, e saremo chiamati insieme a riflettere sulla nostra fede, sulla nostra testimonianza e sul nostro servizio, e a rispondere, ognuno e tutti. Disponiamoci dunque a condividere la gratitudine per la vocazione che abbiamo ricevuto e a rispondere alla domanda di Gesù a Marta, chiedendo allo Spirito di allargare i nostri cuori, di aprire le nostre menti, di orientare i nostri passi e di farci vivere la realtà della fraternità che supera le nostre storie particolari. Che il nostro incontrarci provenendo da strade diverse possa anche essere una testimonianza in tempi sempre più conflittuali”.

E’ l’auspicio che chiude il messaggio che per la prima volta, tutti insieme, i rappresentanti delle Chiese cristiane in Italia rivolgono alle loro comunità per la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani che si celebra fino al 25 gennaio, firmato da mons. Derio Olivero, vescovo di Pinerolo e presidente della Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo della Cei, dal pastore Daniele Garrone, presidente della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, dal metropolita Polycarpos, della Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia, dal vescovo anglicano della diocesi in Europa (Chiesa d’Inghilterra), dai responsabili della Chiesa armena, della Chiesa copta di Roma e di Milano, dell’Esercito della Salvezza, dalla moderatora della Tavola valdese, dall’amministrazione delle parrocchie della Chiesa ortodossa russa (Patriarcato di Mosca) in Italia, dal Decano della Chiesa evangelica luterana in Italia, dal presidente dell’Unione Cristiana evangelica battista d’Italia, dal Coordinatore della Comunione delle Chiese libere, dal vescovo della diocesi ortodossa romena, dal presidente dell’Opera per le Chiese evangeliche metodiste in Italia, dal rappresentante della Chiesa serbo ortodossa e dal vescovo Chiesa evangelica della Riconciliazione.

La settimana di preghiera per l’unità dei cristiani è animata dalla Comunità di Bose, sul tema ‘Credi tu questo?’. Al priore fratel Sabino Chialà, incontrato a Tolentino, nelle Marche, su invito del Sermit odv, chiediamo se questa domanda di Gesù è un interrogativo ‘pesante’:

“Sì! Lo spunto è venuto dal fatto che quest’anno ricorrono 1700 anni dal Concilio di Nicea, che è il primo Concilio ecumenico dove si definisce per la prima volta una ‘formula’ di fede, che poi è accolta da tutti i cristiani. Il comitato che organizza questa settimana di preghiera per l’unità dei cristiani ha chiesto a noi di scrivere i testi. Quindi ci è sembrato bene ‘puntare’ sul tema della fede, iniziando a chiedere quale è l’essenziale di ciò in cui diciamo di credere. La domanda, tratta dal Vangelo secondo Giovanni, in cui Gesù rivolge questa domanda ad una delle sorelle di Lazzaro (‘Credi tu questo?’), cioè credi nel Figlio di Dio, interrogandola sulla qualità della sua fede”.

Per quale motivo Gesù pone questa domanda?

“In questo episodio Marta ha appena rivolto a Gesù la domanda sulla morte di suo fratello Lazzaro, e Gesù le dice se ella crede nella Resurrezione. La risposta: ‘Sì, credo che risorgeremo alla fine’; ma Gesù ribatte: ‘Io sono la resurrezione e la vita: credi tu questo?’. La richiama alla sua fede, non tanto nell’idea della Resurrezione, ma alla fede nel Risorto, cioè nell’uomo Gesù, destinato alla Resurrezione e che in Lui ciascuno di noi otterrà la consapevolezza di poter vivere aldilà della morte”.

Dopo 1700 anni quale significato assume il Concilio di Nicea?

“Questo è un grande problema, perché il Concilio di Nicea nasce in un contesto storico molto particolare ed è stato anche utilizzato dall’imperatore per poter creare un’unità all’interno del mondo politico del tempo; quindi può essere anche interpretato in maniera non proprio evangelica. Per i cristiani è per la prima volta il convergere sul fatto che in Gesù non riconosciamo non solo un profeta particolare, ma il Figlio di Dio, cioè quell’uomo che allo stesso tempo è pienamente uomo e pienamente Dio.

