Tag Archives: Umiltà
Da Parigi un grido per fermare la guerra
Da Parigi a Roma nel prossimo anno è stato l’invito del presidente della Comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, che ha ringraziato la capitale francese per l’ospitalità: “Grazie Parigi ! Da questa città-mondo dove hanno risuonato tutte le tradizioni, senza nessuna che si imponesse sulle altre, oggi vediamo meglio che la pace è possibile”.
Riprendendo l’appello dell’arcivescovo parigino il prof. Impagliazzo ha esortato ad essere ‘incisivi’ in favore della pace: “Andare in profondità è insieme un esercizio di umiltà e di resistenza. Umiltà perché il ritorno alle fonti ci fa capire che c’è qualcosa di più grande delle nostre emozioni, delle nostre sensazioni o dei modelli cristallizzati. C’è qualcosa che va al di là di noi, del nostro presente e dell’attualità. Resistenza ad una cultura semplificatrice che si abitua ai conflitti e che ruota tutta attorno all’ego”.
E’ stato un invito a gridare la pace: Tornando alle nostre fonti spirituali noi abbiamo scoperto un orizzonte che ci unisce e ci fa sperare. Anche nei momenti più bui noi intravediamo una luce. Insieme, questa sera, dopo aver dialogato ed esserci confrontati, vogliamo innalzare un grido forte di protesta: un grido di resistenza di fronte alla guerra e a tanta violenza.
Vuol dire protestare di fronte al mondo per tutti i morti (la maggioranza vittime innocenti). Noi protestiamo contro tutta questa violenza, contro tutto questo odio, estranei alla nostra volontà di vivere in pace, a quella di tanti uomini e donne. No! la guerra non è il nostro futuro, non può essere il nostro destino!”
Si deve trasmettere il sogno della pace: “Vedo qui molti giovani. Noi desideriamo trasmettere l’eredità del sogno della pace da una generazione all’altra, trasmettere un mondo più in pace: le giovani generazioni devono ricevere questo dono da parte di coloro che li hanno preceduti.
Vogliamo rafforzare e mai spezzare questa catena di solidarietà fra le generazioni! Il sogno della pace non può limitarsi a una sola generazione. Esiste già una via per uscire da un clima di guerra permanente: é stata tracciata da quelli che ci hanno preceduto e che hanno sognato un mondo più giusto per i loro figli su tutti i continenti”.
E’ stato un invito ad avere il sogno della pace: “Bisogna avere il coraggio di rischiare la pace. In questo incontro si sono espresse tutte le lingue e tutte le culture, capendosi e scoprendo che nella profondità c’è un’inquietudine di pace comune a tutti. Un’inquietudine che chiede a tutti i livelli più dialogo.
Ci siamo ascoltati e l’abbiamo capito: bisogna uscire, cominciando da se stessi, da posizioni bloccate. Anche se c’è la guerra, è necessario pensare oggi la pace di domani: è un’opera di saggezza. La pace è la nostra vittoria: non una vittoria contro gli altri ma con gli altri”.
E nel messaggio papa Francesco ha ricordato le parole pronunciate da papa san Giovanni Paolo II ad Assisi nel 1986 con l’invito a proseguire nello ‘spirito’ di Assisi: “Lo Spirito di Assisi è una benedizione per il mondo, per questo nostro mondo che ancora oggi è lacerato da troppe guerre, da troppa violenza. Questo ‘spirito’ deve soffiare ancor più forte nelle vele del dialogo e dell’amicizia tra i popoli.
E’ stato un invito a pregare per la pace, ricordando Notre Dame: “Quest’anno fate tappa a Parigi: questa sera siete raccolti davanti alla Cattedrale che, dopo il drammatico incendio, sta per riaprire le sue porte per la preghiera. Abbiamo bisogno di pregare per la pace. Il rischio che i numerosi conflitti invece di cessare si allarghino pericolosamente è più che concreto. Faccio mio il vostro grido e quello dei tanti colpiti dalla guerra e lo rivolgo ai responsabili della politica: ‘Fermate la guerra! Fermate le guerre!’ Stiamo già distruggendo il mondo! Fermiamoci finché siamo in tempo!”
Quindi per papa Francesco sono necessari spazi per immaginare la pace: “C’è bisogno di incontrarsi, di tessere legami fraterni e di lasciarsi guidare dall’ispirazione divina che abita ogni fede, per immaginare assieme la pace tra tutti i popoli. Abbiamo bisogno di ‘spazi per dialogare e agire insieme per il bene comune e la promozione dei più poveri’. Sì, in un mondo che rischia di frantumarsi nei conflitti e nelle guerre, il lavoro dei credenti è prezioso per mostrare visioni di pace e favorire ovunque nel mondo la fraternità e la pace tra i popoli”.
Mentre prima della conclusione Gilberte Fournier, nata nel 1931, ha raccontato la sua esperienza durante la Seconda Guerra Mondiale a Parigi, ricordando i momenti più drammatici della sua infanzia: “La guerra è una cosa orribile. Mi fa paura, oggi, quando sento parlare di guerre e di voci di guerra. Perché io l’ho vissuta, la guerra. E non l’ho mai dimenticata. Non la si può dimenticare, nemmeno a 93 anni.
Dovevamo scendere continuamente in cantina non appena suonava la sirena. Un giorno la porta si è aperta all’improvviso a causa dell’esplosione di una bomba. C’erano urla e grida. Avevamo molta paura, anche gli adulti. Dovevamo rimanere sdraiati il più possibile. C’erano sacchi di sabbia ovunque davanti ai portoni. Ho visto le bombe cadere non lontano da me. Non è bello per un bambino vedere queste cose”.
