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Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza: non restiamo indifferenti

In questa giornata mondiale dedicata ai diritti dei bambini, il mio pensiero va a tutte quelle situazioni che incontro e che troppo spesso sfuggono agli sguardi distratti e indifferenti. È doloroso vedere come, in una società che dovrebbe essere basata sull’uguaglianza e sull’amore per i più piccoli, ci siano così tante storie che passano inosservate, dimenticate. Mi preoccupa questa indifferenza, questa incapacità di fermarsi e vedere davvero la sofferenza degli altri, specialmente quella dei bambini, i più vulnerabili tra noi.

Penso ad Adriano, un ragazzo di 27 anni che ho incontrato una sera mentre stavo distribuendo indumenti e viveri in quel “non posto” al bosco di Rogoredo. Non apparteneva a quel mondo di persone perse e dimenticate, invisibili che vivono tra quegli alberi, eppure era lì, in cerca di aiuto. Mi ha avvicinato con estrema dignità, senza chiedere nulla per sé. Mi ha detto che aveva bisogno di vestiti e alimenti per i suoi figli, per la sua famiglia. Mi ha spezzato il cuore!

Quando gli ho chiesto dove abitasse, mi ha confidato che vive in un luogo di Milano, in una baracca con sua moglie e i loro due bambini piccoli, uno di appena sette mesi e l’altro di due anni e mezzo. All’inizio non riuscivo a crederci. Come è possibile che in mezzo a noi, in una città come questa, una famiglia viva in quelle condizioni? Eppure era così.

Sabato scorso sono andato a trovarli. Non potevo ignorare quella richiesta, non potevo voltarmi dall’altra parte. Ho portato tutto quello che potevo: abiti caldi, cibo, e soprattutto ciò che un bambino e una bambina hanno diritto di avere solo perché sono nati. Giocattoli, pannolini, qualche piccola attenzione che li facesse sentire speciali, amati. La loro ‘casa’ è una baracca: niente elettricità, niente acqua corrente, solo quattro pareti di fortuna per cercare di proteggersi dal freddo e dalla pioggia. È difficile immaginare come si possa vivere così, eppure, nonostante tutto, in quella famiglia ho trovato qualcosa che mi ha commosso profondamente.

Ho visto due bambini felici, stretti tra le braccia della loro mamma e del loro papà. Ho visto l’amore più puro e disarmante, quello di genitori che, pur non avendo nulla, riescono a dare ai propri figli tutto il calore e la protezione che possono. Ho visto sorrisi, e in quegli sguardi ho ritrovato la forza di chi non si arrende, di chi, nonostante la povertà e la fatica, cerca ogni giorno di dare un futuro migliore ai propri figli, nonostante le poche opportunità.

Oggi, in questa giornata speciale, voglio ricordare Adriano, sua moglie, i suoi due bambini e tutte le famiglie come la loro. Voglio ricordare che i diritti dei bambini non sono solo parole su un foglio, ma impegni concreti che ci riguardano tutti. Ogni bambino ha diritto a una casa sicura, a cibo, a cure, a una vita degna. Ma soprattutto, ha diritto a non essere dimenticato.

La cosa che più mi rattrista è pensare che troppo spesso non vediamo queste persone come parte di noi. Ci illudiamo che siano ‘altro’, che le loro vite siano distanti dalle nostre. Ma non è così. Sono come noi. Sono noi. E se possiamo permettere che un bambino cresca senza ciò che gli spetta, che diritto abbiamo di parlare di umanità?

Oggi, più che mai, voglio ringraziare chi non si arrende, chi con un piccolo gesto continua a ricordare che nessuno dovrebbe essere lasciato indietro. Voglio ringraziare tutti quelli che si fermano, che ascoltano, che scelgono di vedere. Perché solo vedendo, solo riconoscendo nell’altro un fratello, una sorella, possiamo costruire una società dove i diritti non siano solo un ricordo da celebrare un giorno all’anno, ma una realtà che appartiene a tutti, soprattutto ai bambini.

Papa Francesco invita a ricucire lo strappo delle disuguaglianze di Roma

‘Ricucire lo strappo: oltre le disuguaglianze’: è stato il titolo dell’Assemblea della Diocesi di Roma che si è svolta oggi pomeriggio nella basilica di san Giovanni in Laterano, a due mesi dall’avvio del Giubileo, alla presenza di papa Francesco, richiamando il convegno svoltosi cinquanta anni fa sui ‘mali’ di Roma, in cui la Chiesa si è messa in ascolto della città:

“Si è trattato di un evento che ha segnato il cammino ecclesiale e sociale della Città e, in quell’occasione, la Chiesa di Roma si è messa in ascolto delle tante sofferenze che la segnavano, invitando tutti a riflettere sulle responsabilità dei cristiani di fronte ai mali della Chiesa, ai mali della Città, entrando in dialogo con essa e scuotendo la coscienza civile, politica e cristiana di tanti”.

Il papa ha seguito le tappe, che hanno condotto a questo evento conclusivo, in cui è stata esposta la situazione, in cui si trova la capitale: “Se da una parte tutto questo ci addolora, dall’altra ci fa comprendere quanto sia ancora lunga la strada da percorrere. Sapere che ci sono persone che vivono per strada, giovani che non riescono a trovare un lavoro o una casa, ammalati e anziani che non hanno accesso alle cure, ragazzi che sprofondano nelle dipendenze dalle droghe e in molte altre dipendenze ‘moderne”’ persone segnate da sofferenze mentali che vivono in stato di abbandono o disperazione”.