Questo è detto per la prima volta da tutti i cristiani, anche se quel Concilio ha avuto una ricezione difficile, in quanto esso è stato convocato per il fatto che alcuni negavano questa fede, in particolare Ario. Però, alla fine, tutte le Chiese cristiane, attraverso un lento cammino, arrivano ad accogliere questa fede ed a farne la base della loro comune fede in Gesù. Il nostro essere cristiani si basa su questa comune professione di fede”.

Quindi è possibile ‘mangiare e bere dallo stesso calice’?

“Per me sì; però, siccome ci sono alcuni elementi teologici, che le Chiese non condividono, purtroppo ancora oggi non è possibile. Ritengo che si potrebbe fare qualcosa in più da questo punto di vista, in quanto il cammino teologico ha portato a chiarire molti punti di discordia tra le confessioni di fede. E’ vero che ancora ci sono alcune questioni aperte e per alcune Chiese tali questioni sono dirimenti, cioè bisogna che prima si giunga ad una definizione chiara e poi si può partecipare allo stesso calice.

Da questo punto di vista le Chiese ragionano in modo molto diverso:  per la Chiesa cattolica e per alcune Chiese protestanti sarebbe possibile, almeno secondo alcune condizioni, accedere ad una celebrazione eucaristica comune in vista di una unità; per le Chiese ortodosse, invece, è proprio la celebrazione eucaristica che sancisce l’unità. Quindi nella loro visione è un controsenso celebrare l’eucarestia, continuando ad essere disuniti. Sono due approcci diversi, entrambi rispettabili. In via ordinaria questo non è possibile, ma ciò non toglie che ci sono anche casi in cui questo accade in maniera profetica”.     

(Tratto da Aci Stampa)

Papa Francesco richiama l’attenzione sull’Intelligenza Artificiale: cuore e comunità sono necessari

“Il tema dell’incontro annuale di quest’anno del World Economic Forum, ‘Collaborazione per l’era intelligente’, offre una buona opportunità per riflettere sull’intelligenza artificiale come strumento non solo per la cooperazione, ma anche per unire i popoli”: così inizia il messaggio di papa Francesco inviato a Klaus Schwab, presidente del World Economic Forum, per il raduno annuale a Davos, in Svizzera.

Nel messaggio il papa ha sottolineato che l’intelligenza è un ‘dono’ essenziale: “La tradizione cristiana considera il dono dell’intelligenza come un aspetto essenziale della persona umana creata ‘a immagine di Dio’… L’IA è destinata a imitare l’intelligenza umana che l’ha progettata, ponendo così una serie unica di domande e sfide”.

Ed ha chiesto attenzione nell’uso, in quanto potrebbe minare la nozione di ‘libertà’: “A differenza di molte altre invenzioni umane, l’IA è addestrata sui risultati della creatività umana, che le consente di generare nuovi artefatti con un livello di abilità e una velocità che spesso rivaleggiano o superano le capacità umane, sollevando preoccupazioni critiche sul suo impatto sul ruolo dell’umanità nel mondo. Inoltre, i risultati che l’IA può produrre sono quasi indistinguibili da quelli degli esseri umani, sollevando interrogativi sul suo effetto sulla crescente crisi di verità nel forum pubblico.

Inoltre, questa tecnologia è progettata per apprendere e fare determinate scelte in modo autonomo, adattandosi a nuove situazioni e fornendo risposte non previste dai suoi programmatori, sollevando così questioni fondamentali sulla responsabilità etica, sulla sicurezza umana e sulle implicazioni più ampie di questi sviluppi per la società”.

