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Padre Nardelli: ripartire dalla Costituzione dogmatica ‘Lumen gentium’

“Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15), illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa. E siccome la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano, continuando il tema dei precedenti Concili, intende con maggiore chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la propria natura e la propria missione universale. Le presenti condizioni del mondo rendono più urgente questo dovere della Chiesa, affinché tutti gli uomini, oggi più strettamente congiunti dai vari vincoli sociali, tecnici e culturali, possano anche conseguire la piena unità in Cristo”.

Questo è l’inizio della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, ‘Lumen Gentium’, emanata il 21 novembre 1964, che costituisce la ‘chiave di volta’ di tutto il magistero conciliare, come affermò papa san Giovanni Paolo II prima della recita dell’Angelus di domenica 22 ottobre 1995: “Grande merito della ‘Lumen Gentium’ è di averci ricordato con forza che, se si vuol cogliere adeguatamente l’identità della Chiesa, pur senza trascurare gli aspetti istituzionali, occorre partire dal suo mistero. La Chiesa è mistero, perché innestata in Cristo e radicata nella vita trinitaria. Gesù, il Verbo di Dio fatto uomo, è la ‘luce’ che risplende sul volto della Chiesa”.

A 60 anni dalla pubblicazione con p. Fabio Nardelli, docente di Ecclesiologia all’Istituto Teologico di Assisi ed alla Pontificia Università Antonianum di Roma, nonché assistente alla Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense di Roma, abbiamo cercato di sottolineare i punti di forza di questa Costituzione dogmatica e soprattutto il motivo, per cui papa Francesco ha chiesto un approfondimento sulla ‘Lumen gentium’ in vista del Giubileo:

“In preparazione all’anno giubilare, papa Francesco ha chiesto di dedicare una particolare attenzione alle quattro Costituzioni del Concilio Vaticano II, quale occasione per crescere nella fede. In realtà, come è noto, tale evento è stato realmente un faro per il pensare e l’agire ecclesiale, e quindi non è inopportuno riprendere in mano quegli insegnamenti per applicarli in un contesto che, dopo circa 60 anni, è chiaramente mutato. La Costituzione dogmatica ‘Lumen gentium’ è stata definita la ‘magna charta’ conciliare e la sua ricchezza teologica è ancora una guida attuale nel contesto ecclesiale sinodale che la Chiesa attraversa, in quanto ‘Popolo di Dio’ in cammino verso il Regno”.

In cosa consiste la ‘luce della Chiesa’?

“Nella Costituzione forte è il riferimento cristologico, in quanto il Cristo è definito la ‘luce delle genti’ che risplende sul volto della Chiesa. In realtà è noto che, secondo l’interpretazione di alcuni, il Concilio Vaticano II intendeva correlare il discorso sulla Chiesa a quello sul Figlio, ma nello stesso tempo non poteva parlare di Cristo senza parlare del Padre, mettendosi in ascolto dello Spirito. Per questa ragione l’ecclesiologia cristologica del Concilio si è necessariamente allargata alla dimensione trinitaria ( LG 2-4). Si può pertanto dire che ogni discorso sulla Chiesa è necessariamente ‘subordinato’ al discorso su Dio e quindi non deve stupire che anche i testi del Concilio, e in particolare la Costituzione dogmatica ‘Lumen gentium’, propongano una ecclesiologia propriamente teologica”.

Dalla Costituzione dogmatica ‘Lumen gentium’ al recente Sinodo dei vescovi: perché la vocazione della Chiesa è profezia?

“La Costituzione ‘Lumen gentium afferma che ‘il Popolo santo di Dio partecipa pure alla funzione profetica di Cristo, quando gli rende una viva testimonianza, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità’ (LG 12). La missione profetica di Cristo è estesa, quindi, a tutti i battezzati secondo le indicazioni della Scrittura (Gl 3,1-5; At 2,17-18). Pertanto la funzione profetica non è più riservata solo ad alcuni, come ‘ufficio di pochi’, ma è un attributo di tutta la comunità dei credenti che, in forza del Battesimo, diventa ‘popolo di profeti’ che annuncia e testimonia il Vangelo”.

Quanto è importante la Chiesa domestica nel tramandare la fede?

“La Costituzione dogmatica ‘Lumen gentium’ utilizza l’espressione ‘Chiesa domestica’ per esplicitare il modo di esercizio del sacerdozio comune di ogni battezzato e, in particolare, dei coniugi cristiani (cfr. LG 11). L’immagine individua e sottolinea in modo specifico il compito essenziale della famiglia nella Chiesa che è, sempre, quello di ‘custodire’ e ‘trasmettere’ la fede. In questo modo, nell’attuale contesto ecclesiale, infatti, viene ribadita la chiamata per ogni battezzato ad annunciare il Vangelo. La dimensione relazionale, e quindi familiare, chiaramente messa in luce dal Documento finale del Sinodo, è già presente nella Costituzione ecclesiologica e rimanda alla realtà della primitiva comunità cristiana descritta nel libro degli Atti (cfr. At 2,42-47)”.

Per quale motivo la Costituzione dogmatica ‘Lumen gentium’ sottolinea il carattere missionario della Chiesa?

“L’ecclesiologia della Costituzione dogmatica può essere definita missionaria nelle sue più intime fibre, in quanto le principali categorie che il testo considera in chiave missionaria sono quelle di Popolo di Dio (sacerdotale, profetico e regale), sacramento, popolo messianico e, certamente, di ‘popolo missionario’ (cfr. LG 17). La Costituzione dogmatica ‘Lumen gentium’, quindi, ha presentato l’indole essenzialmente missionaria della Chiesa a partire, proprio, dal fondamento teologico della sua natura, di cui indica la finalità specifica. Se volessimo sintetizzare la visione missionaria della Costituzione dogmatica, si potrebbe affermare che il documento intende enunciare il fondamento trinitario della missione, la sua manifestazione nelle ‘realtà locali’ attraverso la prassi dell’inculturazione, la destinazione universale del suo messaggio di salvezza e la corresponsabilità di tutto il Popolo di Dio all’azione di evangelizzazione”.

Dopo 60 anni quale è l’attualità di questa Costituzione dogmatica?

“Il testo risulta particolarmente attuale perché richiama alla dimensione comunionale e missionaria che il recente Sinodo ha messo in evidenza, domandandosi ‘come essere Chiesa sinodale-missionaria’. Il valore della Costituzione ecclesiologica è perennemente vivo, in quanto il documento nasceva in un contesto in cui la Chiesa aveva bisogno di riflettere sulla sua identità e, oggi, dopo 60 anni riafferma tale identità missionaria in quanto ‘Popolo di Dio’ in cammino verso il Regno. Riscoprire i contenuti dottrinali e pastorali di questo documento conciliare è particolarmente urgente nell’epoca attuale”.

