Cecilia Brighi racconta la situazione in Myanmar

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A fine marzo, secondo il canale televisivo Myawaddy, che appartiene all’esercito ed ha diramato la notizia nelle scorse settimane, 19 oppositori della giunta militare sono stati condannati a morte per l’uccisione di un soldato durante scontri fra la popolazione e le forze di sicurezza. Molte fonti affermano che sono state uccise 710 persone di cui 50 bambini, mentre i prigionieri sono saliti ad oltre 3000. Tali numeri sono stati confermati in un appello di diversi ambasciatori di Paesi stranieri in Myanmar:

“Più di 700 civili sono stati uccisi, molti di loro mentre protestavano per i loro diritti alla democrazia e alla libertà, conquistati dopo tante fatiche. Anche bambini sono stati assassinati… Siamo resi umili davanti al loro coraggio e dignità. Siamo uniti nell’accompagnare il dolore delle loro famiglie e amici.

Siamo uniti nel sostenere le speranze e le aspirazioni di tutti coloro che credono in un libero, giusto, pacifico e democratico Myanmar, dove i diritti e il potenziale di tutto il popolo sia pienamente rispettato e sviluppato. La violenza deve finire, tutti i prigionieri politici devono essere rilasciati e la democrazia deve essere restaurata”.

Però a tre mesi dall’avvio delle prime proteste contro i militari che hanno preso il potere in Myanmar l’opposizione al regime ha dato vita a un governo-ombra di unità nazionale, a cui partecipano rappresentanti della maggioranza politica che faceva capo alla Lega nazionale per la democrazia nel Parlamento, ora sospeso, che già avevano dato vita a un esecutivo clandestino, i leader delle proteste e le etnie che hanno rotto la tregua con le forze armate reagendo al massacro della popolazione civile.

Per comprendere meglio quello che sta succedendo in Myanmar, abbiamo intervistato Cecilia Brighi, segretaria generale dell’associazione ‘Italia-Birmania Insieme’: “L’8 novembre 2020 si sono tenute in Birmania le elezioni politiche. L’NLD, il partito presieduto dalla leader birmana, Aung San Suu Kyi, aveva ottenuto l’83% dei seggi disponibili, mentre il partito dei militari, l’USDP, solo il 7%.

Come è noto il parlamento birmano è composto per il 25% dei seggi da parlamentari nominati dai vertici militari. Il comandante in capo delle forze armate che avrebbe dovuto andare in pensione a fine giugno e che è inquisito dalla Corte Penale Internazionale aveva sperato che l’USDP vincesse almeno il 26% dei seggi in modo che sommando il 25% dei parlamentari militari, con il 26% dei parlamentari eletti, avrebbe essere candidato, tra altri due candidati, a Presidente della Repubblica.

Ciò non è stato e quindi, il 29 gennaio scorso, ha tentato, inutilmente di convincere la Lady a decidere in favore del comandante in capo, pena il colpo di stato. Il colpo di stato era stato preannunciato dal portavoce dell’esercito e poi smentito dal comandante in capo.

E’ stata una scelta pianificata, e non perché i militari ritengano sul serio che vi fossero stati 8.600.000 brogli elettorali, ma perché i militari temevano che la costituzione da loro imposta con la forza nel 2008 potesse essere radicalmente riformata.

Su tutte le altre questioni chiave, dalla politica economica, finanziaria e commerciale, agli accordi internazionali, il nuovo parlamento sotto il saldo controllo dell’NLD non avrebbe neanche avuto bisogno del sostegno del partito dei militari, per approvare le leggi.

La netta affermazione elettorale dell’NLD avrebbe impedito ai militari di bloccare leggi fondamentali come quelle sulla lotta alla corruzione, sulla governance trasparente delle imprese, sulla lotta alla produzione e traffico di stupefacenti e alla economia parallela, che si alimenta di corruzione, traffici illegali e confisca delle terre, immettendo enormi risorse nelle tasche dei militari.

Questo è uno degli altri motivi per i quali i militari hanno architettato il colpo di stato. Pensavano di poter gestire il tutto in modo pacifico, promettendo nuove elezioni dopo un anno. Ma non hanno fatto i conti con il fatto che nessuno vuole tornare indietro alla precedente dittatura, soprattutto i giovani che costituiscono la maggioranza del paese”.

Perché è stata arrestata Aung San Suu Kyi?

“La leader birmana è stata arrestata subito insieme al Presidente della Repubblica, a tutti i ministri e ad una buona parte di parlamentari eletti, sia a livello nazionale che locale. I militari hanno voluto azzerare il potere esecutivo del paese e hanno formato un loro consiglio amministrativo in vista di improbabili elezioni fra un anno o due.

In questo modo hanno voluto affermare che non intendono riconoscere più il ruolo di Consigliere di Stato alla Lady. Ne vogliono, in caso di una eventuale trattativa, riconoscere più il suo ruolo. Ad oggi  oltre alla leader birmana sono state arrestate 3059 persone, mentre i morti (ufficiali) sono 706. Molte sono le persone, soprattutto giovani, sparite nel nulla”.

Quali azioni può prendere l’Europa?

