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Le condizioni umanitarie a Gaza sono in peggioramento

“Il Patriarcato Latino di Gerusalemme segue con grave preoccupazione la notizia dei raid, apparentemente lanciati dall’esercito israeliano, contro la Scuola della Sacra Famiglia a Gaza questa mattina. I filmati e i resoconti dei media provenienti dal luogo includono scene di vittime civili e di distruzione del complesso. Di proprietà del Patriarcato latino di Gerusalemme, la scuola della Sacra Famiglia è stata, fin dall’inizio della guerra, un luogo di rifugio per centinaia di civili. Nella scuola non risiede personale religioso”: così il Patriarcato latino di Gerusalemme, nella scorsa settimana, ha condannato l’attacco ai civili senza garanzia che gli stessi non rimangano coinvolti nei combattimenti.

Inoltre sono trascorsi 9 mesi dallo scorso 7 ottobre e p. Carlos Ferrero, superiore provinciale dell’Istituto del Verbo Incarnato, ha raccontato al portale del Patriarcato di Gerusalemme la vita a Gaza, che nei giorni scorsi ha riaccolto p. Gabriel Romanelli: “Dal 2019 ho visitato molte volte la parrocchia di Gaza, essendo un superiore provinciale, ma con mia grande sorpresa la mia presenza qui a quest’ora ha avuto un suo impatto. Me ne sono reso conto quando la gente ha cominciato a chiedermi se sarei andato via quando il Patriarca sarebbe dovuto rientrare. ‘Te ne vai? Rimarrai per qualche tempo? Quanto tempo ti fermerai?’

Quando ho detto loro che ero venuto per restare fino a quando Dio mi avesse permesso di stare qui, sono diventati molto felici e ho capito che questo dava loro la speranza che fosse successo qualcosa di buono. Anche se non ho fatto nulla per creare aspettative o alimentare speranze. E’ solo il fatto di essere qui con loro, di condividere le loro paure e sofferenze quotidiane, di pregare insieme ogni giorno in mezzo a un grande rumore”.

Inoltre ha raccontato in quale modo stanno vivendo questa guerra: “La gente è molto stanca, ma deve sopportare la situazione. Hanno perso interesse nello sviluppo del processo per ovvie ragioni. L’unica cosa che sperimentano è la sofferenza. Sentono una buona parola e subito dopo è tutto il contrario. Sono stanchi di questo! Facciamo del nostro meglio per essere vicini a tutti. A volte solo per ascoltare ciò che hanno da dire, condividendo con loro parole di conforto, aiutandoli come possiamo.

Poiché non c’è scuola, p. Gabriel ha organizzato delle classi di sostegno, insegnando ai bambini le principali materie scolastiche. Hanno incluso l’inglese e mi hanno chiesto di aiutarli. Ora insegno ai bambini dalla prima alla quarta elementare. I bambini sono molto colpiti da questi nove mesi di guerra e di assenza di scuola. Hanno i nervi a fior di pelle.

A poco a poco stanno diventando più interessati e stanno imparando le basi. Tra di noi c’è una brava insegnante, la signora Sherin, una vera educatrice, che li ha aiutati con la traduzione e le metodologie.  Poiché sono giovani, non capiscono se parlo solo in inglese. E’ allora che la signora Sherin dà un grande contributo e aiuta tutti noi. Tuttavia, cerchiamo il più possibile di rendere lo studio un’attività divertente. Ci proviamo!”

Mentre Amnesty International è ‘profondamente preoccupata’ per la situazione di Gaza, anche per le denunce di sparizioni forzate di massa, per l’assenza di informazioni su palestinesi della Striscia di Gaza arrestati dalle forze israeliane: “Il 16 dicembre l’Ufficio dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite sui diritti umani ha affermato di aver ricevuto ‘numerose inquietanti denunce’ dal nord della Striscia di Gaza circa ‘arresti di massa, maltrattamenti e sparizioni forzate’, che potrebbero riguardare migliaia di palestinesi, minorenni inclusi.