La sua è stata una testimonianza per non far morire la memoria contro la guerra: “Prendo la parola oggi su invito dei miei amici di Sant’Egidio, perché quelli della mia generazione sono sempre di meno a poter testimoniare il grande male che è la guerra. Tuttavia, non bisogna dimenticarlo. Voglio dirlo in particolare alle giovani generazioni: la guerra distrugge tutto. La guerra distrugge la vita, come quella di molte delle mie piccole amiche della mia strada, rue Saint Martin, o del quartiere, costrette a portare la stella gialla e che non ho mai più rivisto.
Un periodo triste in cui si ha il cuore pesante. Coloro che non l’hanno vissuto non sanno cosa sia. Quando sento le persone parlare come se la guerra fosse un gioco! Non si rendono conto. Non l’hanno vissuta. Sono qui, davanti a voi, per dirvi che non bisogna perdere la memoria del grande male, della grande sconfitta per l’umanità che è la guerra”.
Infine nell’Appello di Pace consegnato dai bambini ai leader religiosi è stata richiamata ‘la diffusa rassegnazione di fronte ai conflitti aperti, che rischiano di degenerare in una guerra più grande e travolgente’: “Rischiamo di trasmettere alle giovani generazioni un mondo bellicoso, segnato dal terrorismo e dalla violenza. Rischiamo di trasmettere loro la riabilitazione della guerra come strumento per risolvere i conflitti o per affermare i propri interessi. Questo è un mondo che si distrugge con la guerra e la crisi ecologica.
Le religioni, nel profondo della loro tradizione e dei tesori della loro sapienza, sanno che la pace è la vita del mondo. Sanno che la guerra in nome di Dio è una bestemmia. Non hanno forza militare o economica. La loro forza è debole e umile, ma piena di speranza. Attraverso il dialogo, le religioni possono immaginare la pace. Non rinunciano a credere che la pace è la migliore condizione di esistenza per i popoli. Anzi l’unica veramente umana e degna”.
Ed infine, proprio dalla piazza della basilica andata a fuoco si è innalzato un grido di libertà per un mondo in guerra: “Per questo, pur consapevoli dei complessi intrecci politici, chiediamo oggi di compiere una svolta profonda. Lo chiediamo ai responsabili politici, ai signori della guerra, ai popoli tutti. La svolta è cercare quelle vie di pace che esistono anche se nascoste dal buio della guerra. Abbiamo pregato Dio che conceda la pace al mondo con sentimento unanime. Ed oggi, di fronte alla basilica di Notre Dame, colpita dal fuoco e oggi ricostruita, diciamo con convinzione: noi possiamo liberare il mondo dal fuoco della guerra e ricostruirlo più pacifico e giusto!”
(Foto: Comunità di Sant’Egidio)
XXV domenica del Tempo Ordinario: autorità come servizio
Nel brano del Vangelo mentre si descrive il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, itinerario non solo geografico ma spirituale, Gesù per la seconda volta annuncia ai suoi discepoli la imminente Pasqua di passione, morte e risurrezione. La rivelazione che Gesù fa ai suoi discepoli è la via inattesa attraverso la quale egli realizzerà la sua missione salvifica ‘quando sarò innalzato tra la terra e il cielo io attirerò tutto a me’; discorso assai duro che gli apostoli cercano di sviare pensando ad un altro tipo di regno che Gesù sarebbe venuto ad instaurare e discutono tra di loro sul ruolo futuro di ciascuno di essi in questo nuovo regno.
Gesù parla di passione e morte, i dodici discutono invece chi dovrà occupare il primo posto in questo regno. Gesù si pone così ad una distanza abissale dai suoi discepoli: ‘se uno vuole essere il primo sia il servo’, e, come se ciò non bastasse, aggiunge ‘sia servo di tutti’ e con l’immagine del bambino evidenzia loro le virtù proprie del discepolo di Cristo: fiducia e umiltà. Propone un bambino come modello del credente. Il bambino non conosce né filosofia né teologia; è il più disarmato ed indifeso ma conosce bene la fiducia e si abbandona sicuro tra le braccia del papà o della mamma.
In questo Regno che Cristo dovrà instaurare il valore di una persona non dipende dal ruolo che ricopre ma si misura sul servizio che rende: non su quello che si ha, ma su quello che si dà. Vuoi primeggiare?, comincia a servire. La nostra fedeltà al Signore si misura dalla nostra disponibilità a servire. I discepoli mostrano di non essere ancora preparati a recepire questo messaggio rivoluzionario che parla di spirito di rinuncia e di sacrificio. Ecco perchè, laddove Gesù parla della sua passione e morte, essi appaiono presi da altri pensieri: chi sarà il primo nel regno di Gesù?, quali compiti, onori, governo avrà ciascuno di noi?
Due logiche, due processi mentali (quello di Gesù e quello degli apostoli) diametralmente opposti. Arrivati a destinazione e fermatisi, questa volta è Gesù ad interrogarli: di che cosa parlavate lungo la strada?, quale l’oggetto del vostro conversare? Domande che sono un richiamo, un rimprovero, un volere evidenziare ai suoi che stavano viaggiando su aree diametralmente opposte. E Gesù scende al pratico, al concreto: prende un bambino e dice ai suoi discepoli: se non diventate come questo bimbo non entrerete nel regno dei cieli.