Per questo è necessaria la comunità: “I progressi segnati dall’alba dell’IA richiedono una riscoperta dell’importanza della comunità e un rinnovato impegno per la cura della casa comune affidataci da Dio. Per orientarsi nelle complessità dell’IA, governi e aziende devono esercitare la dovuta diligenza e vigilanza. Devono valutare criticamente le singole applicazioni dell’IA in contesti particolari per determinare se il suo utilizzo promuove la dignità umana, la vocazione della persona umana e il bene comune…

Oggi, ci sono sfide e opportunità significative quando l’IA viene inserita in un quadro di intelligenza relazionale, in cui tutti condividono la responsabilità del benessere integrale degli altri. Con questi sentimenti, porgo i miei migliori auguri di preghiera per i lavori del Forum e invoco volentieri su tutti i partecipanti l’abbondanza delle benedizioni divine”.

Mentre negli incontri odierni papa Francesco ha ricevuto i direttori della Federazione Automobile Club d’Italia con l’invito a mettersi in pellegrinaggio: “Il pellegrinaggio comporta il rischio di sbagliare strada, di trovarci in difficoltà o di sentirci perduti. Il Giubileo può essere allora per ciascuno l’occasione di una ripartenza, il momento giusto per ricalcolare il percorso della propria vita, individuando le tappe fondamentali da non perdere e quelle che invece potrebbero diventare un ostacolo per il raggiungimento della meta.

C’è una verità: noi non siamo fatti per stare fermi, ma siamo sempre in ricerca, in cammino verso la destinazione. E quello che rimane fermo, il cuore fermo, fa come succede con l’acqua: l’acqua ferma è la prima a imputridirsi”.

Per questo ha invitato a riflettere sulla relazione tra ambiente ed educazione: “C’è bisogno di una cultura del rispetto e della sicurezza stradale, a partire dalle scuole… Assumere comportamenti responsabili, rispettare le norme, essere consapevoli dei rischi aiuta la convivenza civile e il raggiungimento dell’obiettivo ‘zero vittime sulle strade’. Questo è un obiettivo chiaro, ed è un programma ma prima di tutto un dovere. Viaggiare fa rima con imparare, incontrare e non con soffrire, piangere o, addirittura, morire”.

Ad educazione si collega la parola ambiente per una maggiore qualità della vita: “Per questo è urgente lavorare per affrontare tali sfide con serietà e determinazione, anche attraverso la creazione di alleanze per incentivare la sostenibilità. In questo settore, la tecnologia offre già rilevanti opportunità e diversi strumenti, altri certamente verranno messi a disposizione. Occorre assumere una visione ampia, cercando (come già fate) collaborazioni e azioni comuni che vadano a vantaggio di tutti, rendendo la mobilità davvero sostenibile e accessibile”.

Proseguendo negli incontri della giornata il papa ha invitato i membri della ‘Fondazione Rete Mondiale di Preghiera del Papa’ ad approfondire l’enciclica ‘Dilexit Nos’: “In essa trovate il nutrimento sostanzioso che alimenta la spiritualità del vostro lavoro, del vostro apostolato. Mi piace che questa spiritualità voi la chiamiate ‘cammino del Cuore’. E vorrei leggere questa espressione in un duplice senso: è il cammino di Gesù, del suo Cuore sacro, attraverso il mistero di incarnazione, passione, morte e risurrezione; ed è anche il cammino del nostro cuore, ferito dal peccato, che si lascia conquistare e trasformare dall’amore… Non dimenticare questa parola: custodire. Questo è opera dello Spirito Santo: non c’è cammino del cuore con Cristo senza l’acqua viva dello Spirito Santo”.

Ugualmente ai dirigenti ed al personale dell’Ispettorato di Pubblica Sicurezza ‘Vaticano’ ha rivolto un invito ad attraversare la Porta Santa: “Vi invito ad approfittare della Porta Santa aperta nella notte di Natale nella Basilica di San Pietro, come pure di quelle aperte successivamente nelle altre Basiliche Papali di Roma. Attraversare la Porta Santa non è un atto magico; è un simbolo, un simbolo cristiano (Gesù stesso dice: ‘Io sono la porta’), un segno che esprime il desiderio di ricominciare, e questa è una bella saggezza: ricominciare, ogni giorno ricominciare”.