Nelle fotografie e nei filmati verificati dal Crisis Evidence Lab di Amnesty International si vedono le forze israeliane sottoporre a trattamenti inumani e degradanti palestinesi arrestati a Beit Lahia, nella Striscia di Gaza settentrionale. La sorte di molti di questi detenuti rimane sconosciuta. Altri palestinesi di Gaza, compresi lavoratori e altre persone con permesso d’ingresso in Israele, restano in sparizione forzata. Le autorità israeliane hanno confermato le morti in custodia di almeno sei palestinesi in loro custodia, a ottobre e a novembre, tra cui due lavoratori di Gaza”.

Le preoccupazioni di Amnesty International per la sorte dei detenuti di Gaza sono ancora più forti alla luce delle immagini, diffuse recentemente e verificate dal Crisis Evidence Lab di Amnesty International, che mostrano uomini palestinesi costretti a stare in ginocchio sul pavimento, in mutande e con le mani bendate, coi soldati israeliani sopra di loro: “Le scene angoscianti provenienti da Gaza dovrebbero portare a una condanna internazionale e necessitano un’indagine urgente e di misure per prevenire ulteriori atti di tortura, sparizioni forzate e altri crimini di diritto internazionale. Il mondo deve assicurare che tali azioni non vengano normalizzate, bensì riconosciute come un oltraggio all’umanità”.

Ed allo stesso tempo Amnesty International ha ribadito il suo appello ad Hamas e ad altri gruppi armati di Gaza, affinché liberino immediatamente e senza condizioni tutti gli ostaggi civili, trattino umanamente tutte le persone che hanno catturato e permettano al Comitato internazionale della Croce rossa l’accesso agli ostaggi e ai prigionieri: “Il sequestro di ostaggi e il rapimento di civili sono crimini di guerra. Riprendere con le telecamere e diffondere testimonianze degli ostaggi, come nel video di tre uomini anziani ostaggi civili, pubblicato dal braccio armato di Hamas il 18 dicembre, costituiscono trattamenti inumani e degradante”.

Aiuto alla Chiesa che Soffre in aiuto dei cristiani

Nei giorni scorsi è stato reso noto il Rapporto annuale di ACS (Aiuto alla Chiesa che Soffre), in cui si evidenzia che nello scorso anno l’istituzione religiosa ha ricevuto donazioni e lasciti per € 143.700.000, che insieme ad € 800.000 di riserve dell’anno precedente, ha permesso ad ACS di finanziare attività per un valore di € 144.500.000 con offerte da quasi 360.000 benefattori privati ​​presenti nei 23 Paesi in cui ACS ha sedi nazionali. 

L’81,3% di questi fondi è stato destinato alle spese relative alla missione. All’interno di questa cifra, l’85,9% è andato a progetti di aiuto in 138 paesi (5.573 progetti approvati su 7.689 richieste ricevute). Il restante 14,1%, pari ad € 16.600.000, è stato destinato ad attività di informazione, proclamazione della fede e difesa dei cristiani perseguitati.

Il Paese che ha ricevuto maggiori aiuti è l’Ucraina: € 7.500.000; seguita dal Siria, con € 7.400.000 ed il Libano con € 6.900.000. Particolare attenzione per l’Africa che ha ricevuto il maggior sostegno: il 31,4% delle risorse. La presidente esecutiva di ACS Internazionale, Regina Lynch ha commentato: “L’Africa è la patria di circa un cattolico su cinque, di un sacerdote su otto, di una religiosa su sette e di quasi un terzo dei seminaristi nel mondo. Oltre a ciò, la diffusione del terrorismo e dell’estremismo islamico in alcuni Paesi, soprattutto nella regione del Sahel, è causa di grande sofferenza per i cristiani di questo continente”.

Con il 19,1% di aiuti, il Medio Oriente rappresenta la seconda regione a ricevere il maggior numero di aiuti. Il 61% dei fondi inviati in Siria è destinato ad aiuti di emergenza, tra cui cibo e alloggio, assistenza medica e microcredito per le imprese. In Libano, gli aiuti d’urgenza hanno rappresentato il 47% del totale e sono stati destinati alle scuole cristiane, al cibo, agli alloggi e alle cure mediche. 