Nasce spontanea una domanda: è un male volere primeggiare, sforzarsi di essere il primo? Certamente è un desiderio innato in ciascuno di noi emulare gli altri; adoperarsi a sviluppare il proprio essere, le proprie capacità, i doni e i talenti ricevuti da Dio per assestarsi ai primi posti. Questo è proprio della natura umana ed è voluto da Dio. Gesù non è contrario quando l’uomo cerca di realizzare i desideri innati, né allo sforzo di arrivare al primo posto; ciò che invece cambia è la motivazione: essere il primo per meglio aiutare gli altri e se stesso, questa è la vera grandezza.
Il Vangelo ci ricorda l’episodio di quella donna, la madre dei figli di Zebedeo, che prega Gesù onde i suoi figli possano sedere nel regno uno a destra, l’altro a sinistra: povera donna, non sapeva ciò che stava chiedendo. Gli apostoli, credendo imminente l’inaugurazione del regno, si candidano per i primi posti. La risposta di Gesù è di tutt’altro tenore: prende un bambino, lo mette in mezzo ed abbracciandolo dice: chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me.
‘Voi mi chiamate, dirà Gesù, signore e maestro ed io vi ho lavato i piedi; vi ho dato l’esempio: come ho fatto io , fate voi’, ecco la vera grandezza. La vera grandezza o autorità non consiste nel primeggiare, nello spadroneggiare sugli altri, nell’affermare se stessi e rendere schiavi o sottomessi gli altri; ma vera grandezza è mettere a fuoco i talenti ricevuti da Dio a beneficio di chi è meno dotato. Si ha così un rovesciamento dal concetto di autorità, del potere, del governo. Governare è servire; servire è amare come Gesù che ha dato la vita, è morto in croce per salvare l’uomo e riconciliare il cielo e la terra.
Amico che ascolti, se sei discepolo di Cristo devi persuaderti che il tuo lavoro, la tua intelligenza, il tuo cuore non è per te ma è per gli altri; ogni autorità è una paternità ed essere padre significa amore e sacrificio. L’autorità, diceva uno scrittore, non è una poltrona ma un timone; non è un titolo di nobiltà ma di responsabilità; non è un bastone ma una croce.
E’ necessario allora rivedere il programma della vita: se vuoi essere felice devi diventare come il bambino, che è felice solo tra le braccia del papà o della mamma; è necessario ridestare il “fanciullo che dorme dentro ciascuno di noi”, riamare la bontà e l’innocenza ed ancora una volta rivolgersi a Dio invocando: “Padre nostro che sei nei cieli”. La Vergine Maria ci aiuti a comprendere che c’è più gioia nel dare che nel ricevere.
Papa Francesco chiede ai Teatini comunione e servizio
Appena rientrato dal viaggio apostolico nel Sud Est asiatico, oggi papa ha incontrato i partecipanti al pellegrinaggio promosso dai Chierici Regolari Teatini, in occasione dei 500 anni di fondazione, iniziata il 14 settembre 1524: Era l’inizio del vostro Istituto religioso, nato per praticare e promuovere “la vita comune e il servizio di Dio verso i fratelli”, e per contribuire alla riforma della Chiesa attraverso la riforma di sé stessi, sul modello della prima comunità apostolica (cfr Mc 3,13-15). Vi ringrazio, e vorrei incoraggiarvi a continuare a camminare in questa triplice direzione, nel rinnovamento, nella comunione e nel servizio. E mi piace farlo prendendo spunto dal luogo in cui ci troviamo e dalle circostanze in cui i vostri Fondatori vi fecero la loro professione”.
Anche in questa occasione Francesco ha proposto nella riflessione tre elementi, comunione, servizio e rinnovamento: “I primi Teatini non hanno professato i Voti solenni in un edificio perfetto, completo, come lo vediamo oggi, ma praticamente in un grande ‘cantiere’. Tale appariva la Basilica Vaticana nel 1524… Eppure ci si è messi all’opera, perché la comunità cresceva e le strutture di prima non bastavano più. Fratelli, questa è un’immagine che ci aiuta a riflettere sulla necessità, per restare fedeli alla nostra missione, di intraprendere cammini coraggiosi di rinnovamento. E’ interessante: la fedeltà va rinnovata.
Non può darsi una fedeltà che non si rinnovi, rimanendo fondati sull’antico, sì, ma al tempo stesso pronti a demolire ciò che non serve più per costruire del nuovo docili allo Spirito e fiduciosi nella Provvidenza. Questo è il rinnovamento”.E per un rinnovamento è necessaria la comunione: “Come sappiamo, in molti hanno lavorato a San Pietro: artisti famosi, abili artigiani e una moltitudine di operai e manovali, uomini e donne, impegnati nelle mansioni più umili, uniti nella stessa fatica per dar vita al nuovo edificio. E anche questo è un segno importante: una casa accogliente, infatti, non si costruisce da soli, ma insieme, in comunità, valorizzando il contributo di tutti”.
La ‘somma’ dei primi due elementi conduce al servizio:, cioè alla realizzazione di un progetto: “Rinnovamento, comunione e, terzo punto, la ‘fabbrica’, cioè il servizio. I progetti più belli non avrebbero portato a nulla se poi le persone, rimboccandosi le maniche, non si fossero messe al lavoro. I buoni propositi rimangono sterili, se non ci si mette concretamente al servizio gli uni degli altri, con umiltà, buona volontà e spirito di sacrificio”.
I progetti si realizzano con la carità, come dimostra il fondatore di questa congregazione: “Ce lo ha mostrato san Gaetano, con le molte opere di carità che ha promosso, alcune vive fino ad oggi; ma prima di tutto ce lo ha insegnato Gesù, venuto non ad essere servito, ma a servire e dare la vita. Ed è molto significativo che il vostro Istituto sia nato proprio nella festività dell’Esaltazione della Santa Croce”.