E’ stato un ringraziamento per il lavoro svolto: “Si tratta di un compito, il vostro, sempre esigente – lo so –, che necessita di prontezza e coraggio e che il più delle volte si svolge nella discrezione, senza essere notati, ma che presuppone abnegazione, cura di ogni dettaglio, pazienza e disponibilità al sacrificio. La sicurezza infatti è un bene invisibile della cui importanza ci accorgiamo proprio quando, per qualche ragione, essa viene meno, e che si costruisce nel continuo e intelligente impegno di sorveglianza, notte e giorno, per ogni giorno dell’anno”.

(Foto: Santa Sede)

Mons. Boccardo: il patrono san Ponziano dia un cuore ‘dilatato’ per vivere la speranza

“Noi ti benediciamo Signore, Padre buono, che hai dato al popolo di Spoleto il giovane Ponziano come testimone eroico del Vangelo di Gesù. L’esempio della sua vita costituisce per noi un prezioso patrimonio da custodire ed imitare. Accogli la preghiera fiduciosa che per sua intercessione ti rivolgiamo: donaci una fede ferma e gioiosa, una speranza salda, una carità sincera; conferma le nostre famiglie nell’amore e nella fedeltà; liberaci dai mali del corpo e dello spirito; guidaci nella costruzione della civiltà dell’amore, perché possiamo un giorno essere accolti nella tua casa e cantare per sempre la tua lode. Amen”: questa è la preghiera composta da mons. Renato Boccardo, vescovo della diocesi di Spoleto-Norcia, per il 1850° anniversario del martirio del patrono san Ponziano.

Ed in occasione della festa, celebratasi martedì 14 gennaio, mons. Boccardo ha inviato un messaggio alla città, invitando a non dimenticare l’identità ‘spoletina’: “In un’epoca di secolarizzazione spinta come quella che stiamo vivendo e nella quale sembrano venir meno i segni identitari, il Patrono è per tutti il ‘simbolo fondatore’ della memoria della comunità, la cui storia si è svolta tra passioni e lotte, tra ferite e vittorie, in un territorio che ha una sua propria identità ad un tempo civile e religiosa. Il civis (il cittadino) non è definito solo per l’uguaglianza dei diritti, ma anche e soprattutto per la diversità delle sue radici, che sono differenti tra Foligno, Terni, Perugia e Spoleto.

Spoleto è san Ponziano e san Ponziano è Spoleto. Con tutte le vicende che la storia ha visto scorrere in questi 1850 anni. Perciò bisogna parlare della ‘identità spoletina’ (qualcuno la definisce ‘spoletinità’), perché chi dimentica le radici perde il futuro. Un territorio è se stesso anche in virtù delle sue tradizioni e delle sue memorie: appunto perché non dimentica quello che è sempre stato, può affermare la sua tipicità e la sua consistenza pur nel continuo mutare delle forme politiche e sociali e delle condizioni di vita. Se non vogliamo perdere la nostra ricchezza umana e cristiana, cadendo in sterili campanilismi che dividono, dobbiamo ricuperare un’identità ricca capace di parlare agli altri. Parlare di san Ponziano, allora, è dire della memoria della nostra città e della nostra diocesi”.

Ed ha ricordato cosa significa ‘patrono’: “Il patrono è colui che ‘intercede’, cioè che ‘sta in mezzo’ e ‘cammina in mezzo’ al suo popolo, si prende cura della sua vita spirituale, ne sostiene la speranza, ne diffonde la carità, lo difende nel momento del pericolo, lo rincuora nel tempo della prova, lo sprona nel tempo delle passioni tristi”.

Mentre nell’omelia ha ricordato che la croce è la via della salvezza: “La croce è la chiave di volta della storia di salvezza e Gesù non può proporre altro; per questo pronuncia la parabola del chicco di grano che deve morire: il seme è Gesù che, con la sua morte di croce porterà frutto abbondante donando la vita a tutti gli uomini. Nasce da qui l’invito alla sequela: ‘Dove sono io, là sarà anche il mio servitore’.