Tale situazione pone alcune domande fondamentali, su cui riflettere, partendo dalla necessità di portare ai poveri il lieto annuncio: “ I poveri saranno sempre con noi. I poveri sono la carne di Cristo e, come un sacramento, lo rendono visibile ai nostri occhi…

E la buona notizia da annunciare ai poveri è anzitutto dire loro che sono amati dal Signore e che agli occhi di Dio sono preziosi, che la loro dignità, spesso calpestata dal mondo, davanti a Dio è sacra. Ma tante volte, noi cristiani diciamo questo a parole, e poi non facciamo i gesti che lo rendono credibile”.

Per questo il papa ha sottolineato che il povero è ‘è carne della nostra carne’: “La Chiesa è chiamata ad assumere uno stile che mette al centro coloro che sono segnati dalle diverse povertà, i poveri di cibo e di speranza, gli affamati di giustizia, gli assetati del futuro, i bisognosi di legami veri per affrontare la vita. Rendiamoci presenti presso i poveri e diventiamo per loro segno della tenerezza di Dio! Dio è presente con tre atteggiamenti: la vicinanza, la compassione e la tenerezza. E un cristiano che non si fa vicino, che non è compassionevole e che non è tenero non è cristiano. Vicinanza, compassione e tenerezza. Così imitiamo Dio”.

Per questo occorre ricucire lo ‘strappo’ nella città: “Una città che assiste inerme a queste contraddizioni è una città lacerata, così come lo è l’intero nostro pianeta. Ecco che allora è necessario ricucire questo strappo impegnandoci a costruire delle alleanze che mettano al centro la persona umana, la sua dignità. Per fare questo occorre lavorare insieme, armonizzare le differenze, condividere ciascuno il dono e la missione che ha già ricevuto. E questo significa anche crescere nel dialogo: il dialogo con le istituzioni e le associazioni, il dialogo con la scuola e la famiglia, il dialogo tra le generazioni, il dialogo con tutti, anche con chi la pensa diversamente”.

E’ stato un invito ad uscire dall’indifferenza, che porta al disinteresse: “Per ricucire abbiamo bisogno innanzitutto di uscire dall’indifferenza e lasciarci coinvolgere in prima persona! Sarebbe bello se dall’incontro di stasera si uscisse con qualche impegno concreto, verificabile sulla linea di uno sforzo comune mirato ad azioni capaci di aiutarci a superare le disuguaglianze”.

Quindi il papa ha chiesto di non trascurare il pensiero sociale della Chiesa attraverso la formazione delle coscienze: “Ma, intanto, vorrei chiedervi questo: valorizzate di più, nella pastorale ordinaria e nella catechesi, il pensiero sociale della Chiesa. E’ importante infatti, formare le coscienze alla dottrina sociale della Chiesa, perché il Vangelo sia tradotto nelle diverse situazioni di oggi e ci renda testimoni di giustizia, di pace, di fraternità. E tessitori di una nuova rete sociale e solidale nella Città, per ricucire gli strappi che la lacerano”.

Questi due passaggi conduce alla semina della speranza, che non delude mai, ricordando mons. Di Liegro e molte altre persone: “Sorelle, fratelli, la speranza non delude! Non delude mai. Andiamo sulla strada della speranza. In questa Città hanno operato uomini e donne che davanti ai problemi non sono rimasti a guardare e nemmeno si sono limitati a dire o a scrivere tante cose.

Penso specialmente ad alcuni sacerdoti, veri uomini di speranza, come don Luigi Di Liegro; penso anche a tanti laici che si sono messi all’opera rispondendo al bisogno di gettare un seme di bene, di attivare processi nella speranza che qualcun altro si sarebbe preso cura di quel piccolo seme fino a farlo diventare un albero grande. Se oggi, ad esempio, è molto forte la spinta al volontariato è perché qualcuno ci ha creduto e ha iniziato con piccoli passi”.

Quindi il bene va contagiato: “Quel bene ha contagiato tanti altri fino a diventare stile condiviso. Oggi dobbiamo avviare nuovi processi, nuovi processi di speranza: sognare la speranza e costruire la speranza attraverso il nostro impegno, che è un impegno responsabile e solidale! Osate!

Tutti voi osate nella carità, non abbiate paura di sognare imprese grandi anche se queste iniziano con impegni piccoli. Il poeta Charles Peguy afferma così, e, a questo proposito, concludo con quanto diceva sulla speranza: ‘La Fede è una Sposa fedele. La Carità è una Madre. La Speranza è una bambina da nulla. Eppure è questa bambina che attraverserà i mondi’. Andiamo avanti con la speranza”.

(Foto: Santa Sede)

A Trieste mons. Trevisi lancia un appello: volontari ed offerte per aiutare i poveri

“La Fondazione Caritas (che è un ente operativo della Diocesi) e la Caritas Diocesana (espressione diretta della nostra Chiesa per alcuni progetti caritativi) stanno svolgendo una serie di attività e servizi nelle direzioni più disparate: si va dal Centro di ascolto (con sostegno a persone e famiglie in difficoltà varie) all’Emporio della Solidarietà; dal dormitorio per i senza fissa dimora (in convenzione con il Comune) all’accoglienza per altri soggetti fragili (famiglie e donne con bambini piccoli), dalla Mensa per i poveri (che nello scorso anno ha fatto più di 106.000 pasti), all’accoglienza dei Migranti con strutture convenzionate con la Prefettura e altre a totale carico della diocesi e di chi vuole contribuire (pensiamo al dormitorio di via S. Anastasio per i transitanti o coloro che ancora non sono stati accolti per le lungaggini burocratiche)”.

E’ l’inizio dell’appello del vescovo di Trieste, mons. Enrico Trevisi, alla città, che ha elencato le attività portate avanti dalla Caritas diocesana: “Basti vedere caritastrieste.it dove si legge: 375 volontari; 124 persone operative; 13.810 persone aiutate e sostenute (di cui 861 minori); 19 progetti attualmente attivi… E poi c’è tutto il lavoro delle Caritas e delle San Vincenzo nelle parrocchie o la Mensa dei Cappuccini o di altre associazioni (pensiamo a S. Egidio…): un magma di iniziative, persone, accoglienze, ascolti, dopo-scuola, pacchi viveri, corsi di italiano”.