Ed ha ammirato la bellezza della basilica, che è ‘specchio’ della comunità: “Poi però guardiamoci l’un l’altro e ricordiamoci che l’edificio in cui ci troviamo è solo un simbolo: la realtà siamo noi, personalmente e in comunità. Cinquecento anni fa i vostri fondatori non hanno consacrato la loro vita a un cantiere di mattoni e di marmi, ma di pietre vive; hanno consacrato la vita alla Chiesa con la ‘C’ maiuscola, la Chiesa sposa di Cristo, popolo di Dio e corpo mistico del Signore. E’ per il suo bene che ciascuno di loro ha speso sé stesso fino alla fine, dando vita a un’opera che, dopo secoli di fedeltà, oggi è affidata a voi”.
San Gaetano Thiene nacque a Vicenza nel 1480 dal conte Gasparo Thiene e da Maria da Porto e studiò diritto all’Università di Padova; il 17 luglio 1504 conseguì la laurea in utroque iure. Nel 1505, animato da grande spirito religioso, Gaetano si fece promotore dell’edificazione della chiesa di Santa Maria Maddalena a Rampazzo nella tenuta di famiglia, tuttora esistente.Nel 1507 si stabilì a Roma, dove prese dimora assieme al futuro cardinale Giovanni Battista Pallavicini, vescovo di Cavaillon, presso la chiesa di San Simeone ai Coronari, iscrivendosi all’Oratorio del Divino Amore e partecipò attivamente alle riunioni che si tenevano nella chiesa di santa Dorotea presso l’Ospedale di San Giacomo degli Incurabili.
Pur non essendo questo il loro proposito, Gaetano e i compagni andarono a costituire un nuovo ordine religioso, il primo degli ordini di chierici regolari sorti durante il periodo della Controriforma; essendo Gian Pietro Carafa vescovo di Chieti (in latino Theate), i membri dell’ordine vennero detti teatini. Tra il 1540 e il 1543 fu preposto della comunità teatina di Venezia, poi tornò a Napoli, dove morì nel 1547.(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco chiede ai movimenti l’apertura alla sinodalità
“Più volte ho ripetuto che il cammino sinodale richiede una conversione spirituale, perché senza un cambiamento interiore non si raggiungono risultati duraturi. Il mio desiderio, infatti, è che, dopo questo Sinodo, la sinodalità rimanga come modo di agire permanente nella Chiesa, a tutti i livelli, entrando nel cuore di tutti, pastori e fedeli, fino a diventare uno ‘stile ecclesiale’ condiviso. Tutto ciò, però, richiede un cambiamento che deve avvenire in ognuno di noi, una vera e propria ‘conversione’”.
Questo è stato l’invito di papa Francesco ai partecipanti all’incontro annuale con i moderatori delle associazioni di fedeli, dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità, promosso dal Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita sul tema ‘La sfida della sinodalità per la missione’, raccontando che è stato un lungo cammino:
“Pensate che il primo che ha visto che c’era bisogno della sinodalità nella Chiesa latina è stato San Paolo VI, quando dopo il Concilio ha creato il Segretariato per il Sinodo dei Vescovi. La Chiesa orientale aveva conservato la sinodalità, invece la Chiesa latina l’aveva persa. E’ stato san Paolo VI ad aprire questa via. Ed oggi, a quasi 60 anni, possiamo dire che la sinodalità è entrata nel modo di agire della Chiesa. La cosa più importante di questo Sinodo sulla sinodalità non è tanto trattare questo problema o quell’altro. La cosa più importante è il cammino parrocchiale, diocesano e universale nella sinodalità”.
L’invito del papa è stato quello di pensare secondo Dio: “Dopo il primo annuncio della Passione, l’Evangelista ci riferisce che Pietro rimprovera Gesù. Proprio lui, che doveva essere di esempio e aiutare gli altri discepoli ad essere pienamente a servizio dell’opera del Maestro, si oppone ai piani di Dio, rifiutandone la passione e la morte”.
Quindi occorre effettuare il passaggio da un pensiero umano ad un pensiero di Dio: “Ecco il primo grande cambiamento interiore che ci viene chiesto: passare da un ‘pensiero solo umano’ al ‘pensiero di Dio’. Nella Chiesa, prima di prendere ogni decisione, prima di iniziare ogni programma, ogni apostolato, ogni missione, dovremmo sempre chiederci: cosa vuole Dio da me, cosa vuole Dio da noi, in questo momento, in questa situazione? Quello che io ho in mente, quello che noi come gruppo abbiamo in mente, è veramente il ‘pensiero di Dio’? Ricordiamoci che il protagonista del cammino sinodale è lo Spirito Santo, non noi. Lui solo ci insegna ad ascoltare la voce di Dio, individualmente e come Chiesa”.
Il secondo atteggiamento è l’invito a superare ogni ‘chiusura’ verso chi non è concordo con il nostro pensiero: “Stiamo attenti per favore alla tentazione del ‘cerchio chiuso’. I Dodici erano stati scelti per essere il fondamento del nuovo popolo di Dio, aperto a tutte le nazioni della terra, ma gli Apostoli non colgono questo orizzonte grande: si ripiegano su sé stessi e sembrano voler difendere i doni ricevuti dal Maestro (guarire i malati, cacciare i demoni, annunciare il Regno) come se fossero dei privilegi”.
Insomma è stato un invito a liberarsi dalle ‘appartenenze’ e di aprirsi al mondo: “State attenti: il proprio gruppo, la propria spiritualità, sono realtà per aiutare a camminare con il Popolo di Dio, ma non sono privilegi, perché c’è il pericolo di finire imprigionati in questi recinti.