(Tratto da Aci Stampa)

Da Pescara un impegno condiviso contro l’odio, per rammendare il mondo

Con grande entusiasmo e partecipazione si è concluso il GariwoNetwork 2024, evento che ha riunito centinaia di persone a Pescara, presso l’Auditorium Flaiano e gli spazi dell’Aurum, per due giornate di riflessione, dialogo e impegno. Una manifestazione che, partendo dal tema del ‘rammendare il mondo’, ha chiamato a raccolta giovani, educatori, intellettuali e referenti della rete internazionale dei Giardini dei Giusti per confrontarsi su come affrontare le sfide del nostro tempo: divisioni, odio, ingiustizie e crisi ambientale.

I rappresentanti di oltre 80 giardini dei Giusti (compresi quelli in Ruanda e Polonia) e circa 700 persone che hanno assistito alla plenaria e a gli altri momenti della due-giorni hanno vissuto un GariwoNetwork storico per tanti motivi, tra cui:

a) la prima volta lontano da Milano, in un’area culturalmente sempre più viva come quella della costa abruzzese, dove i partecipanti sono stati accolti in maniera encomiabile dal Comune di Pescara e dal suo sindaco, dalla Fondazione PescaraAbruzzo e da tutte le persone coinvolte nell’organizzazione. A Pescara – grazie anche all’instancabile lavoro di Oscar Buonamano, consigliere nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e ambasciatore di Gariwo proprio nella città abruzzese, nascerà un nuovo Giardino dei Giusti che fungerà da raccordo per tante altre realtà del centro-sud intenzionate ad entrare nella rete di Gariwo;

b) durante il Network di Pescara è stato firmato un memorandum d’intesa tra l’Ufficio del Consigliere speciale delle Nazioni Unite per la prevenzione del genocidio e la Fondazione Gariwo: da oggi lavoreranno congiuntamente per prevenire i genocidi attraverso progetti educativi e i Giardini dei Giusti.

L’evento si è aperto nell’Auditorium Flaiano con una plenaria di grande intensità. Le parole di benvenuto del sindaco di Pescara, Carlo Masci, hanno evocato la metafora del pescatore che, all’alba, ricuce le reti strappate per continuare a pescare: un’immagine perfetta per descrivere il lavoro quotidiano dei Giusti, che curano le ferite dell’umanità. Il presidente della Fondazione Gariwo, Gabriele Nissim, ha inviato un messaggio di grande significato, nonostante la sua assenza per motivi di salute:

“Oggi viviamo in un mondo in crisi un mondo che ha perso l’idea di collaborazione, segnato dal ritorno di nazionalismi e autocrazie. I Giardini dei Giusti, oggi, possono essere la base per ricostruire una nuova utopia, come è accaduto nel passato. Non sono monumenti, ma strumenti educativi per prevenire quegli strappi che poi, con fatica, vanno rattoppati”.

Le parole di Alice Wairimu Nderitu, special adviser delle Nazioni Unite per la prevenzione dei genocidi, hanno arricchito ulteriormente il dibattito. Sebbene impossibilitata a partecipare, ha inviato un messaggio, letto da Simona Cruciani, in cui ha ricordato il potere universale dei Giusti. “I Giusti – ha scritto Nderitu – con le loro azioni riuniscono e aggiustano le parti spezzate del mondo, ispirando il bene in luoghi anche molto lontani da noi. I principi su cui si fonda il concetto di Giusto sono universali e ci rimandano alla Carta delle Nazioni Unite, alla Convenzione per la Prevenzione e la Punizione del Crimine di Genocidio e alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”.

La mattinata si è conclusa con la partecipazione appassionata degli studenti, che hanno rivolto numerose domande agli ospiti presenti, dimostrando un forte interesse per il ruolo dei Giusti e il loro valore educativo. Nel pomeriggio, i workshop intitolati “La scelta” hanno esplorato temi cruciali come i Giusti dell’ambiente, i Giusti dello sport e la filosofia dei Giusti. Filippo Giorgi, climatologo e premio Nobel per la Pace nel 2007 con IPCC, ha sottolineato che “non c’è giustizia sociale senza giustizia ambientale”, mentre Joanna Borella, allenatrice e presidente di A.S.D. Bimbe nel Pallone, ha raccontato come smontare il razzismo nello sport, promuovendo inclusione e abbattendo pregiudizi. Chiudendo la giornata, Erminio Maglione, ricercatore in Storia della filosofia, ha spiegato qual è la filosofia dei Giusti: “Il Giusto è un silenzioso quanto pervicace presidio contro gli orrori che possono nascere nell’uomo”.

La seconda giornata ha visto i lavori proseguire presso l’Aurum, con il laboratorio dedicato ai referenti della Rete dei Giardini dei Giusti. Grazie alla guida esperta dei facilitatori di JoyLab, i partecipanti hanno discusso e condiviso buone pratiche per rafforzare la rete globale dei Giardini. Questo momento di scambio ha rappresentato una straordinaria opportunità per generare nuove idee e sinergie.

Nel pomeriggio, la tavola rotonda conclusiva, intitolata “Ogni persona può rammendare il mondo”, ha riunito ospiti di spicco: Eraldo Affinati, scrittore e cofondatore della scuola Penny Wirton; Simona Cruciani delle Nazioni Unite; Claudia Mazzucato, docente di Diritto penale; Franco Vaccari, presidente di Rondine Cittadella della Pace; e Nicola Mattoscio, presidente della Fondazione Pescarabruzzo. Moderati da Oscar Buonamano, gli interventi hanno intrecciato storie, riflessioni e testimonianze che hanno toccato profondamente il pubblico.

Eraldo Affinati ha ricordato che ‘non dobbiamo idealizzare il Giusto’, portando esempi di ragazzi ordinari che, con azioni concrete, rammendano il tessuto sociale: Michelle, una giovane madrelingua che insegna italiano a minori non accompagnati, e Giorgio, uno studente ribelle che si trasforma in un pedagogo nei progetti della Penny Wirton. Per Affinati, è fondamentale riconoscere e valorizzare chi si assume responsabilità in contesti difficili.

Claudia Mazzucato ha parlato del legame tra Giusti e giustizia riparativa, definendo quest’ultima come ‘un rammendo che unisce i lembi spezzati, tessendo relazioni, persino tra nemici’. Ha ammonito contro i pericoli del giustizialismo, sottolineando che ‘anche la giustizia, se portata all’estremo, può diventare radicalizzazione’.