San Paolo, scrivendo ai cristiani di Corinto, dice che quella comunità, suscitata dalla sua predicazione e dalla sua testimonianza, costituisce la sua vera lettera di presentazione, scritta con lo Spirito del Dio vivente. La lettera della Chiesa di Spoleto-Norcia è il martirio di san Ponziano, che l’ha battezzata nel sangue”.

E’ stato un invito a guardare alla vita del patrono: “Alla luce di questi insegnamenti, noi guardiamo oggi al giovane Ponziano come al discepolo che ha reso a Cristo la propria testimonianza pacifica con amore e inermità accettando il martirio…Con il suo sacrificio San Ponziano ci dice il primato assoluto di Cristo e del Vangelo; ci dice che solo nella croce si attua la piena liberazione dal male”.

E tutti possono vivere il martirio: “Non a tutti è dato il martirio di sangue, però a tutti i suoi discepoli Gesù chiede di donare la vita per amore del Padre e la salvezza dell’umanità. E’ dunque una forma di martirio anche la vita del discepolo che, accogliendo la legge della croce, si impegna a vincere ogni giorno il male con il bene, per annientarlo con il fuoco dell’amore e del perdono.

Tutti possiamo vivere così, in grazia del battesimo e della cresima che abbiamo ricevuto, lasciandoci raggiungere quotidianamente dalla luce del Vangelo e dal mistero dell’amore infinito della Trinità santa. E dall’Eucarestia possiamo attingere la forza e il nutrimento per ravvivare in noi e nelle nostre comunità questo mistero ineffabile che ci sospinge a fare della vita cristiana un dono per il mondo intero”.

Infine ha invitato a ‘coltivare’ un cuore ‘dilatato’ per generare speranza: “Oggi, anzi, ci dice una cosa nuova: se le nostre comunità vogliono guardare con fiducia e fierezza verso il futuro, lo potranno fare, anche in un tempo dove comunità religiosa e civile non si sovrappongono più, solo se sapranno farsi carico di tutti, se sapranno cioè custodire e coltivare quello che vorrei definire ‘un cuore dilatato’: dilatato per lo sguardo sulla vita delle persone e sui temi della convivenza civile; dilatato per la passione che promuove nuovi legami sociali;

dilatato per la cura del bene comune contro ogni particolarismo; dilatato per lo spirito di pace e di tolleranza; dilatato per il compito dell’educazione e del futuro dei giovani; dilatato per la carità rivolta verso tutti senza distinzione di provenienza, religione e appartenenze; dilatato per la condivisione del destino della città e del territorio; dilatato per il ‘supplemento d’anima’ di cui questo tempo, pieno di mezzi e povero di significati, ha estremamente bisogno non solo per star bene, ma per vivere bene.

Dobbiamo fare tutti insieme uno sforzo per rendere le nostre città e i nostri paesi belli, accoglienti, generosi e creativi. E così potranno ‘generare speranza’ anche in questo anno del Giubileo, attingendola alla certezza che ha sostenuto Ponziano nelle torture e nel martirio”.

(Foto: Diocesi Spoleto-Norcia)

Card. Zuppi ai vescovi: riscoprire la bellezza della preghiera

“Cari Confratelli, ci ritroviamo, pellegrini di speranza, all’inizio del 2025, ‘anno giubilare’, tempo davvero opportuno per capire la ‘Lectio’ che sono i segni dei tempi e trasformarli in segni di speranza. E’ un Giubileo ordinario che tuttavia assume per noi un valore speciale per via di una serie di congiunture storiche della nostra Chiesa e della società. E’ una provvidenza. Il suono dello Jobel, il corno di ariete, segnava l’inizio di una celebrazione religiosa, come appunto l’anno giubilare”: così è iniziata la prolusione del presidente della Cei, card. Matteo Zuppi, arcivescovo della diocesi di Bologna, che ha aperto la sessione invernale del Consiglio Episcopale Permanente.