La sinodalità ci chiede invece di guardare oltre gli steccati con grandezza d’animo, per vedere la presenza di Dio e la sua azione anche in persone che non conosciamo, in modalità pastorali nuove, in ambiti di missione in cui non ci eravamo mai impegnati prima; ci chiede di lasciarci colpire, anche ‘ferire’ dalla voce, dall’esperienza e dalla sofferenza degli altri: dei fratelli nella fede e di tutte le persone che ci stanno accanto. Aperti, cuore aperto”.
E la terza virtù ‘sinodale’ è quella dell’umiltà: “Comprendiamo qui che la conversione spirituale deve partire dall’umiltà, che è la porta d’ingresso di tutte le virtù… Ed anche questa tappa della conversione spirituale è fondamentale per edificare una Chiesa sinodale: solo la persona umile infatti valorizza gli altri, e ne accoglie il contributo, i consigli, la ricchezza interiore, facendo emergere non il proprio ‘io’, ma il ‘noi’ della comunità”.
Infine ha sottolineato il ruolo dei movimenti nella Chiesa: “I movimenti ecclesiali sono per il servizio, non per noi stessi. E’ triste quando si sente che ‘io appartengo a questo, all’altro, all’altro’, come se fosse una cosa superiore. I movimenti ecclesiali sono per servire la Chiesa, non sono in sé stessi un messaggio, una centralità ecclesiale. Sono per servire…
Sempre guardate questo: la mia appartenenza è al movimento ecclesiale, è all’associazione o è alla Chiesa? E’ nel mio movimento, nella mia associazione per la Chiesa, come uno ‘stadio’ per aiutare la Chiesa. Ma i movimenti chiusi vanno cancellati, non sono ecclesiali”.
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco: nell’umiltà Dio si incarna
“Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le Novizie partecipanti al corso promosso dall’Unione Superiore Maggiori d’Italia ed auspico che tale incontro susciti in ciascuna il desiderio di aderire sempre più a Cristo e di servire il prossimo nella carità. Io vedo queste novizie e mi domando: quante sono italiane? Poche. C’è una scarsità di vocazioni in Italia: pensiamo e preghiamo per le vocazioni alla vita consacrata”: così al termine dell’udienza generale di oggi papa Francesco, salutando le novizie partecipanti al corso promosso dall’Unione Superiore Maggiori d’Italia, ha rivolto un pensiero alla mancanza di vocazioni.
Inoltre ha invitato a pregare per la pace nel mondo: “Abbiamo bisogno di pace. Il mondo è in guerra. Non dimentichiamo la martoriata Ucraina che sta soffrendo tanto. Non dimentichiamo la Palestina e Israele: che si fermi, questa guerra. Non dimentichiamo il Myanmar. E non dimentichiamo tanti Paesi in guerra. Fratelli e sorelle, bisogna pregare per la pace in questo tempo di guerra mondiale”.
Mentre nell’udienza generale il papa ha concluso le catechesi Il Papa su ‘I vizi e le virtù’, incentrando la riflessione sull’umiltà, fondamento della vita cristiana: “Essa è la grande antagonista del più mortale tra i vizi, vale a dire la superbia. Mentre l’orgoglio e la superbia gonfiano il cuore umano, facendoci apparire più di quello che siamo, l’umiltà riporta tutto nella giusta dimensione: siamo creature meravigliose ma limitate, con pregi e difetti. La Bibbia dall’inizio ci ricorda che siamo polvere e in polvere ritorneremo, ‘umile’ infatti deriva da humus, cioè terra. Eppure nel cuore umano sorgono spesso deliri di onnipotenza, tanto pericolosi, e questo ci fa tanto male”.
Secondo il papa l’umiltà è base di tutte le virtù: “Per liberarci dalla superbia basterebbe molto poco, basterebbe contemplare un cielo stellato per ritrovare la giusta misura… Beate le persone che custodiscono in cuore questa percezione della propria piccolezza! Queste persone sono preservate da un vizio brutto: l’arroganza.
Nelle sue Beatitudini, Gesù parte proprio da loro: ‘Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli’. E’ la prima Beatitudine perché sta alla base di quelle che seguono: infatti la mitezza, la misericordia, la purezza di cuore nascono da quel senso interiore di piccolezza. L’umiltà è la porta d’ingresso di tutte le virtù”.
E nella piccola Nazaret si incarna il Verbo: “Ma è proprio da lì che il mondo rinasce. L’eroina prescelta non è una reginetta cresciuta nella bambagia, ma una ragazza sconosciuta: Maria. La prima ad essere stupita è lei stessa, quando l’angelo le porta l’annuncio di Dio. E nel suo cantico di lode, risalta proprio questo stupore: ‘L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva’. Dio, per così dire, è attratto dalla piccolezza di Maria, che è soprattutto una piccolezza interiore. Ed è attratto anche dalla nostra piccolezza, quando noi la accettiamo”.
Ecco il motivo per cui dopo l’annuncio dell’arcangelo Gabriele la Madonna si mette in cammino per andare a trovare la sorella: “La sua prima decisione dopo l’annuncio angelico è andare ad aiutare, andare a servire la cugina. Maria si dirige verso i monti di Giuda, per fare visita a Elisabetta: la assiste negli ultimi mesi di gravidanza. Ma chi vede questo gesto? Nessuno, se non Dio. Da questo nascondimento, la Vergine sembra non volere uscire mai…
Nemmeno la verità più sacra della sua vita, l’essere Madre di Dio, diventa per lei motivo di vanto davanti agli uomini. In un mondo che è una rincorsa ad apparire, a dimostrarsi superiori agli altri, Maria cammina decisamente, con la sola forza della grazia di Dio, in direzione contraria”.