Franco Vaccari ha presentato il lavoro di riconciliazione di Rondine, ricordando che “finché l’altro è solo un nemico non si rammenda niente, perché non ci consideriamo della stessa stoffa. Dire sì alla pace è la vera svolta per il cambiamento”.

L’evento si è chiuso con l’intervento di Martina Landi, direttrice generale di Gariwo, che ha portato i saluti del presidente Nissim, assente per motivi di salute, e ha ringraziato tutti i partecipanti per aver contribuito a due giorni di straordinaria intensità: “Il Giusto non giudica, non soppesa. Il Giusto cura. Ed è grazie a questa cura che possiamo costruire un mondo migliore”.

In apertura lo storico Marcello Flores ha descritto le caratteristiche dei discorsi dell’odio: “Ecco, i discorsi di odio oggi hanno le stesse caratteristiche: si fondano al tempo stesso su un’idea di inevitabile discriminazione; su una convinzione che non è di tutti, ma solo di poche minoranze, ma che contagia anche una maggioranza. Lo vediamo, cresce il razzismo, cresce l’antisemitismo e crescono anche tutte quelle forme di odio e avversione verso gruppi di persone ritenute responsabili del nostro disagio o dei nostri mali collettivi.

Questi sentimenti vengono, poi, cavalcati anche dai Governi e dai singoli politici. Anche del nostro Paese, ci sono esponenti politici che, a volte, usano esattamente le stesse parole, pur con qualche piccola modifica, che Hitler aveva usato nel Main Kampf contro gli ebrei. E queste parole d’odio le rivolgono a determinati gruppi di persone”.

Contro tali discorsi le azioni che ognuno può intraprendere: “Ognuno di noi può fare qualcosa, ognuno di noi, nel proprio quotidiano, a partire dalla propria famiglia, nel proprio mondo di lavoro, quando incontriamo altre persone, ma ancora di più quando siamo sui social. È possibile e doveroso intervenire ogni volta che c’è un accenno, anche solo un accenno da parte di qualcuno, a un linguaggio d’odio. Questo è fondamentale, perché, se non c’è questa reazione immediata che mette alla berlina coloro che fanno queste affermazioni, il rischio è che invece, poi, quelle affermazioni si propaghino”.

(Foto: Gariwo)

XXXIV Tempo Ordinario: Solennità di Cristo Re e Signore dell’Universo

La festa di Cristo Re e Signore dell’Universo è l’evento fondamentale annunciato da Gesù stesso: Egli è il Re atteso  (il Messia) ed inaugura il Regno di Dio attraverso la sua  presenza ed opera .  Interrogato da Pilato, esplicitamente afferma: ‘Io sono Re’, mentre la folla grida: ‘è reo di morte’.   L’attuale festa (istituita nel 1925) ha profonde radici bibliche e teologiche; il titolo di Cristo Re ci permette di cogliere in modo chiaro la missione di Cristo Gesù re dei Giudei e Signore dell’universo, come Egli stesso  dirà dopo la risurrezione: ‘A me è stato dato ogni potere in cielo e in terra’ (Mt. 28,18). Pilato chiede a Gesù: ‘Tu sei re dei Giudei?’ 

Gesù, legittimamente richiesto, deve necessariamente affermare la propria regalità: ‘Tu lo dici, io sono Re’, salvo poi precisare la natura esatta di questa regalità: “il mio regno non è di questo mondo”, è in questo mondo ma non è di questo mondo. I re della terra hanno eserciti ed armi per combattere, Gesù è vero Re dei Giudei, titolo che equivale a Re Messia e Gesù non può negarlo; la diversità del suo regno appare chiaro perchè attorno a sé non ha sudditi ma uomini liberi che Egli chiama ‘amici’.

Il brano del Vangelo oggi ci presenta il grande processo della storia: davanti si trovano due personaggi Pilato e Gesù; Pilato rappresenta la forza e la potenza terrena  (rappresenta Roma e l’impero romano); Gesù è la verità divina nella quale si muove ed agisce il Cristo. Pilato è la signoria della potenza acquistata con le armi, lo spargimento di sangue e di tante vite umane; Cristo Gesù è la signoria dell’amore, una signoria che non si impone con la violenza ma cresce e si espande   con le testimonianza dell’amore.

Davanti a Pilato Gesù non accusa,  non protesta, non si difende  e non esita a proclamarsi re. Il suo silenzio fa quasi tremare Pilato, l’uomo potente che ha il potere nelle mani, potere decisionale di vita o di morte, eppure è vittima della paura, schiavo degli umori della folla che grida minacciando: se lo liberi ti accuseremo a Cesare. Gesù, condannato nel pretorio di Pilato, incute paura a tutti vivo e morto.

La verità è una sola: la regalità di Gesù è diametralmente opposta a quella mondana di Pilato. Il mio Regno, evidenzia Gesù a Pilato, non è di questo mondo: Gesù infatti non viene a dominare ma a servire; la regalità di Gesù è al di là dei parametri umani. Gesù non vuole attorno a sé servilismo ma uomini liberi e responsabili.

E’ la verità che ci fa uomini liberi, e la verità di Gesù non è una idea ma una realtà: Io sono la Via, la Verità e la Vita; solo stando dalla parte di Gesù e seguendo la sua parola l’uomo sperimenta la verità di Dio. Gesù, condannato a morte nel pretorio di Pilato, incute paura a tutti sia da vivo che da morto: a) paura a Pilato, costretto  a dichiarare la sua innocenza e a lavarsi le mani dicendo: sono innocente del suo sangue; b) paura ai capi del popolo e al sinedrio che vedono squarciarsi il velo del tempio da cima a fondo; c) paura al centurione romano che lo assiste al calvario sino alla morte e va via dicendo: costui era veramente il figlio di Dio; d) paura a Giuda, il traditore, che corse ed andò ad impiccarsi ad un albero.

Gesù è il vero Re ma il suo regno non trova riscontro nelle categorie politiche umane: un regno contro la falsità perchè Egli è il Re della verità: ‘Sono venuto nel mondo per rendere testimonianza della verità: chiunque è dalla verità ascolta la mia voce’.

Un regno contro gli egoismi e gli odi: Egli è il re dell’amore. Gesù rifiutò il titolo di Re, quando questo era inteso in senso politico, alla stregua dei ‘capi della nazione’, ma, interrogato ufficialmente da Pilato, rispose: ‘Tu lo dici, sono re, ma il mio regno non è di questo mondo’, rivendicando così la sua regalità. 

Il pontefice san Paolo VI, intrepido difensore della regalità di Cristo contro il relativismo imperante, affermò con forza e tenacia la verità regale di Cristo Gesù instaurando l’autentico umanesimo cristiano. In che cosa consiste il suo potere regale? Il potere di dare la vita eterna, liberare dal male, sconfiggere il dominio della morte.