La situazione illustrata dal vescovo è causata anche da mancati pagamenti da parte delle Istituzioni pubbliche negli anni passati: “Da anni la Fondazione Caritas denuncia una fatica finanziaria, in parte dovuta ai ritardi dei pagamenti delle convenzioni per i migranti e in parte anche ad una fatica organizzativa che si è accumulata: prima che io arrivassi a Trieste i dipendenti accusavano notevoli ritardi nei pagamenti del loro stipendio e così pure i fornitori, nonostante gli elevati mutui e i fidi bancari. Il desiderio è che nella riorganizzazione di questi servizi i dipendenti siano maggiormente tutelati (e ora sono pagati sempre puntualmente) ma anche che possiamo raddrizzare la gestione”.

Quindi grazie all’apporto finanziario della Cei e della Caritas italiana, attraverso l’8Xmille, la diocesi triestina riesce ad aiutare i poveri: “Abbiamo ricevuto un consistente sostegno dalla Conferenza Episcopale Italiana e dalla Caritas Italiana che attraverso i fondi dell’8Xmille ci hanno sostenuto in modo maggiore rispetto a quanto già ogni anno ci viene erogato. Anzi grazie di cuore a tutti coloro che firmano per l’8Xmille per la Chiesa cattolica. A Trieste molti sono i segni di questa carità che raggiunge migliaia di poveri.

Il desiderio è quello di continuare e anzi aumentare la nostra attenzione alle persone fragili, sia attraverso le strutture convenzionate ma anche attraverso quella gratuità che ci porta ad accollarci spese per far fronte ai bisogni di coloro che non sono tutelati dalle leggi e dai sistemi statali”.

Ed ecco l’appello in previsione della stagione invernale: “Servono volontari e servono risorse economiche per implementare questi aiuti. Presto arriverà il freddo e non possiamo restare a guardare e neppure restare a discutere e ritardare quello che la carità esige prontamente.

Da Dio saremo giudicati per come ci siamo comportati davanti ai poveri. Di fronte a problemi complessi ‘non lasciamoci ingannare da soluzioni facili’, ammoniva il papa in visita a Trieste il 7 luglio… Ci ha messo in guardia dal ‘cancro dell’indifferenza’. Per questo chiedo a tutti di lasciarsi coinvolgere e di partecipare. Abbiamo bisogno di volontari (e grazie a quelli che già si stanno spendendo in modo ammirevole) e anche di offerte”.

Per questo il Vangelo è scomodo ma bello, aveva detto nell’omelia in occasione della festa di san Francesco di Assisi: “Il Vangelo è bello: e san Francesco scrive tante pagine di vangelo bello. San Francesco lo vediamo e lo pensiamo in una comunione profonda con il Signore, conformato a Lui nel più profondo del cuore. Ma anche capace di baciare un lebbroso o di predicare alle folle o di scrivere i primi inni in italiano o ad affascinare folle e folle di giovani che si mettono al suo seguito…

San Francesco è il Vangelo bello di Cristo che torna ad essere vivo e ad attrarre tanti giovani che lasciano i desideri di successo attraverso le battaglie, che tralasciano l’esistenza frivola e godereccia che distraeva dal senso vero della vita. Ieri come oggi spesso si è ammaliati da strade che portano alla perdizione: l’onore delle armi, il successo della vittoria, il piacere e il divertimento come nuovi idoli, la ricchezza accumulata e ostentata… Idoli del tempo di Franceso e del nostro tempo! Francesco ci insegna, vivendolo, che c’è un Vangelo bello, di fraternità, di pace, di amicizia, di solidarietà, di incontro anche con il povero, con il ricco, con il musulmano, con il lebbroso di oggi… Seguire Gesù mi autorizza ad un Vangelo bello nella vita concreta”.

Il Vangelo è scomodo, perché interroga la vita di ogni persona: “Il Vangelo è scomodo, perché è vero e non una fiction: e san Francesco ha patito il rigetto di suo padre, l’incomprensione dei suoi frati, il fraintendimento nostro quando lo riduciamo ad un’icona dell’ecologia e del panteismo e di un pacifismo ingenuo.

Il Vangelo è scomodo perché è segno di contraddizione, è accettare persecuzioni e fraintendimenti anche dentro la Chiesa, anche tra i suoi fratelli. E’ anche accettare il silenzio di Dio, come Gesù sulla croce, come san Francesco con le stimmate. Il Vangelo è scomodo perché il mondo non lo riconosce e preferisce le tenebre alla luce, il peccato alla grazia, la violenza al perdono. Vivere le beatitudini, come Francesco le ha incarnate, è scomodo. E’ un modo scorretto di presentarsi al mondo, perché ci si espone o ad essere considerati ridicoli (ingenui, goffi, bizzarri) o ad essere presi come integralisti, come fanatici. Il Vangelo è scomodo perché è vivere nell’amore di Cristo, fino al dono di sé, e per chi ti offende e ti insulta e ti crocifigge”.