Inoltre ACS ha fatto giungere a 40.767 sacerdoti € 1.075.000 di offerte per la celebrazione di Messe. Ciò significa che un sacerdote su 10 nel mondo ha ricevuto sostegno da ACS e che, in qualche parte del mondo, ogni 18 secondi è stata celebrata una Messa secondo le intenzioni dei benefattori.  Inoltre, grande sostegno per la formazione di quasi 11.000 seminaristi: il sostegno alla formazione di sacerdoti, religiosi e laici ha rappresentato il 26,7% di tutto l’aiuto garantito, mentre le offerte per le Messe e gli aiuti di sussistenza per le religiose sono stati pari al 21,6%. 

In particolare Aiuto alla Chiesa che Soffre ha sottolineato che dopo 13 anni dall’inizio della guerra, la Siria è ancora nel caos, come ha raccontato l’arcivescovo di Homs dei Siri, mons. Jacques Mourad. Nel Paese la situazione sanitaria è drammatica: i farmaci sono sempre più costosi, gli ospedali sono danneggiati e non funzionano a pieno regime, e il 90% della popolazione vive in povertà estrema. Per molte persone, curarsi è diventato un lusso impossibile. Il salario medio mensile corrisponde ad appena 10 euro, mentre l’inflazione annuale supera il 139%.

Per quanto riguarda la situazione in Terra Santa, mons. William Shomali, vescovo ausiliare di Gerusalemme e Vicario patriarcale per la Palestina, in un colloquio con Aiuto alla Chiesa che Soffre Italia (ACS Italia), ha fornito un aggiornamento sulla drammatica situazione dei cristiani di Terra Santa. Quanto ai fedeli presenti nella Striscia di Gaza, il prelato ha ricordato che ‘a Gaza prima della guerra vivevano 1.017 cristiani’. Dopo lo scoppio del conflitto ‘la maggior parte di loro si è rifugiato nel complesso parrocchiale latino e una minoranza in quello greco-ortodosso’.

Questi sfollati “soffrono per la mancanza di elettricità, acqua potabile e cibo. Nei giorni scorsi, per fortuna, hanno potuto acquistare sacchi di farina. Una volta hanno ricevuto polli congelati, che dovevano essere cucinati e consumati in giornata perché non avevano frigoriferi… Inoltre la maggior parte dei cristiani ha visto le proprie case distrutte. Vivono nelle aule delle nostre scuole.

Una stanza di classe per una o due famiglie. Perciò, non potremo riprendere l’attività scolastica finché le famiglie non avranno ricostruito i loro appartamenti. Chi ricostruirà? Nessuno conosce quale sarà la situazione a Gaza all’indomani della guerra. Va da sé che continuiamo a pagare l’intero stipendio agli insegnanti delle nostre due scuole, altrimenti perderebbero l’unico reddito di cui dispongono”.

(Foto: ACS)

Da Milano un ‘grido’ contro il peccato e la guerra

“Sinceramente dimoriamo nello stupore e pratichiamo la riconoscenza: viviamo, infatti, di una vita ricevuta. Ogni risveglio è il tempo per lodare il Signore, come ci insegna la Chiesa che propone le Lodi come preghiera del mattino. Veramente il criterio del nostro agire è la docilità al Signore che dona il suo Santo Spirito perché tutto cooperi al bene di coloro che amano Dio e in ogni situazione aiuta a riconoscere l’occasione per amare. L’atteggiamento spirituale della docilità allo Spirito di Dio (Spirito di verità, di sapienza, di fortezza) convince a vivere le celebrazioni liturgiche e la preghiera in modo che siano principio di conformazione a Gesù, costante risposta alla vocazione, deciso proposito di conversione”.

Inizia in questo modo la proposta pastorale del prossimo anno che l’arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, propone per resistere al male continuando con tenacia e sapienza a educare e operare per la pace, richiamando la Lettera di san Paolo ai Corinzi e gli scritti di santa Teresa d’Avila e sant’Ignazio di Loyola, in quanto “lo smantellamento della nostra superbia apre uno spazio in cui si fa percepibile in modo limpido che tutto è frutto del dono del Signore, potenza sua che si manifesta proprio nella nostra debolezza… Questo ci dona anche la chiarezza e il coraggio di dire ‘basta’ a quanto fa dimenticare il dono del Signore o a quanto lo contrasta esplicitamente”.