E’ il potere dell’amore che sa ricavare il bene anche dal male, la bontà anche dai cuori più induriti. Un regno che si impone ma rispetta la libertà di ciascuno: ogni uomo rimane libero di allearsi con Cristo o contro Cristo, di praticare la giustizia o l’iniquità, di abbracciare l’amore e il perdono o preferire la vendetta e l’odio omicida.

Sta a me e a te, amico che leggi o ascolti, rispondere a Dio non con  parole ma con  fatti concreti. Dio è sempre quel buon pastore che cerca la pecorella smarrita ma è anche giudice giusto dei vivi e dei morti. Gesù ha il diritto di regnare;  noi, che siamo la sua  Chiesa, abbiamo il dovere di estendere la sua regalità  nel cuore di tutti con la testimonianza missionaria.  La nostra preghiera: ‘Venga, Signore, il tuo  Regno di luce’.

Umberto Folena: l’umorismo aiuta a comprendere la realtà

Ogni notte, immancabilmente, il gallo Carletto cantava. Ma quella notte, e le notti seguenti, non canto?; ed all’alba seguente apparivano su muri e serrande di Tretronchi misteriose lettere scarlatte…Il parroco don Ulisse con la sorella Elvezia, il sindaco Achille con la figlia Alice, il barbiere Tarcisio, il vecchio Bortolo e le suore Leopoldine, e i potenti del paese, Bragadin e il Cavaliere… Sono dozzine gli abitanti di Tretronchi, borgo immaginario del Veneto pedemontano, che affollano il primo romanzo di Umberto Folena, editorialista di Avvenire, ‘La notte in cui Carletto non cantò’.

Si incontrano, si scontrano e affrontano piccole grandi imprese, raccontate con affetto e umorismo in questo romanzo presentato a Tolentino su invito del circolo culturale ‘Tullio Colsalvatico’: “Carletto non aveva cantato, quella notte. Carletto era un gallo problematico ma non per colpa sua, e poi bastava abituarsi: lui cominciava a schiarirsi l’ugola a mezzanotte, alle due aveva le tonsille calde e alle tre e mezza dava il meglio di sé. All’alba si addormentava spossato avvolto nel sonno dei giusti, lasciando agli altri galli di Tretronchi il compito di fare i galli secondo contratto, tradizione e prevedibilità”.

Ed ha spiegato la genesi del romanzo: “Si potrebbe definire un romanzo su commissione, perché gli amici dell’editrice Ancora mi hanno chiesto di ricreare in un romanzo un mondo simile a quello di Guareschi. Ci ho provato, anche se tutto è cambiato in questi 70 anni, puntando a scrivere un racconto corale, di popolo, ambientato in un paesino del Veneto pedemontano di oggi”.

Missione ambiziosa, affrontata ‘con grande divertimento’, perché l’autore si è immerso con la sua straripante fantasia dentro questo piccolo borgo dal nome faticoso, ‘in cui non succede mai niente’ (a parte l’enigmatico silenzio del gallo per tre giorni) e lo ha popolato di una ventina di personaggi (dal barbiere all’immigrato, tutti citati nelle prime pagine in rigoroso ordine alfabetico) che abitano e animano in verità tutte le parrocchie italiane, non solo quelle venete.

Umberto Folena perché Carletto non cantò più?

“Carletto è un gallo, che ha la buona abitudine di cantare tutte le notti tra le 3 e le 4 e non al mattino, come i galli normali. Però ad un certo punto inizia a non cantare e quando non canta significa che nel paese di Tretronchi sta per accadere qualcosa di sgradevole. Tretronchi è il paese immaginario della pedemontana veneta, dove sono ambientati i miei romanzi”.

Perché il romanzo riprende la struttura del ‘piccolo mondo’ di Guareschi?

“Mi sono innamorato di ‘piccolo mondo’, ma non mi paragono a Guareschi. L’editore, che mi ha commissionato questo romanzo, mi ha chiesto di provare a narrare il ‘mondo piccolo’ di Guareschi, 70 anni dopo. Don Camillo e Peppone non esistono più nell’Italia dei nostri tempi. Ho tentato di mettere in scena un ‘popolo’ con circa 60 personaggi di Tretronchi in una specie di romanzo popolare, non solo perché si rivolge a tutti, ma soprattutto perché il popolo è protagonista:

è la rappresentazione di una comunità, che cerca di essere comunità, ossia di contrastare tutte le spinte che cercano di fare diventare gli individui soli, isolati ed ansiosi; quindi più controllabili. Invece, il tentativo di alcuni è quello di ricostruire legami sempre più forti di comunità e creare tutto ciò che può aiutare la comunità a vivere ed a produrre. Da una parte ci sono i costruttori e dall’altra i distruttori: questo è un confronto titanico nello scenario planetario, nel microcosmo di Tretronchi questo scontro c’è ed è rappresentativo di uno scontro più ampio”.

In quale modo la scrittura può essere divertente?

“La scrittura è divertente, quando l’autore si diverte a scrivere. Mi sono divertito molto, anche se ciò non è una garanzia che chi mi leggerà si divertirà, ma certamente è la prima condizione che il libro sia divertente: io mi sono divertito molto a scrivere. Poi uso tecniche, imparate in 40 anni di giornalismo, per rendere la lettura più scorrevole possibile. Per rendere la scrittura leggibile ci sono anche tante norme da applicare, aldilà del dono di natura”.

Cosa è l’umorismo nella scrittura?

“L’umorismo nella scrittura consiste nello strappare un sorriso e saper individuare i paradossi e saper cogliere le contraddizioni. Occorre saper essere ironici, perché l’ironia è un’arte sottile;  troppo forte sconfina nel sarcasmo ed è distruttiva; troppo debole non viene compresa e non funziona. E’ questione di equilibrio, come quando guidi la macchina; oppure quando cucini un piatto. L’ironia è qualcosa di analogo; occorre innanzitutto ridere di se stessi. L’autoironia è la condizione, perché possa sorridere di un altro e di una situazione particolare. Trovare i paradossi e non prendersi completamente sul serio ci salvano dall’ansia, dalla disperazione e dall’arroganza. Gli arroganti sono incapaci di ironia”.       

XXXIII  Domenica Tempo Ordinario: in marcia verso il Regno dei cieli!

La Liturgia oggi ci annuncia una grande novità che riguarda ciascuno di noi; appare duro pensare a queste cose ma è certo che questo mondo presto finirà: è necessario allora pensare, riflettere ed agire di conseguenza perchè è Parola di Dio. Non vuole essere un messaggio allarmistico ma un invito a riflettere per essere preparati. La prossima domenica è la festa di Cristo re e si conclude l’anno liturgico; la Chiesa liturgicamente ci ricorda che anche questo mondo finirà: non si tratta di una ipotesi ma lo ha affermato categoricamente Gesù, ed è parola di Dio! 