La scelta di suonare lo jobel è compito dei ‘pastori’: “A noi, pastori e sentinelle del gregge, spetta il compito di suonare oggi idealmente questo strumento per richiamare l’attenzione sui segni di speranza già presenti nelle nostre comunità e che attendono di essere ulteriormente custoditi e sviluppati”.

Riprendendo l’omelia natalizia di papa Francesco il card. Zuppi si è soffermato sulla quotidianità dell’annuncio: “Quanto è importante fissare un nuovo ‘oggi’!.. E l’oggi si manifesta come un giorno diverso dagli altri, opportuno, che dobbiamo sapere contemplare per cambiare. Oggi! La scelta, davvero provvidenziale, del Giubileo, del tema giubilare e le parole del papa, hanno colto (mi pare) una sete diffusa tra tante persone, che non trovano o non sanno come cercare risposte”.

E si è soffermato sulle aspettative della gente: “Confrontandomi con alcuni di voi, ho avuto la chiara percezione che molta gente, più del consueto e delle nostre stesse aspettative, sia stata attratta dalla liturgia dell’apertura della Porta Santa, seguita con attenzione e partecipazione, bisogno evidente di sentire personalmente quel che ha detto il papa, eco della Parola di Dio: C’è speranza anche per te! C’è speranza per ognuno di noi”.

Per questo il Giubileo è un’occasione: “Le porte delle nostre chiese sono sempre aperte a tutti, ma l’oggi del Giubileo ha creato un’occasione opportuna. Ci sono segni che hanno una grande capacità di comunicare e rompono il muro dell’indifferenza, del fatalismo, della rassegnazione che genera paura della vita. La vita sociale e la temibile logica del consumismo offrono tanti segni, spesso effimeri e ingannevoli perché facili e senza prezzo.

La speranza ha sempre un prezzo di pazienza e di sacrificio. La Chiesa, nei forzieri della sua tradizione e della sua preghiera, conserva tanti segni eloquenti, che non sono logori o d’altri tempi. In essi si esprime un messaggio forte, di cui essere gioiosamente consapevoli e che il Giubileo e il Sinodo ci stimolano a riscoprire”.

Tale speranza trova forza nella bellezza della preghiera: “C’è una forza attrattiva della bellezza della vita e della preghiera della Chiesa che chiede semplicemente di essere regalata, trasmessa, spiegata. Le Chiese dell’ex Unione Sovietica hanno resistito in decenni di terribile persecuzione antireligiosa e di dittatura comunista (con tanti martiri), solo celebrando la liturgia nello spazio delle chiese rimaste aperte. Padre Tavrion, un monaco russo che aveva passato tanti anni nel gulag sovietico ma che ha potuto finire la sua vita in monastero, ha espresso un segreto della liturgia conservato nella tradizione delle Chiese ortodosse: se noi non mostriamo la bellezza, la gente non verrà da noi”.

E’ un invito ad essere buoni amministratori: “Certo, bisogna essere amministratori consapevoli della ricchezza e della bellezza del messaggio della fede e di come questo si comunica al di là del nostro protagonismo. Non bisogna pensare che abbiamo poco da dare o da dire, talvolta finendo per celebrare con sciatteria o ricercando modalità da spettacolo, credendo che quel che diamo e diciamo alla fine interessa poco.

Ci si è riproposta la domanda di speranza, di qualcosa di nuovo in un mondo e in una vita vecchia; di pensarsi insieme, di essere perdonati e non sommersi da banali parole di benessere; di trovare una porta aperta che faccia entrare nella luce uscendo da un buio insopportabile e drammatico come quello della guerra, della solitudine, della violenza, dell’ombra di morte che avvolge l’anima. Nel deserto c’è più sete di senso e di Dio”.