Ed ha ricordato anche l’importanza del Concilio di Nicea, in cui è ribadito che Gesù è Figlio di Dio: “Questa drammatica vicenda ha condotto alla professione di fede del Concilio di Nicea, nell’anno 325, che è parte fondamentale del simbolo niceno-costantinopolitano proclamato nelle nostre assemblee durante le celebrazioni domenicali e festive. Si compiono nel 2025 i 1700 anni dal Concilio di Nicea: è provvidenziale ricordare e celebrare quell’evento e approfondire la parola difficile e irrinunciabile che i padri di Nicea hanno formulato per dire la loro fede: il Figlio è della stessa sostanza del Padre.

Come possiamo dire questa verità perché non sia solo una formula da ripetere? Come può l’affermazione della verità della relazione del Figlio con il Padre essere fonte di vita e di pensiero per il nostro tempo e per la proclamazione della verità cristiana a coloro che ci domandano ragione della nostra fede?”

E’ un richiamo a vivere la canonizzazione di Carlo Acutis: “L’anno liturgico ci fa celebrare anche la ricchezza e la fecondità della grazia nella vita dei santi. A questo proposito condividiamo la gioia per la notizia tanto attesa della canonizzazione del beato Carlo Acutis. Nella vita di Carlo si realizza la parola di Paolo che ho voluto richiamare all’inizio di questa mia lettera.

In Carlo Acutis adolescente vedo l’espressione di questa debolezza umana, che è nostro tratto caratteristico: una fragilità (come affermiamo comunemente) che non smentisce la grazia di Dio ma, al contrario, diventa la condizione fondamentale per poterla accogliere e ospitare. In Carlo Acutis adolescente vedo la sincera sensibilità e attenzione verso i più poveri: non ha fatto delle fragilità altrui l’occasione di un giudizio, ma le ha vissute come una vocazione. In Carlo Acutis adolescente vedo i segni di una malattia improvvisa e spietata, vissuta come occasione per decidersi nell’amicizia di Gesù”.

Però il prossimo anno sarà caratterizzato, soprattutto, dal Giubileo della Chiesa universale con un richiamo alla tradizione biblica della sospensione dello sfruttamento intensivo della terra, a cui dedica un capitolo intitolato ‘Lasciate riposare la terra’: “La tradizione operosa che caratterizza le nostre comunità e l’inclinazione spontanea degli operatori pastorali sono esposte alla tentazione di diventare un protagonismo frenetico. Ritengo pertanto doveroso richiamare a riconoscere il primato della grazia e quindi l’irrinunciabile dimorare nella dimensione contemplativa della vita, nell’ascolto della Parola e nella centralità della Pasqua di Gesù che si celebra nell’Eucaristia”.

Quindi ha avanzato alcune proposte: “Nell’anno giubilare è opportuno che ci sia un tempo, per esempio il mese di gennaio, non tanto per ulteriori riunioni e discussioni, ma per sospendere, per quanto è possibile, le attività ordinarie e vivere un ‘tempo sabbatico’, dedicato non a fare qualche cosa, ma a raccogliersi in una preghiera più distesa, in conversazioni più gratuite, in serate familiari più tranquille”.

Perciò dalla dimensione personale e comunitaria del peccato, la riflessione si sposta poi su quella sociale, con riferimento in particolare ai conflitti in corso: “Noi figli e figlie di Dio, discepoli di Gesù e tutti gli uomini e le donne di buona volontà e di buon senso, dobbiamo essere uniti nel gridare: basta con la guerra! La fiducia nell’umanità, nelle istituzioni, nella cultura, nelle religioni è messa a dura prova. Ci sembra di essere inascoltati da politici impotenti e forse inclini piuttosto a incrementare gli armamenti che a costruire la pace”.

Il documento è completato da una seconda parte (‘Annuncio, missione, sinodalità: ricordati del cammino percorso’) in cui mons. Delpini ripercorre i passi compiuti dalla Chiesa ambrosiana “con l’intenzione di mettere al centro la missione, così da farne memoria riconoscente, per rilanciare il suo cammino, in obbediente ascolto a quanto il Sinodo dei Vescovi e il cammino sinodale delle Chiese in Italia ci stanno proponendo”.