Lo constatiamo anche noi: basta pensare oggi alla fame nel mondo, alle guerre batteriologiche, all’arsenale atomico  e ci si accorge che lo stesso uomo ha già creato i presupposti per la distruzione di quanto Dio ha creato. L’uomo ha realizzato con le sue invenzioni i presupposti per autodistruggersi. La fine di questo mondo non è affatto una ipotesi assurda; come si lamentava Tibullo, poeta latino: l’uomo ha inventato le armi per difenderci dagli animali feroci e  noi li usiamo per ucciderci a vicenda. Oggi la Liturgia ci ripete le stesse espressioni apocalittiche: ‘II sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte’. Spontanea nasce la domanda: quando avverrà? quando finirà questo mondo? 

‘Il quando’ lo conosce solo il Padre, dice Gesù; il ‘quando’ è solo curiosità e non fa parte della sua missione salvifica: Gesù si è incarnato per salvare l’uomo ed indicare la strada vera per il Regno dei cieli; la seconda venuta di Gesù non deve farci paura, essa è una promessa e non una minaccia. Il brano del Vangelo si ricollega al discorso della caduta di Gerusalemme, che Gesù previde ed annunciò agli Apostoli; questo evento si è consumato nell’anno 70 d. C. ad opera delle legioni romane.

Gesù era appena entrato a Gerusalemme, il popolo lo aveva accolto esclamando: ‘Benedetto colui che viene nel nome del Signore’; Gesù invece piange sulla città e ai suoi Apostoli, contenti per l’accoglienza riservata al Signore, preconizzò: di questa città e del tempio non resterà una pietra sull’altra, tutto sarà distrutto. Alla domanda dei suoi. ‘Signore, quando questo avverrà?’, Gesù confermerà dicendo non passerà una generazione. La storia ci conferma che nell’anno 70 d. C. l’esercito romano distrusse Gerusalemme, bruciò il tempio ed ancora oggi esiste solo ‘il muro del pianto’.

Allora come finirà il mondo? quando finirà?  Il ‘quando’ lo sa solo il Padre, dice Gesù; non perchè Gesù non lo sappia ma perchè ‘il quando’ non fa parte della sua missione salvifica. Gesù si è incarnato per salvare l’uomo ed indicare la strada vera per il Regno dei Cieli. E’ certo però che la crisi che travaglia oggi il creato, il senso di divisione e la fame nel mondo sono segni drammatici; l’uomo  non riesce a prendere coscienza che solo la pace, il senso di responsabilità, la condivisione, la solidarietà sono mezzi adatti a risolvere i gravi problemi dell’umanità. L‘uomo corre solo verso l’autodistruzione.      

Il  creato oggi presenta crepe terribili e tutte quelle realtà che sino ad ieri sembravano eterne (sole, luna, stelle, armonia cosmica )  sono destinate a finire. La realtà che ci circonda ci parla di segni premonitori anche se davanti a Dio mille anni sono come un giorno e un giorno come mille anni. Scopo della parola di Dio non serve a creare paure o spaventare perchè tutto ci parla sempre della potenza di Dio e della sua misericordia. Che il mondo finirà è cosa certa ed è parola di Dio; il ‘quando’ è solo nella prescienza infinita di Dio ed è  tristemente confortata dalla cattiveria umana che ha costruito le armi per l’autodistruzione.

Il Vangelo oggi ci invita a stare all’erta, essere preparati; la nostra fede infatti non si fonda sulla precisione di una data ma sulla Parola di Dio. Perchè la lettura di questo brano evangelico è stato fatto proprio in questa domenica? La ragione è semplice: siamo alla fine dell’anno liturgico; domenica prossima è la festa di Cristo Re: la Chiesa ci ricorda che come finisce l’anno, così finirà anche la nostra vita terrena; viviamo tutti in attesa del regno di Dio: tempi nuovi e terra nuova.

Il Signore certamente verrà e questo mondo sarà sconvolto; chi crede e sarà vigilante non lo teme ma lo spera. Ci aiuti la Madonna ogni giorno a liberarci dalla schiavitù del peccato e a vivere l’amore verso Dio e il prossimo; solo così saremo ben preparati in quel giorno.

Ecclesiam suam: a 60 anni dall’enciclica di Paolo VI quali sono i frutti?

“Gesù Cristo ha fondato la sua Chiesa, perché sia nello stesso tempo madre amorevole di tutti gli uomini e dispensatrice di salvezza; appare quindi evidente la ragione per cui ad essa abbiano dato prove di particolare amore, e ad essa abbiano dedicato particolari cure tutti coloro che hanno avuto a cuore sia la gloria di Dio sia la salvezza eterna degli uomini: tra i quali, com’era giusto, rifulsero i Vicari in terra dello stesso Cristo, un numero immenso di Vescovi e di sacerdoti, ed una mirabile schiera di santi cristiani.

A tutti, pertanto, sembrerà quasi naturale che Noi, indirizzando al mondo questa Nostra prima Enciclica dopo che, per inscrutabile disegno di Dio, siamo stati chiamati al Soglio Pontificio, rivolgiamo il nostro pensiero amoroso e reverente alla santa Chiesa. Per tali motivi, Ci proporremo, in questa Enciclica, di sempre più chiarire a tutti quanto, da una parte, sia importante per la salvezza dell’umana società, e dall’altra quanto stia a cuore alla Chiesa che ambedue s’incontrino, si conoscano, si amino”.

Così inizia l’enciclica ‘Ecclesiam Suam’, promulgata da papa san Paolo VI il 6 agosto 1964, che può essere definita un ‘testo programmatico’, rilanciando alcune tematiche fondamentali durante il rinnovamento del Concilio Vaticano II. Infatti papa Paolo VI con tale enciclica ha continuato nel solco ‘dell’aggiornamento’ di papa san Giovanni XXIII, annunciato nel discorso di apertura della prima sessione conciliare, ‘Gaudet Mater Ecclesia’, in cui aveva rimarcato il ‘compito’ della Chiesa, che ‘in questo tempo presente… preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore’.

