P. Vito Nardin racconta il ‘tempo del coraggio’ di mons. Antonio Riboldi

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Il 16 gennaio 1923 nacque a Tregasio Brianza mons. Antonio Riboldi e nello scorso dicembre a Padova l’Associazione Editoriale Promozione Cattolica ha presentato, a distanza di 30 anni dalla pubblicazione, la ri-edizione del libro ‘Tempo di coraggio – Oggi come ieri’, che raccoglie le  riflessioni ed i discorsi del vescovo di Acerra-Napoli (1978-1999).

Un coraggio rivolto soprattutto alla difesa dei più deboli. Con questi ultimi don Riboldi, sacerdote rosminiano, si onorò di condividere la tenda all’indomani del terremoto del Belice. E di fronteggiare assieme a loro le prepotenze della mafia, risoluta a mettere le mani sui finanziamenti per la ricostruzione.

Mons. Riboldi fu anche direttore responsabile del mensile ‘Amici di Follereau’, dell’omonima Associazione Italiana (AIFO), organizzazione non governativa fondata nel 1961 da un gruppo di missionari comboniani allo scopo di operare per i diritti degli ultimi della terra, ispirati dal messaggio di amore e giustizia del giornalista francese Raoul Follereau.

Il volume è stato presentato da don Alvaro Grammatica, membro della ‘Koinonia Giovanni Battista’, con una relazione di p. Vito Nardin, già padre generale dei rosminiani, vicino a mons. Riboldi fino alla morte. Poi Luigi Accattoli, già giornalista del Corriere della Sera, ha raccontato aneddoti relativi alle interviste con il vescovo di Acerra. L’incontro è stato concluso da una testimonianza Ernesto Olivero, fondatore del Servizio Missionario Giovani (Sermig) di Torino.

A p. Vito Nardin abbiamo chiesto di spiegarci cosa è questo ‘Tempo di coraggio’: “Le occasioni nelle quali ha mostrato un grande coraggio sono state numerose e significative. Non posso dimenticare il momento in cui aveva stava concludendo la lettera da inviare alle massime autorità del Governo e del Parlamento annunciando il viaggio a Roma con i bambini.

Era incerto se scrivere: ‘Attendiamo conferma’. Si fermò un attimo e poi mi disse: ‘No, sono già 8 anni che attendiamo. Andiamo e basta’. Poteva essere un fallimento, invece il coraggio fu premiato. Credo che la sorgente del suo coraggio si chiama Rosmini, grande uomo formatore di altri grandi uomini e profeta. Altrettanto si può dire del suo compagno di studi mons. Clemente Riva, relatore coraggioso al convegno sui mali di Roma e, successivamente, offertosi in riscatto per la liberazione di Aldo Moro”.

Per quale motivo mons. Riboldi invitava a risorgere?

“L’invito a risorgere era la conseguenza del valore che egli ha sempre attribuito alla persona umana, creatura di Dio. L’emigrazione, la mancanza di lavoro, la vita in baracca legavano l’uomo come catene, anzi, di più. Per aiutare a reagire davanti all’ingiustizia ma anche per liberare dall’apatia e dall’individualismo usava la parola «schiodare» che è chiaramente la premessa del risorgere”.

Perché fu soprannominato ‘don terremoto’?

“Sapeva prendere di petto, correggere, per mostrare la strada ‘aprirò una strada nel deserto’ e imprimere un ritmo deciso. Per la gente le sue iniziative erano delle scosse che risvegliavano la dignità sopita. In altri ambiti della società risultavano delle forti vibrazioni per denunciare le lentezze e gli sprechi nella ricostruzione. La sua grande capacità di comunicazione ha abbracciato tutti gli ambienti: in chiesa, nelle piazze, sui giornali, nelle trasmissioni radiofoniche e televisive”.

Quale fu il suo impegno contro la camorra ad Acerra?

“Ad Acerra ha continuato la stessa missione, confortato dal mandato episcopale di Paolo VI che già a riguardo del Belice si era detto avvocato delle famiglie in baracca. Le marce erano su strade nuove, ma ugualmente alla testa di chi voleva risorgere. Gli appelli erano rivolti ad altri interlocutori, ma sempre per lo stesso motivo.

Un giorno mi aveva riferito con quanto impegno aveva responsabilizzato un camorrista nei confronti dei suoi figli, del loro futuro, in un dialogo durato più di due ore. Siccome a qualcuno, venuto a conoscenza di quel confronto con lui era apparso pentito, fu ucciso poco dopo. Ritornando talora a parlare di quel fatto, provava quasi un rimorso per aver provocato indirettamente la sua morte”. 

Lei è stato vicino a mons. Riboldi negli ultimi momenti di vita: quale spiritualità aveva?

“La sua devozione alla Madonna, assorbita dalla mamma che citava spesso, fu la nota degli ultimi tempi. In casa, al posto della croce pettorale aveva la corona del santo Rosario.  Era distaccato dai beni materiali riguardo a sé stesso, e generoso verso i bisogni del prossimo. Negli ultimi tempi aveva timore costante di rimanere solo. Probabilmente una conseguenza dei lunghi anni vissuti sotto vigilanza in tutti i viaggi”.

A 100 anni dalla sua nascita in quale modo si continua l’azione di mons. Riboldi?

“Non ci si deve limitare ad una ricostruzione solo materiale, né impegnarsi per uno sviluppo che non sia anche spirituale. Imparando ad essere più coscienti delle proprie capacità e mettendosi insieme nella comunità cristiana e nella società civile maturano i frutti di quella carità ‘rosminiana’ che è contemporaneamente materiale, intellettuale, spirituale”.

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