Il Vangelo è bello e scomodo, ma è la ‘nostra passione’, ha concluso l’omelia: “Il Vangelo è la nostra passione. Con san Francesco vogliamo che il Vangelo sia la nostra ostinata passione. Cioè come per Francesco deve diventare il desiderio estremo, che ci consuma nell’amore, nell’abbandono a Dio, come Gesù, che è abbandonato dagli uomini e si abbandona al Padre. Il Vangelo che appassiona è il bicchiere d’acqua dato ai fratelli, il restare inginocchiati davanti all’Altissimo Onnipotente buon Signore, la ricerca della pecorella smarrita e la gioia del sapersi cercati dal Signore quando ci siamo perduti, la verità che rende liberi anche di fronte ai prepotenti, il perdono che risana il cuore, la visita all’ammalato che ridà spessore alla vita, la mitezza nei confronti degli arroganti, il silenzio che ti fa sospirare la Parola di Dio e la musica con cui canti il suo amore, l’umile ricostruzione della Chiesa, la condivisione di quello che hai e che sei, l’onore dato ad ogni piccolo e ad ogni povero”.

(Foto: diocesi di Trieste)

Papa Francesco: mari e deserti spazi dove Dio apre strade di fraternità

“E pensiamo ai Paesi in guerra, tanti Paesi in guerra. Pensiamo alla Palestina, a Israele, alla martoriata Ucraina, pensiamo al Myanmar, al Nord Kivu e a tanti Paesi in guerra. Il Signore dia loro il dono della pace”: al termine dell’udienza generale odierna papa Francesco ha rinnovato gli appelli per la pace in quei Paesi martoriati dalla guerra e, ricevendo i partecipanti alla Plenaria dei Vescovi Latini nelle Regioni Arabe (C.E.L.R.A.), ha espresso ‘vicinanza’ per la crisi in Medio Oriente:

“Possiate tenere accesa la speranza! Essere voi stessi, per tutti, segni di speranza, presenza che alimenta parole e gesti di pace, di fratellanza, di rispetto. Una presenza che, di per sé stessa, invita alla ragionevolezza, alla riconciliazione, a superare con la buona volontà divisioni e inimicizie stratificate e indurite nel tempo, che si fanno sempre più inestricabili. Grazie perché siete la fiammella della speranza là dove questa sembra spegnersi!”

Mentre nell’udienza generale papa Francesco non ha svolto la catechesi ma ha offerto una meditazione sul tema ‘Mare e deserto’, tratto dal Salmo 107: “Oggi rimando la consueta catechesi e desidero fermarmi con voi a pensare alle persone che (anche in questo momento) stanno attraversando mari e deserti per raggiungere una terra dove vivere in pace e sicurezza”.

Il papa ha offerto una meditazione sul significato di ‘mare’ e di ‘deserto’: “queste due parole ritornano in tante testimonianze che ricevo, sia da parte di migranti, sia da persone che si impegnano per soccorrerli. E quando dico ‘mare’, nel contesto delle migrazioni, intendo anche oceano, lago, fiume, tutte le masse d’acqua insidiose che tanti fratelli e sorelle in ogni parte del mondo sono costretti ad attraversare per raggiungere la loro meta.

E ‘deserto’ non è solo quello di sabbia e dune, o quello roccioso, ma sono pure tutti quei territori impervi e pericolosi, come le foreste, le giungle, le steppe dove i migranti camminano da soli, abbandonati a sé stessi. Migranti, mare e deserto”.

E’ stato un richiamo alle migrazioni: “Le rotte migratorie di oggi sono spesso segnate da attraversamenti di mari e deserti, che per molte, troppe persone (troppe!), risultano mortali. Per questo oggi voglio soffermarmi su questo dramma, questo dolore. Alcune di queste rotte le conosciamo meglio, perché stanno spesso sotto i riflettori; altre, la maggior parte, sono poco note, ma non per questo meno battute”.

Per il papa il respingimento del migrante è un peccato grave: “E questo, quando è fatto con coscienza e responsabilità, è un peccato grave. Non dimentichiamo ciò che dice la Bibbia: ‘Non molesterai il forestiero né lo opprimerai’. L’orfano, la vedova e lo straniero sono i poveri per eccellenza che Dio sempre difende e chiede di difendere”.

Richiamando il prossimo messaggio per la Giornata del migrante il papa ha sottolineato il valore biblico del mare e del deserto: “In effetti, il mare e il deserto sono anche luoghi biblici carichi di valore simbolico. Sono scenari molto importanti nella storia dell’esodo, la grande migrazione del popolo guidato da Dio mediante Mosè dall’Egitto alla Terra promessa.

Questi luoghi assistono al dramma della fuga del popolo, che scappa dall’oppressione e dalla schiavitù. Sono luoghi di sofferenza, di paura, di disperazione, ma nello stesso tempo sono luoghi di passaggio per la liberazione (e quanta gente passa per i mari, i deserti per liberarsi, oggi), sono luoghi di passaggio per il riscatto, per raggiungere la libertà e il compimento delle promesse di Dio”.

Ed è stato molto chiaro affermando che i migranti non dovrebbero essere in mare o nel deserto: “Ma non è attraverso leggi più restrittive, non è con la militarizzazione delle frontiere, non è con i respingimenti che otterremo questo risultato. Lo otterremo invece ampliando le vie di accesso sicure e le vie di accesso regolari per i migranti, facilitando il rifugio per chi scappa da guerre, dalle violenze, dalle persecuzioni e dalle tante calamità; lo otterremo favorendo in ogni modo una governance globale delle migrazioni fondata sulla giustizia, sulla fratellanza e sulla solidarietà. E unendo le forze per combattere la tratta di esseri umani, per fermare i criminali trafficanti che senza pietà sfruttano la miseria altrui”.

Infine un ‘affondo’ sulla cultura dell’indifferenza: “E chi non può stare come loro ‘in prima linea’ (penso a tanti bravi che stanno lì in prima linea, a Mediterranea Saving Humans e tante altre associazioni), non per questo è escluso da tale lotta di civiltà: noi non possiamo stare in prima linea ma non siamo esclusi; ci sono tanti modi di dare il proprio contributo, primo fra tutti la preghiera.

