Appelli ed accoglienza per l’Ucraina

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“Fratelli e sorelle, abbiamo appena pregato la Vergine Maria. Questa settimana la città che ne porta il nome, Mariupol, è diventata una città martire della guerra straziante che sta devastando l’Ucraina. Davanti alla barbarie dell’uccisione di bambini, di innocenti e di civili inermi non ci sono ragioni strategiche che tengano: c’è solo da cessare l’inaccettabile aggressione armata, prima che riduca le città a cimiteri. Col dolore nel cuore unisco la mia voce a quella della gente comune, che implora la fine della guerra. In nome di Dio, si ascolti il grido di chi soffre e si ponga fine ai bombardamenti e agli attacchi! Si punti veramente e decisamente sul negoziato, e i corridoi umanitari siano effettivi e sicuri. In nome di Dio, vi chiedo: fermate questo massacro!”

Così al termine dell’Angelus di ieri, nono anniversario della sua elezione a vescovo di Roma, papa Francesco ha ricordato le vittime di Mariupol, usando le parole già gridate da papa Giovanni Paolo II e da papa Benedetto XVI, che ‘Dio è solo Dio della pace, non è Dio della guerra e chi appoggia la violenza ne profana il nome’, ringraziando chi ha offerto accoglienza:

“Vorrei ancora una volta esortare all’accoglienza dei tanti rifugiati, nei quali è presente Cristo, e ringraziare per la grande rete di solidarietà che si è formata. Chiedo a tutte le comunità diocesane e religiose di aumentare i momenti di preghiera per la pace. Dio è solo Dio della pace, non è Dio della guerra, e chi appoggia la violenza ne profana il nome. Ora preghiamo in silenzio per chi soffre e perché Dio converta i cuori a una ferma volontà di pace”.

Ed in un’intervista ai media vaticani il segretario di stato vaticano, card. Pietro Parolin, ha detto che la Santa Sede è disponibile a partecipare ai possibili negoziati per la pace: “Basta con lo scempio della guerra. Si avverte il bisogno di iniziative politico-diplomatiche di ampio respiro. La Santa Sede è disposta a fare tutto ciò che è possibile in questo senso…

Abbiamo di fronte agli occhi le immagini terribili che ci arrivano dall’Ucraina. Le vittime tra i civili, donne, vecchi, bambini inermi che hanno pagato con la loro vita la follia della guerra. Cresce l’angoscia nel vedere le città con le case sventrate, rimaste senza energia elettrica con temperature sottozero, la mancanza di cibo e di medicinali. Come pure i milioni di profughi, per lo più donne e bambini, in fuga dalle bombe”.

Intanto in Italia sono iniziate le prime accoglienze ai profughi ucraini e venerdì scorso sono arrivati a Cascia 10 profughi dall’Ucraina, per lo più donne e bambini, accolti nel monastero di Santa Rita, come ha sottolineato la priora suor Maria Rosa Bernardinis:

“Sono vittime in fuga dall’orrore della guerra, che gli ha portato via tutto e hanno bisogno di ritrovare serenità e speranza. Con questa consapevolezza abbiamo aperto le porte del nostro monastero, decise a dar loro una casa sicura dalla quale ripartire. Essere al loro fianco per la rinascita è un dono e una responsabilità: per entrambi ringraziamo il Signore e chiediamo a lui di darci la forza per lasciare nei loro cuori il seme dell’amore e della pace che Santa Rita ci chiama a diffondere”.

Mentre nella diocesi di Lecce la Caritas ha ricevuto la disponibilità di oltre 150 tra famiglie, parrocchie e associazioni ad accogliere chi fugge dalla guerra in Ucraina; e dalla diocesi di Arezzo è partito un tir carico di alimenti e generi di prima necessità per la città di Drohiczyn, in Polonia.

Mentre dalla diocesi di Como la Caritas diocesana ha effettuato un versamento di € 50.000 a Caritas Italiana per sostenere, tramite Caritas Spes Ucraina e le Caritas di Polonia, Moldovia e Romania, gli interventi a favore della popolazione ucraina colpita dalla guerra:

“Centinaia di innocenti stanno perdendo la vita, migliaia sono segnati da ferite nel corpo e nell’anima, milioni stanno lasciando tutto ciò che hanno di caro la nostra risposta misericordiosa è testimonianza concreta del nostro essere Fratelli Tutti”.

Inoltre Olesya Yaremchuk, una giovane giornalista ucraina, ha editato nello scorso anno il libro ‘Our Others: stories of ukrainian diversity’ (non ancora tradotto in italiano), dove ha raccolto storie personali che si intrecciano con storie collettive, fornendo un panorama unico di questa ricchezza culturale dimenticata.

Avvenire ha proposto la traduzione della sua introduzione al volume: “Gli ultimi eventi in Russia ci ricordano del ruolo enorme che la manipolazione della storia può avere ancor oggi nello spazio post-sovietico. Un punto di riferimento nella crescente etnicizzazione dell’Urss può essere scorto nel discorso pronunciato da Stalin nel 1934, in cui egli affermò che ‘le vestigia del capitalismo nella coscienza popolare’ sono ‘di gran lunga più tenaci nella sfera della questione delle nazionalità’.

Tutto ciò che afferiva alla questione nazionale diventava eminentemente politico e doveva essere sottoposto a una sorveglianza sempre più stretta…

Oggi questa concezione, che privilegia l’origine e disprezza l’autodeterminazione, si palesa anche nella retorica nazionalista russa. Nel Caucaso meridionale, possiamo evocare tre tragici eventi che hanno segnato gli ultimi anni dell’epoca sovietica.

I testimoni dei massacri degli armeni in tre grandi città dell’Azerbaigian – a Sumgait nel febbraio 1988, a Ganja (allora, Kirovabad) nel novembre 1988 e a Baku nel gennaio 1990 – tradiscono degli innegabili tratti di ‘tribalizzazione’ (nei termini di Hannah Arendt) avvenuta durante l’epoca sovietica.

Numerose vittime, testimoni oculari e osservatori esterni hanno descritto esplosioni di massa di estrema crudeltà, quasi mai contrastate da parte della popolazione locale. Durante il pogrom di Baku, lo zio di chi scrive, Vacè Petròvic Kalantàrov, allora 83enne, fu trascinato dai vicini azeri fuori dal suo appartamento, dove aveva adottato un orfano azero, e gettato dal terzo piano”.

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