Ma ha messo in guardia dalla falsa speranza, come il gioco d’azzardo: “Lo stesso gioco d’azzardo, in periodi difficili dell’esistenza, tra le fasce più fragili della popolazione, diventa una vera dipendenza con drammatiche conseguenze sulla vita delle persone, nell’illusione, purtroppo coltivata e perfino incentivata, di star meglio, di essere felici o di essere vincenti. Nel 2023 sono stati spesi quasi 150 miliardi nel gioco d’azzardo ed è una cifra sempre in crescita.

Occorre una forte azione educativa per liberare da quella che facilmente diviene una vera dipendenza: per questo, serve il coinvolgimento delle aziende dell’azzardo e anche lo Stato deve mettere sempre al primo posto la salute dei cittadini. La campagna ‘Mettiamoci in Gioco’ e la Consulta Nazionale Antiusura ricordano che è possibile affrancare da quello che non è un gioco, ma una schiavitù”.

Ha sentito anche la responsabilità di creare condizioni per l’ascolto della Parola di Dio: “Sento la responsabilità di creare o rafforzare percorsi che portino all’incontro con la Parola di Dio e con il Vangelo, favorendo l’ascolto e la lettura personale… Si deve diffondere la devozione alla sacra pagina del Vangelo e della Scrittura, in maniera larga, popolare, non elitaria. Non si tratta, infatti, di circoli ristretti, ma di dare la Bibbia al popolo e guidarlo alla sua lettura. Questo è alla base di un rinnovamento della spiritualità, di quella spiritualità di cui c’è la sete che ci pare di aver colto. Una spiritualità che, senza perdere il suo carattere popolare, non deve essere solo devozionale ma biblica. Questo comporta anche accompagnare nella ricerca di risposte sulla preghiera”.

Insomma ha chiesto che i fedeli siano accompagnati nella preghiera: “Bisogna accompagnare nella via della preghiera, insegnando come il Vangelo, i Salmi, la Bibbia siano essi stessi una grande scuola di preghiera. Questo vuol dire anche trovare nelle nostre parrocchie non solo sacerdoti, ma ministri come i Lettori, donne e uomini spirituali che aiutino in questa scuola di preghiera, e pure gli spazi necessari.

Significa, almeno un po’, santuarizzare le nostre parrocchie, non solo come centri di attività e luoghi di liturgia, ma anche come spazi di silenzio, di devozione e di preghiera. È una dimensione attiva della speranza. Di più: san Tommaso ricorda che la preghiera è l’autentica lingua e la credibile interpretazione della speranza”.

Ecco il motivo per cui il card. Zuppi ha chiesto di non stancarsi di annunciare il Vangelo: “Per questo, ci si preoccupa di far circolare, nei modi opportuni e possibili, sempre con tanta umanità e amabilità, senza proselitismo, il messaggio cristiano nell’umano discorso tra tutti. Questo interpella soprattutto i laici nella vita quotidiana, nell’amicizia con ognuno, nel relazionarsi quotidiano.

Coinvolge la Chiesa a intervenire nelle diverse occasioni di dibattito e di incontro. Tanta gente che cerca senso e risposte (una realtà grande che non va sottovalutata) ha bisogno di trovare interlocutori. E questi sono i laici nella vita quotidiana. E’ il loro grande compito”.

Citando Jean Guitton il presidente della Cei ha sollecitato i cattolici ad essere una ‘minoranza’ felice: “Mi piacerebbe che l’anno giubilare costituisse il tempo in cui riflettiamo e maturiamo insieme non la volontà di essere una ‘minoranza0 triste, ma il coraggio di diventare ‘minori’ felici, nel senso in cui la spiritualità francescana ci ha spiegato questa idea. Diventare ‘minori’, cioè piccoli, è la via evangelica per guardare il mondo come i piccoli, per riconoscere e legittimare i piccoli, per far crescere i piccoli per compiere le ‘grandi cose’ degli umili”.