E a voi domando: voi pregate per i migranti, per questi che vengono nelle nostre terre per salvare la vita? E ‘voi’ volete cacciarli via. Cari fratelli e sorelle, uniamo i cuori e le forze, perché i mari e i deserti non siano cimiteri, ma spazi dove Dio possa aprire strade di libertà e di fraternità”. (Foto: Santa Sede

In Italia si muore ancora per il lavoro

Un’altra morte sul lavoro scuote la diocesi di Roma, e dovrebbe interrogare l’Italia, invitando a non cedere all’indifferenza di fronte alla morte per il lavoro, che dovrebbe essere un diritto: Maurizio Di Pasquale, impiegato dell’Atac è deceduto, nella scorsa settimana, dopo la caduta in un ponte a fossa nel deposito di Tor Vergata, portando solo in questi primi cinque mesi dell’anno a 369 decessi (il 3,1% in più rispetto all’anno precedente).

Un numero molto elevato al punto che mons. Francesco Pesce, incaricato dell’Ufficio per la Pastorale Sociale, del Lavoro e della Custodia del Creato della Diocesi di Roma, ha affermato che ogni morte per il lavoro è inaccettabile: “La morte è il segno più eloquente della fragilità della nostra vita davanti alla quale curviamo il capo ed eleviamo lo Spirito. Morire sul luogo di lavoro è sempre inaccettabile e ci richiama a sempre più urgente corresponsabilità, non solo a livello istituzionale ma prima ancora sociale, come cittadini costruttori di morale sociale”.

E’ un invito a rendere indifferenti queste tragedie: “Non cada nella indifferenza questa ennesima tragedia. L’indifferenza è un problema culturale, e la cultura dell’indifferenza è l’opposto dell’amore di Dio e nessuno di noi può essere sicuro di rimanere immune da questa malattia morale e spirituale. L’indifferenza è un demone molto insidioso perché come un serpente si insinua a poco a poco, giorno dopo giorno, spesso si maschera anche di bene, e ti fa dire: io non c’entro, non mi riguarda, non è colpa mia. L’indifferenza ci ruba l’anima, ci disumanizza e ci trasforma da cittadini, ad egoistiche ed egocentriche maschere”.

Anche le Acli di Roma, attraverso la presidente Lidia Borzì, ha chiesto un serio confronto per una maggior tutela dei lavoratori, rinnovando le condoglianze alla famiglia: “Purtroppo, sono quasi quotidiane le notizie di persone che perdono la vita sul posto di lavoro, e questa è una realtà che non possiamo più accettare.

Anche in attesa che vengano comprese e chiarite le cause di questa tremenda tragedia, c’è bisogno di avviare un confronto urgente che coinvolga tutti gli attori interessati affinché andare al lavoro torni a essere un’opportunità e non un rischio, e affinché a ogni lavoratore venga garantita la possibilità di svolgere la propria mansione in piena sicurezza e con tutte le tutele previste dalla legge”.

Secondo le informazioni a disposizione dell’Inail le denunce di infortunio con esito mortale sono state nei primi 5 mesi del 2024: 369 (+3,1% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente), nell’incremento sono stati determinanti gli incidenti mortali plurimi. In aumento le patologie di origine professionale denunciate, pari a 38.868 (+24,0%).

Le denunce di infortunio sul lavoro presentate entro il quinto mese del 2024 sono state invece 251.132 (+2,1% rispetto a maggio 2023 e in diminuzione del 22,4% rispetto allo stesso periodo del 2022), con un aumento più rilevante per gli incidenti avvenuti nel tragitto casa-lavoro.

A livello nazionale l’Inail (pur nella provvisorietà dei numeri) segnala un incremento dei casi avvenuti in occasione di lavoro, passati da 271 a 286, ed un calo di quelli in itinere, da 87 a 83. Tra i comparti, i più toccati sono stati Industria e servizi, che passa da 310 a 312 denunce mortali, l’Agricoltura (da 36 a 40) e il Conto Stato (da 12 a 17).

Dall’analisi territoriale emergono incrementi al Sud (da 68 a 83 denunce), nelle Isole (da 31 a 37) e nel Nord-Est (da 77 a 78) e cali al Centro (da 74 a 65) e nel Nord-Ovest (da 108 a 106). Tra le regioni con i maggiori aumenti si segnalano l’Emilia-Romagna (+15), la Campania (+7), la Calabria e la Sicilia (+5 ciascuna), mentre per i cali più evidenti Veneto (-14), Marche, Abruzzo, Umbria e Friuli-Venezia Giulia (-4 ciascuna).

Il confronto con l’anno mostra aumenti sia per la componente maschile, le cui denunce mortali sono passate da 331 a 340, sia per quella femminile, da 27 a 29, con una diminuzione delle denunce dei lavoratori italiani (da 296 a 290) ed un aumento di quelle degli extracomunitari (da 52 a 61) e dei comunitari (da 10 a 18). L’analisi per classi di età evidenzia incrementi tra i 35-39enni (da 18 a 20 casi), tra i 45-59enni (da 152 a 186) e tra i 65-69enni (da 20 a 29) e riduzioni tra gli under 35 (da 69 a 55), tra i 40-44enni (da 24 a 23), tra i 60-64enni (da 58 a 39) e tra gli over 69 anni (da 17 a 16).

Secondo l’Inail, nel 2023 sono stati segnalati quasi tre morti sul lavoro al giorno: complessivamente sono state 1.041 le denunce di morti bianche giunte all’Inail in 12 mesi. Sempre nello scorso anno, l’Inail ha stimato che ci siano stati 15 incidenti mortali plurimi, vale a dire quelli in cui hanno perso la vita due o più lavoratori. Le vittime sono state in totale 36.