A distanza di 60 anni questo documento rimane ancora un punto di riferimento per la riforma nella Chiesa, come si evince dal colloquio con il francescano p. Fabio Nardelli, docente di Ecclesiologia all’Istituto Teologico di Assisi ed alla Pontificia Università ‘Antonianum’ di Roma, nonché assistente presso la Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense di Roma, a cui chiediamo di raccontarci il motivo, per cui papa san Paolo VI scrisse tale enciclica:

“Il Papa ha meditato a lungo il testo della sua prima Enciclica, la cui traccia fondamentale aveva già anticipato nel Discorso di apertura della seconda sessione del Concilio Vaticano II ‘Salvete fratres’,il 29 settembre 1963. Il documento è stato considerato da molti come un ‘programma’ del suo pontificato, che rivela la profondità del suo animo. Il contesto in cui nacque è quello degli anni Sessanta, ritenuti un’epoca di grandi trasformazione e di sviluppo economico, in cui avvenne una vera ‘rivoluzione copernicana’ e la Chiesa fu necessariamente chiamata a mettersi in relazione con tutti. L’enciclica ‘Ecclesiam suam’ si proponeva di chiarire a ‘tutti’ quanto la Chiesa sia essenziale per la salvezza dell’umana società ed, al contempo, quanto stia a cuore alla comunità ecclesiale l’incontro con l’umanità”.

Per la Chiesa quali sono le vie attraverso le quali può compiere il mandato affidato da Gesù? “La Chiesa è chiamata a riscoprire la coscienza di ciò che il Signore desidera e, di conseguenza, compiere una missione che la trascende, diffondendo l’annuncio del Vangelo, vivendo il mandato missionario del Risorto (cfr. Mt 28,16-20). In questo percorso, innanzitutto, secondo papa Paolo VI era urgente la ‘rinnovata scoperta del suo vitale rapporto con Cristo’, che è il ‘principio’ e la ‘via’. L’ecclesiologia di papa Montini è chiaramente cristocentrica e la Chiesa vive e opera per continuare e diffonderela missione stessa del Maestro”.

Perché papa san Paolo VI ha sottolineato per la Chiesa lo ‘zelo’ per la pace?

“All’interno della sezione dedicata al dialogo, in particolare verso gli ‘uomini di buona volontà’, papa Paolo VI ha affrontato il tema della ‘pace’ come opportunità di incontro tra i popoli ed ha invitato la Chiesa ad avere cura e attenzione per giungere maggiormente a una autentica pace tra gli uomini come via di rinnovamento e riconciliazione. In seguito, il primo gennaio 1968, ha istituito la Giornata Mondiale di Preghiera per la Pace quale occasione di conversione e di preghiera per l’intera umanità”.

Quale è la missione che la Chiesa è chiamata a compiere?

“L’azione missionaria di Cristo ‘continua’ per mezzo della Chiesa e nella Chiesa, in quanto prolunga nel tempo presente la stessa azione salvifica universale del Cristo. Egli sostiene che la Chiesa esiste in quanto ‘testimonianza’ del Vangelo e perciò compie tutti i suoi gesti (annuncio, sacramenti, carità) lasciandosi plasmare dalla forza viva della Parola di Dio con cui si costituisce quale comunità di speranza e fraternità, vivendo la sua dimensione evangelizzatrice come esperienza costitutiva. Non è possibile la missionarietà della Chiesa senza un profondo e continuo “rinnovamento ecclesiale”.

Quale importanza occupa il dialogo ‘missionario’ nell’Enciclica?

“Con il pontificato di papa Paolo VI, il dialogo è diventato un asse portante del compito missionario della Chiesa e nell’enciclica ‘Ecclesiam suam’egli ha chiarito quanto siano necessarie un’autentica autocoscienza ecclesiale ed una conseguente riforma. Papa Paolo VI ha diviso i destinatari del dialogo missionario secondo la logica dei ‘cerchi concentrici’: a) tutti gli uomini di buona volontà; b) tutti gli uomini che adorano il Dio unico e sommo; c) tutti i cristiani delle altre confessioni. In sintesi si può ritenere che papa Montini ha adottato l’evangelizzazione come stile dell’identità della Chiesa e il dialogo come stile della missione”.

A 60 anni di distanza quali sono i frutti di tale Enciclica?

“L’Enciclica ‘Ecclesiam suam’voleva approfondire la ‘coscienza’ della Chiesa, nell’ottica dell’aggiornamentoper intessere delle relazioni autentiche e significative con il mondo contemporaneo. Il testo, dopo 60 anni, riconsegna all’uomo contemporaneo ed all’attuale contesto sinodale l’immagine di una Chiesa alla continua scoperta di se stessa, legata a Cristo ed in continua riforma per aprirsi al dialogo con l’alterità.

Si può affermare, in sintesi, che la centralità di Cristo e l’annuncio del Vangelo possono essere considerate le uniche vie da seguire per un autentico cammino di conversione e rimangono, tuttora, due aspetti essenziali ed insuperati del Magistero montiniano. La testimonianza dell’enciclica ‘Ecclesiam suam’offre una visione ecclesiologica equilibrata che pone al centro l’essere e l’agire della Chiesa, cioè la sua identità e missione specifica”.

(Tratto da Aci Stampa)

Le frontiere migranti di Abdou Boubacar

Quelle esistenti tra il Niger dei colonnelli e il Benin di Patrice Talon, re del cotone indiscusso e presidente del Paese, sono vergognosamente chiuse. A causa delle sanzioni applicate in risposta al golpe militare di fine luglio dell’anno scorso,centinaia di  camion e container sono bloccati dall’altra parte del ponte.  Adesso è pure l’innocua piroga, che permetteva ai passeggeri di attraversare il fiume Niger, ad aver ricevuto l’ordine di arresto.

Ciò significa che, come in un lontano passato, le frontiere tra i due Paesi confinanti sono completamente chiuse o quasi. In effetti c’è il disputato oleodotto che trasporta petrolio ‘cinese’ dal Niger alla costa atlantica del Benin che mantiene ‘in vita’ una frontiera che altrimenti sarebbe del tutto invalicabile. Il libero movimento di persone e beni nello spazio dei Paesi dell’Africa Occidentale, in breve la tanto contestata CEDEAO, si allontana dalla realtà una volta di più.

Non affatto è il caso di Abdou Boubacar, uscito dall’ultima frontiera che lo ha imprigionato per quattordici mesi a causa di un reato mai commesso nella città di Dosso, non lontano dalla capitale Niamey. Dice di essere nato in Costa d’Avorio ma nel foglio di uscita del carcere c’è scritto Monrovia, la capitale della Liberia. Dice di aver studiato in Liberia dove si parla inglese ma il suo francese è quasi perfetto.

Afferma che, essendo sua madre ivoriana, passava le vacanze da lei e questo spiegherebbe tutto. Adolescente segue ii fratello maggiore fino in Mauritania per poi tornare in una patria a scelta del momento e delle circostanze. Abdou, secondo il foglio di rilascio, è nato nel 2003 circa e avrebbe dunque la bellezza di 23 anni e lo stesso numero di frontiere sedotte, se non di più. Decide di attraversare il mare e per questo parte dalla Liberia, passa la Guinea, il Mali e, navigato il deserto del Sahara, approda in Algeria.