E’ stata proprio l’umile fede della Madonna a rendere salda la Chiesa, questa è stata la conclusione della catechesi: “Possiamo immaginare che anche lei abbia conosciuto momenti difficili, giorni in cui la sua fede avanzava nell’oscurità. Ma questo non ha mai fatto vacillare la sua umiltà, che in Maria è stata una virtù granitica. Questo voglio sottolinearlo: l’umiltà è una virtù granitica. Pensiamo a Maria: lei è sempre piccola, sempre spoglia di sé, sempre libera da ambizioni.
Questa sua piccolezza è la sua forza invincibile: è lei che rimane ai piedi della croce, mentre l’illusione di un Messia trionfante va in frantumi. Sarà Maria, nei giorni precedenti la Pentecoste, a raccogliere il gregge dei discepoli, i quali non erano stati capaci di vegliare un’ora soltanto con Gesù, e lo avevano abbandonato al sopraggiungere della tempesta”.
Prima dell’Udienza generale papa Francesco ha ricevuto la Delegazione dell’Hong Kong Christian Council ricordando il martirio dei cristiani: “Il martirio della fede sempre c’è nella storia delle nostre Chiese, sempre, non è vero? Andiamo avanti.
Una cosa molto bella è accaduta quando Paolo VI è andato in Uganda. Ha parlato dei martiri cattolici e anglicani. Sono martiri. E io stesso, quando sono stati martirizzate quelle persone copte, ho subito detto che sono martiri anche ‘nostri’, sono martiri di tutti. Ci sono due battesimi: uno, che abbiamo tutti noi (il Battesimo che abbiamo ricevuto), l’altro, quello che il Signore dice ‘il Battesimo del sangue’: il martirio. E tutti noi sappiamo cosa è il martirio di tanti cristiani che hanno dato la vita per la fede”.
(Foto: Santa Sede)
Le diocesi chiedono la protezione della Madonna per le città
E’ stato il card. Paolo Romeo, arcivescovo emerito di Palermo, a presiedere il Pontificale, domenica scorsa, per la festa del Patrocinio di Santa Lucia, patrona di Siracusa nel ricordo del miracolo del 1646 quando a Siracusa imperversava una carestia ed i siracusani chiesero aiuto alla patrona: dal mare arrivarono navi cariche di grano ed una colomba avvertì i fedeli riuniti in preghiera in Cattedrale.
La Festa è inserita nell’Anno Luciano, indetto dall’arcivescovo di Siracusa, mons. Francesco Lomanto, il 13 dicembre scorso e che si concluderà il 20 dicembre prossimo quando sarà a Siracusa il corpo della martire siracusana che si trova custodito a Venezia, sul tema ‘In luce ambulamus’, che trae origine dal titolo della lettera pastorale dell’arcivescovo Lomanto: “A Santa Lucia chiediamo di continuare a proteggere la nostra Città e la nostra Chiesa siracusana che si gloria di averle dato i natali”.
In tale discorso il vescovo ha chiesto alla santa patrona di sostenere i fedeli nella fede: “Santa Lucia, nella sua vita e nel suo martirio, ha testimoniato il suo amore a Gesù, la sua carità ai fratelli e la sua speranza nella vita eterna, scegliendo la via della semplicità, dell’umiltà e dell’aiuto agli altri, soprattutto verso i più bisognosi”.
Il discorso del vescovo siracusano è un invito all’impegno affinché la speranza non si spenga: “Noi che guardiamo con ammirazione e devozione a santa Lucia, vogliamo impegnarci come lei a piantare il seme della speranza nella nostra società, che rischia di smarrirsi nei freddi calcoli degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale. Una società, che vuole essere umana, deve mettere al centro la persona e non le statistiche, la carità e non i like, l’incontro con gli altri e non le visualizzazioni sterili, che il più delle volte sono segno di solitudini infinite”.
E’ un invito a costruire in comunione il bene comune: “La politica sia sempre al servizio del bene comune, mirando ad un’economia solidale e attenta verso chi è nel bisogno, perché se il più debole è tutelato nelle giuste attenzioni, ne guadagna tutta la società. La sanità ponga al centro la dignità della persona umana e garantisca il diritto alla salute uguale per tutti con strutture idonee, come l’auspicata costruzione del nuovo ospedale civico di Siracusa. E’ urgente pensare insieme, progettare insieme, disegnare sentieri di pace, operare per il bene di tutti, impegnandoci per la promozione sociale con l’intelligenza del cuore e non delegando a nessuna intelligenza artificiale”.
E’ un invito a porre attenzione ai poveri, come santa Lucia: “Insieme a santa Lucia adoperiamoci per la costruzione di un mondo migliore, seminando il seme della risurrezione di Gesù negli ambienti in cui viviamo, amiamo e speriamo, per portare amore dove non c’è amore, affinché tutto si trasformi in amore. Guardiamo a Santa Lucia, nostra sorella e Patrona, e guardiamo con santa Lucia in avanti, in alto e in profondità nel mistero di Dio per scorgere l’infinita dignità dell’uomo. Insieme a santa Lucia testimoniamo Gesù unico fondamento della nostra speranza, salvezza della nostra vita, fiducia delle nostre famiglie, benedizione della nostra società”.