Infine sono ricordate tappe fondamentali come la creazione delle Comunità pastorali (sotto l’episcopato del card. Tettamanzi), la celebrazione del Sinodo minore “Chiesa dalle genti” e più recentemente la creazione delle Assemblee sinodali decanali e il rinnovo dei Consigli pastorali di Parrocchie e Comunità pastorali, che è un incoraggiamento a non abbandonare l’impegno civile: “Ci sentiamo incoraggiati dallo Spirito del Signore (continuamente lo invochiamo) che mantiene viva la fiducia, motiva moltissime persone all’impegno generoso e lieto e fa emergere risorse e disponibilità inattese.

In questa terra, terra di santi e di futuro, la comunità cristiana si confronta con una società innovativa, operosa, aperta e insieme incerta, spaventata, disperata (di cui si sente parte) e, come il Concilio Vaticano II testimonia, prova simpatia per gli uomini e le donne di questo tempo e di questo luogo in cui convergono persone da ogni parte del mondo. Insieme con tutta la Chiesa italiana la comunità cristiana ambrosiana vive la fecondità del seme, del sale, del lievito perché si conferma e si riconosce come il tralcio unito alla vite che solo così può portare molto frutto, secondo la promessa e lo stile di Gesù”.

(Foto: Diocesi di Milano)

La guerra infinita della Repubblica Democratica del Congo

La Repubblica Democratica del Congo è uno degli Stati più grandi e più ricchi di risorse naturali del continente africano, ma i molteplici conflitti interni nel Paese hanno prodotto una forte instabilità che ha portato con sé una crisi umanitaria complessa, tantoché al termine dell’Angelus dell’ultima domenica dello scorso febbraio papa Francesco aveva chiesto la pace: “Seguo con preoccupazione l’aumento delle violenze nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo. Mi unisco all’invito dei Vescovi a pregare per la pace, auspicando la cessazione degli scontri e la ricerca di un dialogo sincero e costruttivo”.

Infatti nell’ultimo giorno di febbraio è iniziato il ritiro ufficiale della Monusco dall’est della Repubblica Democratica del Congo, istituita nel 2005 con il mandato di proteggere i civili e mantenere la sicurezza nell’area, con il processo di smobilitazione che si concluderà entro il 31 dicembre 2024 e metterà fine alla presenza della missione nel paese, durata 25 anni. Attualmente sono circa 15.000 i peacekeeper Onu dispiegati nelle tre province più problematiche della regione, Sud Kivu, Nord Kivu e Ituri.  

Per comprendere meglio la situazione nella Repubblica Democratica del Congo abbiamo contattato Claudio Ceravolo, presidente di ‘COOPI – Cooperazione Internazionale’: “Proprio in questi giorni è ricorso il 30* anniversario del genocidio che ha sconvolto il Rwanda nel 1994 e che ha fatto precipitare la situazione politica e militare nella vicina Repubblica Democratica. del Congo. Trent’anni di guerra hanno causato quella che probabilmente è la crisi umanitaria più complessa al mondo, un susseguirsi di guerre locali che hanno causato globalmente più di tre milioni di morti e una situazione di grave insicurezza, particolarmente nelle regioni orientali del Paese”.

Perché è una guerra ‘infinita’?

“La Repubblica Democratica del Congo non ha mai vissuto un periodo di pace duraturo e stabile. L’indipendenza del Paese dalla colonizzazione belga, nel 1960, ha fatto precipitare il paese nella guerra civile; con l’ascesa al potere del presidente Mobutu la situazione securitaria è migliorata, ma a prezzo di una dittatura che ha mantenuto le tensioni nascoste sotto la cenere. La guerra nel vicino Rwanda nel 1994 ha riversato nel paese oltre due milioni di rifugiati, che hanno fatto nuovamente precipitare la situazione politica e scatenare nel 1996 quella che viene chiamata la ‘prima guerra del Congo’, estesa su tutte le regioni del paese”. 

E’ possibile un percorso di pace?

“Percorsi di pace sono sempre possibili, se lo si vuole veramente. Qualche elemento di speranza è dato dal fatto che oramai si è instaurato un meccanismo democratico abbastanza consolidato, che ha portato nel 2019 ad una alternanza pacifica alla Presidenza della Repubblica tra Joseph Kabila e Felix Tshisekedi. In tutto il Paese in questi giorni si stanno svolgendo le elezioni regionali e questo si sta svolgendo senza particolari tensioni. Ciò detto, non migliora la situazione nelle regioni orientali, dove forti interessi economici legati al controllo delle risorse minerarie rendono pessimisti sulla possibilità di un percorso di pace”.