Lavora per qualche mese ad Algeri nei cantieri edili come piastrellista, manovale e imbianchino. Il tempo necessario di andare in Libia e tentare finalmente il sogno del Mediterraneo per raggiungere l’Italia. Dopo un breve soggiorno a Tripoli paga 1700 E al ‘passeur’ per l’ultimo posto disponibile nel battello. Assicura che c’erano 113 passeggeri di tutte le nazionalità dell’Africa e altrove, comprese donne e bambini. Partiti all’imbrunire sono stati fermati dalla guardia costiera libica ad appena un centinaio di metri dalla costa.

Messo a lavorare per qualche mese gratuitamente da qualche capo, torna in Algeria dove, stavolta, le guardie e i militari lo arrestano e deportano sino al confine col Niger. Passa, con altri come lui, la frontiera invisibile tra i due Paesi la notte per raggiungere una cittadina abitata soprattutto da migranti espulsi chiamata Assamaka. Dopo un breve soggiorno, coi soldi nascosti nelle parte intime del suo corpo, raggiunge Arlit, Agadez e, nella cittadina di Dosso, passa la porta della prigione civile.  

Esibisce il foglio di uscita del carcere come l’unico trofeo guadagnato in questi anni di trasgressioni delle frontiere. Quattordici mesi inutili di carcere per un giovane di poco più di vent’anni non sono pochi. Abdou si sorprende, affamato e sperduto, a contare il numero di frontiere che l’hanno attraversato da quando è nato non si sa dove, quando e perché. Forse tornerà dove era partito per tentare ancora la pazienza del deserto e l’incertezza del mare. Abdou chiederà la meta del suo viaggio alle frontiere che, finora, non l’hanno mai tradito.

A Merate il premio ‘Fuoco dentro – donne ed uomini che cambiano il mondo’

Si svolgerà domenica 23 giugno, alle ore 21, al Teatro del Collegio Villoresi di Merate (LC) la cerimonia di consegna della terza edizione del Premio “Fuoco dentro – Donne e uomini che cambiano il mondo”, istituito dall’Arcidiocesi di Milano e da Elikya, associazione di promozione sociale che dal 2012 opera in diversi ambiti del mondo civile e religioso.

Riconoscere coloro che con il generoso impegno per il bene dell’individuo e della società sono diventati testimoni di speranza, illuminando il cammino di chi hanno incontrato: è il senso del Premio, il cui titolo nasce da un’omelia dell’Arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, divenuta anche un brano musicale e uno spettacolo drammatizzato da Elikya.

Come già successo nelle due precedenti edizioni, anche per l’edizione 2024 di ‘Fuoco dentro’ una commissione composta da giornalisti, scrittori, docenti universitari, religiosi e rappresentanti del mondo interculturale e interreligioso ha individuato le persone cui assegnare il Premio, quest’anno significativamente realizzato da alcuni artigiani di Betlemme.

I premiati, alla presenza dell’Arcivescovo, saranno: don Claudio Burgio, fondatore e presidente dell’Associazione Kayrós oltre che cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano; Carlo Alberto Caiani e la moglie Sara Pedroni, che con i loro tre figli da quasi vent’anni accolgono minori in affido presso la cascina dei padri Somaschi a Vercurago (LC); Blessing Okoedion, donna nigeriana sopravvissuta alla tratta che ha denunciato i suoi aguzzini e ora è impegnata come mediatrice culturale e interprete; suor Nabila Saleh che ha vissuto per tredici anni a Gaza e che a causa della guerra con Israele è stata per sei mesi rifugiata nella parrocchia latina, prendendosi cura dei più fragili sotto i bombardamenti; infine Franco Vaccari, presidente e fondatore di ‘Rondine Cittadella della Pace’, un’organizzazione impegnata per il superamento dei conflitti armati nel mondo.

Un premio alla memoria sarà poi dedicato a suor Luisa Dell’Orto, uccisa nel 2022 nella capitale di Haiti dove era la colonna portante di ‘Casa Carlo’, un centro che raccoglie centinaia di bambini di strada, ricostruito nel 2010 dopo il terremoto che ha devastato l’isola caraibica.

La serata – a ingresso libero – sarà animata dal Coro Elikya, un ensemble composto da 50 coristi di 16 nazionalità differenti, guidati dal direttore Raymond Bahati, che propone un intreccio di diverse forme artistiche. In questa multiformità si rispecchia la composizione del gruppo stesso e si svela la bellezza della diversità. L’iniziativa ha il patrocinio del Comune di Merate ed è sostenuta da Confcommercio Lecco, dalla Fondazione Comunitaria del Lecchese e dal Gruppo Elemaster.

I giovani che hanno fatto la Storia: il nuovo libro racconta i protagonisti del mondo che cambia

‘Giovani che hanno fatto camminare la Storia’ è il nuovo libro che Edizioni MILLE propone a lettori attenti ai segni del cambiamento sociale a partire dai ‘sensori’ (ma anche dagli ‘attori’) che sono le nuove generazioni. Composto da dieci capitoli che ripercorrono il protagonismo dei giovani dall’Unità d’Italia a oggi, offre il racconto del ruolo che essi hanno avuto nei momenti decisivi della nostra storia.

Dalla matrice risorgimentale colta nella figura di Goffredo Mameli a Genova, attivo propugnatore di indipendenza e libertà oltre che poeta di quel rivolgimento storico, si ricostruiscono le origini del movimento giovanile che ha portato in tutto il mondo l’esperienza dei salesiani a partire dal cortile di Valdocco a Torino, per arrivare ad un altro importante ma dimenticato intervento formativo che si costituì con i Convitti Scuole della Rinascita durante e subito dopo la Seconda Guerra mondiale.

Lasciando da parte il Sessantotto (già ampiamente narrato e non riducibile ad un solo capitolo in questo libro) il saggio al quale si sono dedicati dieci autori, diversi per formazione ed esperienza narrativa, attraversa il secolo scorso parlando dei martiri della Resistenza, degli ‘angeli del fango’ dell’alluvione di Firenze, dell’esplosione creativa degli anni Settanta e Ottanta con le radio libere e le arti visive, dei giovani alla ricerca di memoria storica, degli attuali Italiani all’estero e del movimento globale per la difesa del pianeta.

Giovedì 13 giugno alle ore 18,00 si terrà un’anteprima di ‘Giovani che hanno fatto camminare la Storia’ al circolo culturale ‘Volerelaluna’ di via Trivero, n. 16 a Torino con la partecipazione degli autori, dell’editore e di numerosi osservatori del mondo giovanile. La data del 13 giugno è la ricorrenza del concepimento di Edizioni MILLE, e il libro costituisce una uscita significativa nel quarantennale di quel momento.

