Papa Francesco invita alla docilità per il popolo

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Dopo l’incontro con le autorità sud sudanesi oggi papa Francesco ha incontrato i vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i consacrati, le consacrate ed i seminaristi nella cattedrale di Santa Teresa a Giuba, riprendendo l’immagine delle acque del fiume Nilo che attraversa il Paese, a cui già ieri si era ispirato parlando alle autorità sud sudanesi, e tratteggiando la figura di Mosè per cogliere alcune indicazioni utili:

“Nella Bibbia, all’acqua sono spesso associate l’azione di Dio creatore, la compassione con cui ci disseta quando ci troviamo a vagare nel deserto, la misericordia con cui ci purifica quando cadiamo nelle paludi del peccato; Egli, nel Battesimo, ci ha santificati ‘con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo’.

Proprio secondo una prospettiva biblica vorrei guardare nuovamente alle acque del Nilo… Le acque del grande fiume, infatti, raccolgono i gemiti sofferenti delle vostre comunità, il grido di dolore di tante vite spezzate, il dramma di un popolo in fuga, l’afflizione del cuore delle donne e la paura impressa negli occhi dei bambini”.

Parlando di Mosè non si può far a meno di parlare di liberazione: “Allo stesso tempo, però, le acque del grande fiume ci riportano alla storia di Mosè e, perciò, sono segno di liberazione e di salvezza: da quelle acque, infatti, Mosè è stato salvato e, conducendo i suoi in mezzo al Mar Rosso, è diventato strumento di liberazione, icona del soccorso di Dio che vede l’afflizione dei suoi figli, ascolta il loro grido e scende a liberarli.

Guardando alla storia di Mosè, che ha guidato il Popolo di Dio attraverso il deserto, chiediamoci che cosa significa essere ministri di Dio in una storia attraversata dalla guerra, dall’odio, dalla violenza, dalla povertà”.

Ed allora domanda in quale modo è possibile esercitare il ministero in Sud Sudan, se non con docilità ed intercessione: “La prima cosa che colpisce della storia di Mosè è la sua docilità all’iniziativa di Dio. Non dobbiamo pensare, però, che sia sempre stato così: in un primo tempo egli aveva preteso di portare avanti da solo il tentativo di combattere l’ingiustizia e l’oppressione”.

Mosè ha mostrato docilità nell’attesa: “A seguito di questo episodio, però, era dovuto scappare e restare per lunghi anni nel deserto. Lì sperimentò una sorta di deserto interiore: aveva pensato di affrontare l’ingiustizia con le sue sole forze e adesso, come conseguenza, si ritrovava ad essere un fuggitivo, a doversi nascondere, a vivere nella solitudine, a sperimentare il senso amaro del fallimento.

Qual era stato l’errore di Mosè? Pensare di essere lui il centro, contando solo sulle sue forze. Ma così era rimasto prigioniero dei peggiori metodi umani, come quello di rispondere alla violenza con la violenza”.

Attraverso la docilità Mosè è diventato strumento di salvezza: “Purificato e illuminato dal fuoco divino, Mosè diventa strumento di salvezza per i suoi che soffrono; la docilità verso Dio lo rende capace di intercedere per i fratelli. Ecco il secondo atteggiamento di cui vorrei parlarvi: l’intercessione. Mosè ha fatto esperienza di un Dio compassionevole, che non resta indifferente davanti al grido del suo popolo e scende a liberarlo.

E’ bello questo verbo: scendere. Dio, per la sua condiscendenza nei nostri riguardi, viene in mezzo a noi fino ad assumere in Gesù la nostra carne, provare la nostra morte e i nostri inferi. Sempre scende per rialzarci. Chi fa esperienza di Lui è portato a imitarlo. Così fa Mosè, che ‘scende’ in mezzo ai suoi: lo farà più volte durante la traversata nel deserto.

Egli, infatti, nei momenti più importanti e difficili, sale e scende dal monte della presenza di Dio al fine di intercedere per il popolo, cioè di mettersi dentro alla sua storia per avvicinarlo a Dio”.

Questo  è chiesto ai ‘pastori’: “Ai Pastori è richiesto di sviluppare proprio quest’arte di ‘camminare in mezzo’: in mezzo alle sofferenze e alle lacrime, in mezzo alla fame di Dio e alla sete di amore dei fratelli e delle sorelle. Il nostro primo dovere non è quello di essere una Chiesa perfettamente organizzata, ma una Chiesa che, in nome di Cristo, sta in mezzo alla vita sofferta del popolo e si sporca le mani per la gente.

Mai dobbiamo esercitare il ministero inseguendo il prestigio religioso e sociale, ma camminando in mezzo e insieme, imparando ad ascoltare e a dialogare, collaborando tra noi ministri e con i laici. Ecco, vorrei ripetere questa parola importante: insieme”.

Infine Mosè è stato sempre accanto al popolo, anche se è faticoso: “Carissimi, queste mani profetiche, protese e alzate costano fatica. Essere profeti, accompagnatori, intercessori, mostrare con la vita il mistero della vicinanza di Dio al suo Popolo può richiedere la vita stessa.

Tanti sacerdoti, religiose e religiosi (lo abbiamo ascoltato nella testimonianza di suor Regina) sono rimasti vittime di violenze e attentati in cui hanno perso la vita. In realtà, l’esistenza l’hanno offerta per la causa del Vangelo e la loro vicinanza ai fratelli e alle sorelle è una testimonianza meravigliosa che ci lasciano e che ci invita a portare avanti il loro cammino”.

Ed ha proposto il ricordo di san Comboni quale ‘modello’ di ispirazione: “Possiamo ricordare San Daniele Comboni, che con i suoi fratelli missionari ha compiuto in questa terra una grande opera di evangelizzazione: egli diceva che il missionario deve essere disposto a tutto per Cristo e per il Vangelo, e che c’è bisogno di anime ardite e generose che sappiano patire e morire per l’Africa.

Allora io vorrei ringraziarvi per quello che fate in mezzo a tante prove e fatiche. Grazie, a nome della Chiesa intera, per la vostra dedizione, il vostro coraggio, i vostri sacrifici, la vostra pazienza.

Vi auguro, cari fratelli e sorelle, di essere sempre Pastori e testimoni generosi, armati solo di preghiera e di carità, che docilmente si lasciano sorprendere dalla grazia di Dio e diventano strumenti di salvezza per gli altri; profeti di vicinanza che accompagnano il popolo, intercessori con le braccia alzate”.

(Foto: Santa Sede)

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