Mentre le denunce sugli infortuni sul lavoro, presentate all’Inail tra gennaio e dicembre dello scorso anno, sono state oltre 585.000, in calo del 16,1% rispetto alle 697.773 del 2022: “Riduzione che sembra essere dovuta quasi esclusivamente al minor impatto dei casi Covid che avevano caratterizzato i precedenti rilevamenti”. Sono risultate, invece, in aumento le denunce di malattia professionale rilevate allo scorso 31 dicembre: quasi 73.000 (+19,7% rispetto al 2022).

Nello specifico, il 73,7% delle patologie denunciate nel 2023 erano riferibili agli uomini, in sostanziale stabilità con il 2022, ed anche la distribuzione territoriale non ha registrato variazioni significative rispetto all’anno precedente, con la concentrazione maggiore delle denunce nelle regioni del Centro (36,8%), seguito da Sud (25,4%), Nord-Est (18,9%), Isole (9,5%) e Nord-Ovest (9,4%).

‘Memoriale della Shoah’, come ricordare perché non accada mai più

“Cari fratelli e sorelle, stiamo vivendo un momento di travaglio doloroso. Guerre e divisioni stanno aumentando in tutto il mondo. Siamo davvero, come ho detto tempo addietro, in una sorta di ‘guerra mondiale a pezzi’, con gravi conseguenze per la vita di molte popolazioni. Anche la Terra Santa, purtroppo, non è stata risparmiata da questo dolore, e dal 7 ottobre è precipitata in una spirale di violenza senza precedenti. Il mio cuore è lacerato alla vista di quanto accade in Terra Santa, dalla potenza di tante divisioni e di tanto odio. Tutto il mondo guarda a quanto accade in quella Terra con apprensione e con dolore. Sono sentimenti che esprimono vicinanza speciale e affetto verso i popoli che abitano la terra che è stata testimone della storia della Rivelazione”.

Così iniziava la lettera indirizzata agli ebrei da papa Francesco, in cui condannava l’antisemitismo e l’antigiudaismo; alla prof.ssa Milena Santerini, docente di pedagogia generale all’Università Cattolica di Milano e vicepresidente della Fondazione ‘Memoriale della Shoah’ di Milano, chiediamo di spiegarci il motivo per cui stanno risorgendo antisemitismo ed antigiudaismo:

“L’antisemitismo non è mai scomparso dalla società; è sempre stato nel ‘sommerso’ e nei momenti di crisi riemerge, prendendo nuove forme. Dobbiamo affermare che per quanto riguarda l’antigiudaismo la Chiesa ha fatto molti progressi dal punto di vista teologico. Ma ci sono tante forme di neo antisemitismo, come quella che proviene dal nazifascismo, ma anche quella forma di tipo cospiratoria di odio verso Israele, che dopo gli avvenimenti tragici del 7 ottobre è riemersa in modo importante”.

‘A questo proposito, dato che si è giustamente parlato di male assoluto, penso che occorra riflettere sul fatto che non si arriva così, un giorno per caso, a un assoluto. Ci si arriva attraverso un lungo percorso nel quale ogni passaggio è funzionale a rendere possibile, a rendere accettato, a rendere addirittura condiviso da molti, quel male’: è un passaggio del discorso della senatrice Liliana Segre nel ricordare la partenza di un convoglio di deportati da Milano. In quale modo è possibile tramandare memoria di ciò che è avvenuto?

“Questa sintesi della senatrice Liliana Segre è perfetta per indicare come dobbiamo fare memoria della Shoah, cosa che purtroppo non abbiamo fatto. Non bisogna solo celebrare, giustamente, le vittime; ma anche ricordare i meccanismi per cui si è arrivato a tale efferatezza. Ai giovani spesso chiedo: pensate che all’improvviso gli italiani ed i tedeschi fossero diventati sadici?

No, c’è stato un percorso di manipolazione delle coscienze all’antisemitismo, che ha permesso di arrivare agli esiti estremi. Questo è il senso che dobbiamo dare riguardo l’educazione sulla Shoah, facendo comprendere i meccanismi che l’hanno provocata, oggi”.

Allora, con quali strumenti occorre contrastare i linguaggi ostili?

“Come Coordinatrice nazionale per la lotta contro l’antisemitismo per la Presidenza del consiglio dei ministri fino al 2022 ho elaborato una strategia, in cui ho richiamato tutti gli strumenti a nostra disposizione e tutte le Istituzioni hanno svolto il loro compito: ci sono strumenti politici, che vietano l’apologia del fascismo, che ancora esiste; abbiamo strumenti culturali, come la scuola.

Abbiamo elaborato linee guida contro l’antisemitismo nella scuola, che sono strumenti sia per gli insegnanti che per i ragazzi; azioni contro l’antisemitismo negli stadi. Abbiamo, insomma, elaborato strumenti, che vanno dalla repressione alla prevenzione; sono soprattutto strumenti culturali, che possiamo usare”.

Per quale motivo sono in aumento i linguaggi di odio, specialmente nei social network?

“L’odio ha trovato un habitat molto favorevole in internet, che è uno strumento meraviglioso. Purtroppo i social media hanno bisogno di provocare emozioni per poter avere la nostra attenzione. Quindi per rimanere fedeli alle piattaforme bisogna suscitare emozioni, molto spesso in forma negativa. L’odio è sempre esistito e non è nato nel web; però, diciamo che ci sono strutture all’interno dei social media, che facilitano odio”.

Allora come si può sconfiggere l’indifferenza?

“L’indifferenza può essere ‘sconfitta’ attraverso il dialogo con tutti, facendo capire le conseguenze del pensiero prevenuto, cercando di non banalizzare mai la Shoah; cercando di far capire che l’antisemitismo è un odio molto pericoloso, perché cerca un capro espiatorio negli ebrei. L’indifferenza è indice di uno sfogo all’odio, che non dobbiamo consentire. Dobbiamo dialogare.