E’ stato un invito alle diocesi a mettersi a servizio dei poveri: “Penso, quindi, al Giubileo come a un tempo in cui individuare i piccoli delle nostre Diocesi e metterci al loro servizio, perché cresca in loro la speranza e si prepari così anche il Regno di Dio. Penso alle persone con disabilità e alle loro famiglie. Penso alle vittime di abusi, la cui sofferenza portiamo nel cuore e ci impegna con rigore nel contrasto e nella prevenzione. Penso ai carcerati”.

Per questo ha richiesto la remissione del debito dei Paesi poveri: “Il Giubileo può diventare una occasione per tornare a bussare alla porta dei Paesi ricchi, compresa l’Italia, perché rimettano i debiti dei Paesi poveri, che non hanno modo di ripagarli. Qui vivono milioni di persone in condizioni di vita prive di dignità. Si badi che i debiti degli Stati sono talora contratti con privati: la Chiesa non può non far sentire la sua voce perché si stabilisca una equità sociale e i pochi straricchi non profittino della loro posizione di vantaggio per influenzare la politica per i propri interessi”.

E la remissione del debito è collegata alla pace: “Strettamente intrecciato al tema dell’economia è quello della pace. Uno dei segni dei tempi più drammatico è infatti quello della guerra. La Chiesa italiana innalza a Dio la preghiera perché il Giubileo offra l’opportunità per raggiungere i tanti attesi e indispensabili negoziati che trovino soluzioni giuste e durature, con una forte ripresa della presenza della comunità internazionale e del multilateralismo e degli strumenti necessari per garantire il diritto e non il ricorso alle armi per risolvere i conflitti. La tregua raggiunta in Terra Santa ci auguriamo che rafforzi la pace e avvii un nuovo processo che porti ad un futuro concreto”.

E’ stato un invito preciso ad un percorso di riconciliazione in Terra Santa: “La Chiesa in Italia è vicina a Israele perché possa riabbracciare finalmente i propri cari rapiti, avere la sicurezza necessaria e continuare a lottare contro l’antisemitismo che si manifesta dentro forme subdole e ambigue. La recente Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei ha avuto come tema proprio il Giubileo, nella consapevolezza che solo l’amicizia e il dialogo continueranno a rendere saldo il nostro rapporto per quanto ci riguarda costante e affatto indebolito.

Già in passato sono intervenuto con chiarezza condannando fenomeni di risorgente antisemitismo, mai accettabili. La Chiesa in Italia è vicina ai palestinesi e alla loro sofferenza perché si possa finalmente avviare un percorso che permetta a questo popolo di essere riconosciuto nella sua piena dignità e libertà. Sono in gioco interessi sempre più elevati nella produzione e nel commercio di armi”.

Infine uno sguardo sui migranti con la valorizzazione dei corridoi umanitari: “E’ evidente la necessità di non indebolire la cultura dei diritti dei richiedenti asilo e dei rifugiati, offrendo regole di diritti e doveri sicuri, flussi e canali che permettano l’ingresso dei necessari lavoratori, che non sono mai solo braccia, ma persone che richiedono politiche lungimiranti di integrazione. L’esperienza dei corridoi umanitari e lavorativi è da valorizzare perché garantisce dignità e sicurezza a chi fugge da situazioni drammatiche.

Le Diocesi italiane, con il loro impegno, sono un faro di accoglienza per oltre 146.000 persone di origine straniera. Accanto ai corridoi umanitari, lavorativi e universitari sono un esempio concreto di come sia possibile conciliare il diritto a migrare con l’integrazione e lo sviluppo locale. Negli ultimi anni, tra le molteplici esperienze di accoglienza, si è sviluppato un nuovo approccio che tiene insieme la richiesta di sicurezza, il desiderio di solidarietà e l’esigenza di andare incontro ai bisogni delle persone migranti. Insomma: liberi di partire, liberi di restare e liberi di tornare, uscendo finalmente da una logica esclusivamente di sicurezza, questione evidentemente decisiva, per rafforzare la cooperazione, in particolare con l’Africa”.

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