Mentre il vescovo di Imola, mons. Giovanni Mosciatti, nel messaggio per l’inizio delle Rogazioni della Beata Vergine del Piratello, per chiedere aiuto alla Madonna: “Carissimi, anche questo anno le solenni rogazioni in onore della Beata Vergine del Piratello accadono in un momento importante della nostra vita. Nel latino rogare vuol dire pregare, chiedere aiuto, protezione, liberazione dal male. Ne abbiamo proprio bisogno in questo tempo così drammatico”.
Ed ha richiamato ai valori di papa Pio VII, sottolineati recentemente da papa Francesco: “Il santo padre ci ha indicato i tre valori cardine di cui papa Chiaramonti è stato testimone, essenziali anche per i nostri cammini personali e comunitari: la comunione, la testimonianza e la misericordia. Mi ha molto colpito il suo richiamo perché ha descritto tre doni importanti da chiedere per tutti noi, tre punti importanti per il nostro cammino comune”.
Tre sono le pratiche che papa Pio VII ha ritenuto fondamentali: “La comunione. Papa Pio VII ne è stato un convinto sostenitore e difensore in tempi di lotte e divisioni feroci, con ferite sanguinanti sia morali che fisiche. La sua pacata e tenace perseveranza nel difendere l’unità ci aiuta a guardare al nostro tempo, ad essere costruttori di unità nella Chiesa universale, in quella locale, nelle parrocchie e nelle famiglie: a fare comunione, a favorire la riconciliazione, a promuovere la pace, fedeli alla verità nella carità!
La testimonianza. Papa Chiaramonti è stato un annunciatore coraggioso del Vangelo, con la parola e con la vita. Abbiamo bisogno oggi di questa testimonianza reciproca: l’amore per la verità, l’unità, il dialogo, l’attenzione agli ultimi, il perdono, la ricerca tenace della pace. Testimoni tra noi e nelle nostre comunità di mansuetudine e disponibilità al sacrificio.
La misericordia. Pio VII fu un grande uomo di carità, fino a concedere ospitalità proprio ai familiari di quel Napoleone che pochi anni prima lo aveva fatto incarcerare e chiedendo per lui, ormai sconfitto, un trattamento mite nella prigionia”.
E’ un invito a partecipare alla ‘sinfonia’ di preghiera: “Vogliamo chiedere alla Vergine Maria, nostra patrona, di poter essere testimoni di questa comunione e di questo amore e così accompagnare la nostra Chiesa anche nel cammino di preparazione all’evento di grazia del Giubileo 2025”.
(Foto: Diocesi di Siracusa)
Don Pino Puglisi nel racconto di mons. Corrado Lorefice
Sabato 9 dicembre il santuario della Madonna dei Rimedi a Palermo (dove il 2 luglio del 1960 il beato Giuseppe Puglisi fu ordinato presbitero della Chiesa di Palermo dal card. Ernesto Ruffini) ha ospitato la Messa cantata, eseguite dal Coro di Imperia ‘con Claudia’, nel trentennale del suo martirio, grazie al centro diocesano ‘Beato Pino Puglisi martire ucciso dalla mafia’.
Qualche mese prima, nel giorno del trentennale dell’uccisione di p. Pino Puglisi, avvenuta il 15 settembre 1993, papa Francesco aveva inviato una lettera all’arcivescovo della diocesi di Palermo, mons. Corrado Lorefice, sottolineando i tratti del’buon pastore:
“Sull’esempio di Gesù, don Pino è andato fino in fondo nell’amore. Possedeva i medesimi tratti del ‘buon pastore’ mite e umile: i suoi ragazzi, che conosceva uno ad uno, sono la testimonianza di un uomo di Dio che ha prediletto i piccoli e gli indifesi, li ha educati alla libertà, ad amare 1a vita e a rispettarla.
Sovente ha gridato con semplicità evangelica il senso del suo instancabile impegno in difesa della famiglia, dei tanti bambini destinati troppo presto a divenire adulti e condannati alla sofferenza, nonché l’urgenza di comunicare loro i valori di una esistenza più dignitosa, strappandola cosi alla schiavitù del male. Questo sacerdote non si è fermato, ha dato sé stesso per amore abbracciando la Croce sino all’effusione del sangue”.
Passo ripreso da mons. Lorefice nella lettera ai fedeli dell’arcidiocesi palermitana: “Don Pino Puglisi è per il Santo Padre l’icona del buon Pastore mite e umile. Ecco, ci dice papa Francesco, come essere pastori in Sicilia… Essere preti vuol dire per il papa fare la nostra ‘opzione preferenziale per i poveri’, essere vicini a quanti sono senza voce, senza diritti, senza speranza.
E’ dalla ‘com-passione’ pastorale di Don Pino che dobbiamo lasciarci interpellare. Come singoli ma soprattutto come comunità discepolari, come Chiesa sinodale, chiamata alla ricerca comune e al discernimento dello Spirito. Solo così, ci ricorda il papa, emergeranno ‘la bellezza e la differenza del Vangelo’…
Siamo profondamente grati al Santo Padre! Impegniamoci a mantenere nella nostra Chiesa di Palermo lo stile di Don Pino e preghiamo per il Papa, perché il Signore continui a custodire e benedire il Suo Servizio Petrino. Sappiamo quanto questa preghiera gli stia a cuore”.
Da queste lettere abbiamo preso occasione per un colloquio con mons. Corrado Lorefice, che ha raccontato don Pino Puglisi: “Don Pino Puglisi ha educato sempre i giovani al rispetto della creazione, li ha fatti crescere col senso della bellezza e della sacralità di ogni forma di vita, di fronte al quotidiano culto della morte in cui, soprattutto nel quartiere Brancaccio, erano immersi.