Abbiamo i luoghi della memoria. Abbiamo costituito una rete nei principali luoghi della memoria italiana, cioè i memoriali della Shoah, come ‘Binario 21’ nella stazione di Milano o il campo di concentramento di Fossoli, la Risiera di san Sabba, MEIS di Ferrara, Museo di Roma, Ferramonti di Tarsia in Calabria. Questi luoghi raccontano la Shoah, ma ci narrano anche le cause che l’hanno prodotta”.

Cosa è ‘Memoriale Shoah’?

“L’area dove oggi sorge il Memoriale della Shoah di Milano originariamente era adibita alla movimentazione dei vagoni postali, e tra il 1943 e il 1945 fu il luogo in cui migliaia di ebrei e oppositori politici furono caricati su vagoni merci, trasportati al sovrastante piano dei binari. Una volta posizionati alla banchina di partenza venivano agganciati ai convogli diretti ad Auschwitz- Birkenau, Mauthausen e altri campi di sterminio e di concentramento, o ai campi italiani di raccolta come quelli di Fossoli e Bolzano.

Esso è un luogo simbolo della deportazione degli ebrei e degli altri perseguitati verso i campi di concentramento e di sterminio. Ma anche luogo di memoria e di conoscenza; un centro polifunzionale dove ospitare incontri, dibattiti, mostre per ricordare le atrocità del passato e, soprattutto, dove creare occasioni di dialogo e di confronto fra le culture e per educare i giovani a superare le barriere linguistiche, culturali, sociali e perché la barbarie del XX secolo che vide nella Shoah il segno del massimo degrado dell’umanità, non possa ripetersi”.

(Tratto da Aci Stampa)

La spiritualità nei giovani? Una ricerca continua e poca conoscenza

La secolarizzazione avanza in Occidente e non solo, ma la situazione potrebbe essere un po’ più complessa e meno univoca di quanto si potrebbe pensare, secondo lo studio presentato a fine febbraio alla Pontificia Università della Santa Croce a Roma, dove sono stati illustrati i risultati di un’indagine internazionale su giovani, valori e religione promossa dal gruppo di ricerca ‘Footprints. Young People: Expectations, Ideals, Beliefs’ dello stesso ateneo insieme ad altre sette università nel mondo e col supporto dell’agenzia di sondaggi spagnola Gad3.

Uno dei risultati che si può osservare dai dati raccolti è che nonostante quel processo di secolarizzazione avanzi, esso corre parallelamente ad una minore ma significativa tendenza opposta: un aumento della fede vissuta per convinzione, che si sostituisce alla religione ‘socioculturale’, quella cioè vissuta per mera tradizione.

L’inchiesta si è svolta nei mesi di novembre e dicembre dello scorso anno in otto Paesi (Argentina, Brasile, Italia, Kenya, Messico, Filippine, Spagna e Regno Unito) su un campione di 4.889 giovani tra i 18 e 29 anni di età. Una indagine attenta alle differenze culturali tra i vari Paesi, dove alcune tendenza sono più marcate (ad esempio in Kenya, Filippine e Brasile, dove tra l’82% e il 92% dei giovani si identifica come ‘credente’) rispetto ad altre realtà (Argentina, Spagna e Italia tra il 48% e il 52%), e qualche sorpresa (il 63% dei giovani inglesi si definisce ‘credente’).

In questa ricerca emerge anche la forza della componente femminile tra i credenti con una grande percentuale di donne che dichiarano la propria fede in Paesi come Kenya (93%), Filippine (83%) e Brasile (81%), e in generale il numero di donne cattoliche è più alto anche a livello globale (52%).

In questa ricerca il dato più interessante è che l’Italia sia l’unico Paese in cui alla domanda ‘Credi in Dio?’ risponde in maniera consistente (ben il 32%) indicando l’opzione: ‘Sono in ricerca’, come ha sottolineato Cecilia Galatolo, dottoranda presso la stessa Pontificia Università e parte del team che ha partecipato alla ricerca.

Per la dott.ssa Galatolo “a livello nazionale la fede cattolica è molto radicata e tutti ricevono una infarinata di educazione religiosa, quindi in qualche modo anche tra coloro che lasciano si nota una sorta di nostalgia”. La rottura tra giovani e parrocchia avviene proprio ‘tra gli 11 e i 14 anni, in cui ci si allontana pur conservando spesso un buon ricordo’ ed è anche dovuto a questo quel dato relativo all’essere in ‘ricerca’.

Nella fascia 18-29 anni i giovani italiani si dichiarano credenti per il 35% del totale degli intervistati e uno su due cattolico, anche se poi soltanto una minoranza va a messa almeno una volta al mese. Ugualmente il 53% crede nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, e percentuali analoghe sull’efficacia dei Sacramenti. Eppure solo il 6% dichiara di fermarsi a pregare davanti al Santissimo Sacramento.

A lei abbiamo chiesto di spiegarci cosa si evince da questa ricerca: “Per quanto riguarda l’Italia, emerge che la maggioranza dei giovani ha interesse per il tema religioso. Si è dichiarato indifferente alla spiritualità neanche un giovane su dieci (9%), mentre il 35% ha dichiarato di credere in Dio, contro un 11% che ha ‘smesso di credere’ e un 9% che dice di non aver mai creduto. Un dato rilevante, che vediamo solo nel nostro Paese è la grande presenza di ‘dubbiosi’ o ‘speranzosi’ nell’esistenza di Dio. ci riferiamo a colore che provano a credere in Dio (16%) o non sanno se possono credere in Dio oppure no (16%).