“L’Europa, dovrebbe riconoscere il Comitato che rappresenta il Parlamento democraticamente eletto (CRPH). Dovrebbe spingere l’ONU ad adottare un embargo internazionale sulle armi e, come già dopo la rivoluzione zafferano del 2007, l’Europa dovrebbe adottare rapidamente sanzioni economiche mirate nei confronti degli interessi economici e finanziari dei militari.

Il Comandante in capo delle Forze armate ed il suo vice, tutt’oggi presiedono la Myanmar Economic Holding ltd (MEHL), e la Myanmar Economic Corporation, sotto il diretto controllo del ministero della difesa e i cui utili non sono registrati nel bilancio del ministero. I bilanci di entrambe le holding non sono pubblici.

Ciascuna holding detiene poi un gruppo di banche e di imprese che beneficiano delle relazioni tra il MEHL, il MEC e le imprese di stato e giocano un ruolo fondamentale nella economia del paese. Come sottolineato dalla UN Independent Fact Finding Mission (IFFM), ‘gran parte delle entrate generate dalle attività militari in Myanmar non viene contabilizzato nel bilancio dello Stato, ma viene utilizzato per sovvenzionare operazioni militari, molte delle quali caratterizzate da gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario’.

La IFFM aveva identificato 120 imprese di proprietà del MEHL e del MEC in tutti i principali settori: dalle banche, al turismo, al settore minerario, al gas e petrolio, settore alimentare e agricolo. Il legame dell’esercito con alcuni settori in particolare quello minerario della estrazione di giada e pietre preziose sovrappone interessi economici e militari.

Il 90% della giada venduta nel mondo viene dalla Birmania e, secondo un’indagine di Global Witness, nel 2015 gli introiti del settore della giada nel 2014 ammontavano ad US$ 31.000.000, controllati da una rete dell’elite militare, signori della droga e mafiosi che hanno continuato ad alimentare anche i conflitti etnici. Cifre simili per i rubini, la cui vendita in Europa nel 2107 ammontava ad US$ 56.200.000.

Nel corso dei passati decenni di dittatura e anche successivamente, i militari hanno accumulato enormi risorse in conti esteri. Secondo quanto dichiarato dal FMI, ad oggi le riserve in valuta straniera, ammontano ad US$ 6.700.000.000 (settembre 2020), di cui US$ 1.000.000.000 negli USA, che il governo americano ha provveduto immediatamente a congelare”.

Quale ruolo svolgono i sindacati?

“La confederazione sindacale birmana CTUM con oltre 65.000 iscritti in tutti i settori produttivi, è  tra le organizzazioni a capo delle manifestazioni.  Da due mesi il paese è completamente paralizzato. Le banche non funzionano, i trasporti neppure, le fabbriche sono chiuse e centinaia di migliaia di lavoratrici delle zone industriali dopo due mesi di lotta sono rimaste senza salario e senza  la possibilità di pagare i dormitori in cui vivono assiepate e il cibo. Inoltre nelle zone industriali di Yangon è stata proclamata la legge marziale.

I militari sono andati nelle fabbriche e si sono fatti dare l’elenco dei sindacalisti e delle sindacaliste. Le hanno ricercate casa per casa per arrestarle, ma grazie alle informazioni non si sono fatte trovare. E ora hanno perso il lavoro.

In questo clima di paura, con i militari che sparano per le strade, nei palazzi, che vanno casa per casa a portare via i giovani, nessuno vuole mettere a rischio la propria vita per uno straccio di lavoro. Oggi soprattutto nei confronti dei grandi marchi  dell’abbigliamento che producono nelle zone industriali, c’è un negoziato difficile per garantire alle lavoratrici e ai lavoratori che non possono ritornare a lavorare, il salario e soprattutto il posto di lavoro”.

Munizioni italiane sono state sparate in Myanmar contro i manifestanti ed addirittura contro un’ambulanza. Quindi anche munizioni italiane servono per reprimere il popolo: cosa fare?

“L’embargo internazionale sulle armi è fondamentale, come pure è fondamentale imporre alle imprese europee, che non possono esportare armi in Birmania, la ‘due diligence’, ovvero controllare e impedire la triangolazione, che ad oggi permette di esportare anche in paesi sotto embargo”.

Molte chiese sono state incendiate, però i cristiani continuano ad operare per una riconciliazione e la foto di suor Ann Nu Thawng ha fatto il giro del mondo: quale è il ruolo della Chiesa per riportare la riconciliazione?

“La Chiesa cattolica è una minoranza, ma molto rispettata, anche grazie al ruolo straordinario che il card. Chales Maung Bo svolge da anni nel paese, promuovendo il dialogo religioso per la pace. La Chiesa ha un ruolo fondamentale nel dialogo di pace, nel contrasto con il clima di odio montato da gruppi di monaci buddisti nazionalisti e radicali contro i mussulmani e le altre religioni, nel sostegno alle comunità etniche più povere.

Un impegno riconosciuto, che emerge anche dalla straordinaria esperienza di suor Ann, in ginocchio di fronte a militari che anche essi si inginocchiano in segno di rispetto e di preghiera. Un’immagine potentissima di quanto il coraggio delle proprie idee possa contribuire a cambiare il mondo”.

(Tratto da Aci Stampa. Foto: Associazione ‘Italia-Birmania Insieme’)

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