Don Pino ha interpretato il proprio dimorare in un luogo dominato dalla mafia, dal suo potere e dalla sua logica, come un ascolto infinito del bisogno e del grido inespresso di un popolo, in attesa di una liberazione dall’oppressione e dalla schiavitù mafiose che sfigurano il volto degli umani e riducono le persone a sudditi”.
‘Me l’aspettavo’, ha detto mentre veniva ucciso: quale volto aveva don Pino Puglisi?
“Anche nei Vangeli si dice che Gesù, nei confronti dei Giudei che lo osteggiavano, indurì il suo volto e si diresse verso Gerusalemme,in quanto è consapevole che in quella città i profeti vanno a morire, per cui è chiaro che nel volto di don Puglisi abbiamo la consapevolezza di un uomo che è lucido ed ha deciso di mettere in gioco la propria vita. E’ riduttiva l’immagine di don Puglisi come sacerdote antimafia, perché la sua vita rispecchia pienamente il Vangelo.
Lui era consapevole che l’avrebbero ucciso e si poteva tirare indietro. Don Puglisi rimane nel quartiere Brancaccio solo tre anni e non si capirebbe la sua persona senza cogliere tutto l’arco della sua vita, iniziando da Godrano nel 1970 con i giovani, che li porta a studiare a Palermo, perché capisce che per sconfiggere la mafia occorre la cultura.
Don Puglisi è il sacerdote che, grazie al Concilio Vaticano II, scopre che la storia è l’altro luogo dove i cristiani devono sapere cogliere l’istanza della presenza di Dio e quello che Dio chiede. Don Pino pensa il suo ministero, collocandolo dentro il contesto sociale in cui vive. Per lui il Vangelo non è solo una dottrina, ma è una visione della storia. Alla mancanza dava sempre una risposta concreta”.
Per quale motivo organizzò la marcia antimafia a Brancaccio, pochi mesi prima di essere ucciso?
“L’istanza evangelica non lo distoglie dall’istanza umana; anzi lo rimanda dentro con la stessa intensità di decidere della propria vita, perché possa servire affinchè altri abbiano vita. Don Puglisi ha assimilato l’essenza evangelica ed, arrivando a Brancaccio, si accorge della situazione esistente con occhio capace di leggere il territorio, avendo una visione di una comunità cristiana incarnata nel territorio.
Don Puglisi è una vocazione adulta per il suo tempo, in quanto è entrato in seminario a 16 anni (quando l’età di ingresso era ad 11 anni), ed aveva già quel ‘taglio’ educativo. E’ stato un educatore ispirato dal Vangelo ed ha avuto una visione del mondo matura. Il Vangelo, per lui, deve incarnarsi nella realtà in cui si vive; quindi comunità capaci di testimoniare il Vangelo. Ha avuto la visione di una Chiesa che attinge al Vangelo, che è una bella notizia che arriva a tutti”.
Come ha’interpretato il Vangelo?
“Don Pino ha sentito il suo stare dalla parte del popolo, il suo lavoro inesausto per sottrarre i bambini ed i ragazzi alla mentalità della mafia (appoggiato da tante donne e tanti uomini, laici e religiosi, attratti dall’esempio di colui che tutti chiamavano affettuosamente ‘3P’), come una risposta al Vangelo delle Beatitudini, come un ascolto di quella parola scandalosa pronunciata dal suo Maestro e Signore: Beati i poveri”.
Come raccontare don Puglisi ai giovani?
“Don Puglisi ha raccontato un Vangelo che abbraccia la vita e raggiunge la carne umana. Don Pino non ha mai saputo che stava facendo qualcosa di particolare e non ha mai pensato di essere un eroe. Una persona che sa incidere nella vita degli altri non solo non lo ostenta, ma lo fa nella normalità: un vero martire non sa che sta facendo qualcosa di straordinario. Quando sono arrivato come vescovo ho detto che questa è la città che mi interpella, perché ha conosciuto tanti santi e ci sono martiri della giustizia e della fede.
Don Puglisi era autentico. Una nota essenziale di don Pino: è stato un uomo di una grande intelligenza e colto. Nella sua casa popolare aveva più di 5.000 libri antropologici e biblici, perché sentiva l’esigenza di formare i giovani. Nella proposta evangelica partiva dal senso della vita. Voleva educare i giovani ad un senso profondo della vita. Da qui arrivava a raccontare ai giovani le Beatitudini ed il Padre Nostro: in questi brani c’è la forza ‘rivoluzionaria’ del Vangelo.
Ecco il motivo per cui non sempre era capito nella Chiesa palermitana. Ho lavorato con lui nella pastorale vocazionale per tre anni e mi ricordo il giorno in cui diede le dimissioni e diceva che la realtà di Brancaccio gli avrebbe richiesto un impegno totale. Questo è stato don Pino Puglisi: era una forza al servizio dei giovani. La sua era una proposta di libertà. Ecco il motivo per cui la mafia lo ha ucciso. Però la morte di don Puglisi è stata feconda”.
(Foto: Arcidiocesi di Palermo)
Il prof. Monda racconta l’umorismo secondo papa Benedetto XVI
“Martedì 19 aprile 2005, ore 17.44, piazza san Pietro, ombelico del mondo: la fumata è bianca. Da qui comincia il percorso di Joseph Ratzinger come Vicario di Cristo in terra. Da qui inizia anche il nostro viaggio alla scoperta di Benedetto XVI, ‘semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore’, come lui stesso si definì quel giorno. Ma queste prime parole, che sono rimaste impresse nella memoria di tutti, sono figlie dell’emozione del momento, rappresentano una formula retorica o rivelano qualcosa di profondo dell’uomo chiamato a succedere a Pietro?”