La ragione della nascita dapprima della testata MILLE poi delle pubblicazioni periodiche e dei libri che portano lo stesso marchio risiede infatti primariamente nel compito di accompagnare l’espressione di giovani giornalisti e scrittori nella descrizione delle loro realtà.

Papa Francesco: la fortezza aiuta a sconfiggere le paure

“E il mio pensiero va alla martoriata Ucraina e alla Palestina e Israele. Che il Signore ci dia la pace! La guerra è dappertutto, non dimentichiamo il Myanmar, ma chiediamo al Signore la pace e non dimentichiamo questi nostri fratelli e sorelle che soffrono tanto in questi posti di guerra. Preghiamo insieme e sempre per la pace”.

Al termine dell’udienza generale odierna papa Francesco ha chiesto di pregare per la pace, che è assente in molti Paesi, rivolgendo una preghiera particolare al Myanmar ed alla popolazione del Kazakhistan, sommersa da alluvioni:

“Desidero inoltre trasmettere al popolo del Kazakistan la mia vicinanza spirituale in questo momento, in cui una massiccia alluvione ha colpito molte regioni del Paese e ha causato l’evacuazione di migliaia di persone dalle loro case. Invito tutti a pregare per tutti coloro che stanno subendo gli effetti di questo disastro naturale. Anche nei momenti di difficoltà, ricordiamo la gioia di Cristo risorto e invoco su di voi e sulle vostre famiglie l’amore misericordioso di Dio nostro Padre”.

Invece continuando il ciclo di catechesi su ‘I vizi e le virtù’, nell’udienza generale il papa ha incentrato la riflessione sulla terza virtù cardinale, che è la ‘fortezza’, partendo dalla definizione del Catechismo della Chiesa cattolica al n^ 1808:

“Partiamo dalla descrizione che ne dà il Catechismo della Chiesa Cattolica: ‘La fortezza è la virtù morale che, nelle difficoltà, assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene. Essa rafforza la decisione di resistere alle tentazioni e di superare gli ostacoli nella vita morale. La virtù della fortezza rende capaci di vincere la paura, perfino della morte, e di affrontare la prova e le persecuzioni’. Così dice il Catechismo della Chiesa Cattolica sulla virtù della fortezza”.

Perciò la fortezza è una virtù ‘combattiva’: “Ecco, dunque, la più ‘combattiva’ delle virtù. Se la prima delle virtù cardinali, vale a dire la prudenza, era soprattutto associata alla ragione dell’uomo; e mentre la giustizia trovava la sua dimora nella volontà; questa terza virtù, la fortezza, è spesso legata dagli autori scolastici a ciò che gli antichi chiamavano ‘appetito irascibile’. Il pensiero antico non ha immaginato un uomo senza passioni: sarebbe un sasso. E non è detto che le passioni siano necessariamente il residuo di un peccato, però esse vanno educate, vanno indirizzate, vanno purificate con l’acqua del Battesimo, o meglio con il fuoco dello Spirito Santo”.

Quindi ha ribadito che il cristiano deve avere passioni: “Un cristiano senza coraggio, che non piega al bene la propria forza, che non dà fastidio a nessuno, è un cristiano inutile. Pensiamo a questo! Gesù non è un Dio diafano e asettico, che non conosce le emozioni umane. Al contrario. Davanti alla morte dell’amico Lazzaro scoppia in pianto; e in certe sue espressioni traspare il suo animo appassionato, come quando dice: ‘Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!’; e davanti al commercio nel tempio ha reagito con forza. Gesù aveva passione”.

La fortezza ha due movimenti, ad intra ed ad extra; quello verso il noi permette di combattere i propri egoismi: “Il primo è rivolto dentro noi stessi. Ci sono nemici interni che dobbiamo sconfiggere, che vanno sotto il nome di ansia, di angoscia, di paura, di colpa: tutte forze che si agitano nel nostro intimo e che in qualche situazione ci paralizzano. Quanti lottatori soccombono prima ancora di iniziare la sfida! Perché non si rendono conto di questi nemici interni.

La fortezza è una vittoria anzitutto contro noi stessi. La maggior parte delle paure che nascono in noi sono irrealistiche, e non si avverano per nulla. Meglio allora invocare lo Spirito Santo e affrontare tutto con paziente fortezza: un problema alla volta, come siamo capaci, ma non da soli! Il Signore è con noi, se confidiamo in Lui e cerchiamo sinceramente il bene. Allora in ogni situazione possiamo contare sulla Provvidenza di Dio che ci fa da scudo e corazza”.

Mentre il movimento rivolto all’esterno consente di affrontare ogni situazione: “Oltre alle prove interne, ci sono nemici esterni, che sono le prove della vita, le persecuzioni, le difficoltà che non ci aspettavamo e che ci sorprendono. Infatti, noi possiamo tentare di prevedere quello che ci capiterà, ma in larga parte la realtà è fatta di avvenimenti imponderabili, e in questo mare qualche volta la nostra barca viene sballottata dalle onde. La fortezza allora ci fa essere marinai resistenti, che non si spaventano e non si scoraggiano”.

Quindi questa virtù è fondamentale per affrontare il mondo: “Qualcuno finge che esso non esista, che tutto vada bene, che la volontà umana non sia talvolta cieca, che nella storia non si dibattano forze oscure portatrici di morte. Ma basta sfogliare un libro di storia, o purtroppo anche i giornali, per scoprire le nefandezze di cui siamo un po’ vittime e un po’ protagonisti: guerre, violenze, schiavitù, oppressione dei poveri, ferite mai sanate che ancora sanguinano. La virtù della fortezza ci fa reagire e gridare un ‘no’ secco a tutto questo”.

Concludendo la catechesi il papa ha richiamato l’esempio del profeta, che è una persona ‘scomoda’ per la mondanità: “Nel nostro confortevole Occidente, che ha un po’ annacquato tutto, che ha trasformato il cammino di perfezione in un semplice sviluppo organico, che non ha bisogno di lotte perché tutto gli appare uguale, avvertiamo talvolta una sana nostalgia dei profeti.

Ma sono molto rare le persone scomode e visionarie. C’è bisogno di qualcuno che ci scalzi dal posto soffice in cui ci siamo adagiati e ci faccia ripetere in maniera risoluta il nostro ‘no’ al male e a tutto ciò che conduce all’indifferenza. ‘No’ al male e ‘no’ all’indifferenza; ‘sì’ al cammino, al cammino che ci fa progredire, e per questo bisogna lottare”.

(Foto: Santa Sede)

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