Gli incerti sono quindi un buon 32% (dato nettamente superiore rispetto a tutti gli altri paesi coinvolti nell’indagine). Dunque, possiamo affermare che la maggior parte dei giovani italiani o hanno fede o la stanno cercando. Questo è dovuto al fatto che l’Italia si trova in un momento delicato: da un lato il richiamo alla fede e alla spiritualità è ancora forte nel Paese. Quasi tutti i giovani hanno ricevuto il battesimo e una prima formazione cristiana. La cultura, però, li spinge a guardare oltre Dio, a ‘secolarizzarsi’ come gran parte del resto d’Europa. Il giovane italiano è quindi spesso diviso, scisso”.

Chi sono i giovani intervistati?

“Una ditta di sondaggi particolarmente rilevante in Spagna, GAD3 ha preso in carico il lavoro di somministrare un questionario (formulato dal team di ricercatori delle università degli otto paesi coinvolti) e di elaborare percentuali per ciascuna delle domande poste ai ragazzi. Nel caso italiano, i giovani intervistati sono ragazzi tra i 18 e i 29 anni, di tutto il Paese e di ogni estrazione sociale. Tuttavia, all’interno del questionario c’erano domande rivolte solo ai cattolici (per capire quale idea hanno sulla Chiesa e sui sacramenti) e domande rivolte solo agli atei (per capire se rimanesse in loro nostalgia del sacro)”.

Per quale motivo i giovani sono alla ricerca di spiritualità?

“Per quel motivo per cui la fede dà senso alla vita, la rende più bella. Secondo i giovani intervistati, inoltre, la fede si associa alla capacità di perdonare e di essere solidali gli uni con gli altri.  Alla domanda rivolta solo agli atei se, nonostante non credano in Dio, a volte sia capitato loro di pregare o se lo facciano nei momenti particolari della vita, più di uno su due (52%) ha risposto di sì”.

I giovani come vivono la realtà parrocchiale?

“La religione maggioritaria è quella cattolica, sebbene non con una maggioranza schiacciante (50%). Il dato non è molto alto, se si considera il numero dei battezzati; ma in Spagna, altro Paese di tradizione cattolica, è emerso che solo il 35% dei giovani credenti in una qualche religione si dichiara cattolico. Alla domanda su quando i giovani hanno smesso di credere in Dio, l’età che viene segnalata sia in Italia che in Spagna, per esempio, è tra gli 11 e i 14 anni.

Anche confrontando i nostri dati con altre ricerche si può evincere che la Chiesa (nello specifico le parrocchie) potrebbero fare di più per avvicinarsi al mondo dei giovani, che spesso percepiscono ‘noia e formalità’ negli ambienti parrocchiali. Ciò non toglie che tra gli intervistati cattolici la Chiesa sia percepita nella maggioranza dei casi (64%) come un’istituzione umana e divina voluta da Gesù per il bene degli uomini. Questo ci dice che, tra coloro che restano o che ritornano alla Chiesa dopo i 18 anni, l’immagine della Chiesa è sostanzialmente positiva e che il rapporto con essa sia significativo nella loro vita”.

Quale rapporto hanno con la preghiera?

“Un dato interessante è che, se viene chiesto quale immagine associno di più a Dio (a prescindere che credano o no), per i giovani coinvolti nella ricerca di tutti i Paesi della ricerca la risposta più gettonata è ‘Qualcuno che ci ama e ha misericordia’, mentre la meno dichiarata è ‘un giudice che mi controlla’. Quindi i giovani, quando si rivolgono a Dio – i più con preghiere già formulate da altri, ma molti anche a parole proprie – si rivolgono ad un Dio-amore.

Tuttavia, tra i cattolici manca ancora una piena consapevolezza sul fatto che Dio sia “Qualcuno” con cui entrare in una relazione intima e confidenziale, ad esempio attraverso i sacramenti. Un dato che fa riflettere è che il 53 % dei cattolici (quindi uno su due) è convinto che Gesù sia realmente non simbolicamente presente nell’Eucaristia (il 26% non sa rispondere e il 21% – dei cattolici – afferma che non c’è presenza reale). Nonostante circa un cattolico su due creda nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, solo il 6% (meno di un cristiano su 10) afferma di pregare davanti al Santissimo Sacramento. Tra i giovani dichiaratamente cattolici, il 35% frequenta la messa settimanalmente.

Un dato molto utile per fotografare la situazione della fede tra i giovani italiani è quello sulla confessione. Il 67% dei cattolici ne riconosce l’importanza (tra loro, il 17% dichiara che è un aspetto fondamentale). Tra coloro che non vanno a confessarsi, è interessante notare che solo il 14% di dichiara di ‘non avere peccati da farsi perdonare’. Il 51% riconosce di avere bisogno di perdono e lo chiede direttamente a Dio. Insomma, i giovani cattolici, nella maggior parte dei casi, non hanno smarrito l’idea di aver bisogno del perdono di Dio”.

In quale modo i conciliano fede e sessualità?

Parlando del campione dei cattolici, solo il 13% dei giovani entro i 29 anni sono sposati sacramentalmente, cioè in Chiesa, tuttavia, il 66% di loro, quindi sei cattolici su dieci, riconoscono l’importanza del matrimonio in Chiesa e vorrebbero vivere questo passo. L’aspetto su cui i giovani italiani prendono maggiormente le distanze dall’insegnamento della Chiesa è però quello sulla sessualità.

E’ evidente come in Spagna ed in Italia ci sia una maggiore apertura alla pornografia (metà degli intervistati dichiara che non danneggia la vita affettiva) e si vede con favore la pratica dell’utero in affitto (59% degli intervistati).

Più del 60% dei giovani italiani non riconosce l’esistenza di un modo buono ed un modo cattivo di vivere la sessualità: tutto è lecito, perché è il soggetto a stabilire ciò che è bene e ciò che è male per sé. Su questo punto, la maggior parte dei giovani si discosta da ciò che la religione cristiana propone”.

(Tratto da Aci Stampa)

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