Anche l’Europa, qualche mese fa, aveva condannato l’incitamento all’odio ed alla xenofobia, nonché le politiche basate sull’etnia: quale ruolo può avere l’Europa nella riappacificazione?

“Se è vero, come è vero, che le cause del conflitto nell’Est del Congo sono essenzialmente economiche, l’Europa potrebbe fare molto. Un esempio ci può aiutare: negli anni ’90 del secolo scorso, in Liberia e Sierra Leone è scoppiata una guerra civile motivata soprattutto dalla volontà di controllare le miniere di diamanti, che venivano poi esportati illegalmente dai gruppi armati con la complicità di alcune società multinazionali. 

Nel 2000 a Kimberly gli Stati esportatori ed importatori si sono accordati su un processo di certificazione (il cosiddetto ‘Kimberley Process’) volto a garantire che i profitti ricavati dal commercio di diamanti non vengano usati per finanziare guerre civili, e questo ha portato all’estinguersi della violenza in quei paesi.  Un accordo simile dovrebbe essere esteso anche alle terre rare, all’oro, e a tutte le ricchezze esportate illegalmente dall’Est del Congo.

Purtroppo però il 19 febbraio l’Unione Europea ha firmato un accordo di cooperazione per lo sfruttamento delle materie prime con il Rwanda; ora, il Rwanda non ha praticamente nessuna risorsa mineraria, e i minerali da essa esportati provengono quasi esclusivamente dal contrabbando, che serve poi a finanziare i gruppi ribelli che spadroneggiano nell’est del Congo. Aldilà di un ruolo politico per contrastare in modo efficace le attività illegali, non va però dimenticato che l’Unione Europea è oggi il più importante finanziatore delle attività umanitarie nella Repubblica Democratica del Congo: moltissime attività in sostegno dei gruppi più vulnerabili, svolte da COOPI o da altre organizzazioni della società civile, non esisterebbero senza i fondi europei. E’ evidente che questo aiuto non può e non deve affievolirsi”.

Come aiutare in ‘casa loro’?

“Per prima cosa ascoltando, analizzando le diverse situazioni per trovare le soluzioni meglio adattate alle diverse realtà. Nel campo della cooperazione non ci sono modelli prefabbricati da applicare, ma è necessario aver sempre presente che noi siamo ospiti in casa altrui”.

Cosa fa il Coopi per le popolazioni del Congo?

“Siamo presenti nella Repubblica Democratica del Congo dal 1977; questo ci ha permesso di conoscere profondamente il Paese e di rispondere in maniera efficace ai bisogni della popolazione. Per migliaia di bambini e mamme malnutrite svolgiamo attività di prevenzione, cura e supporto nutrizionale; svolgiamo attività di formazione sulle buone pratiche igieniche e riabilitiamo pozzi e latrine; per far fronte alle crisi alimentari forniamo cibo e sementi e formiamo gli agricoltori sulle tecniche di coltivazione e vendita dei prodotti agricoli.

Riserviamo particolare attenzione alle donne e ai bambini sopravvissuti/e alle violenze attraverso un supporto psico-sociale e l’assistenza sanitaria gratuita; gestiamo progetti di prevenzione e protezione contro il reclutamento forzato dei bambini nei gruppi armati, il sostegno ai sopravvissuti alle violenze di genere e ad altri casi di violazioni dei diritti umani in contesti di conflitto integrando l’assistenza per il reinserimento scolastico e professionale.

Oggi abbiamo 19 progetti che coinvolgono circa 700.000 persone in Kasai Centrale, Kasai Orientale, Haut-Katanga, Bas-Uelé, Nord-Kivu e Ituri. I nostri principali settori d’intervento sono il contrasto alla malnutrizione infantile e la protezione di bambini e donne vittime di violenza, attraverso un’assistenza trasversale che include attività di sostegno psicosociale, reinserimento educativo e reintegrazione socio-economica”.

(Tratto da Aci Stampa)

Giornata dei poveri: la preghiera dei poveri sale a Dio

Domenica 17 novembre è in programma l’ottava giornata mondiale dei poveri sul tema ‘La preghiera dei poveri sale fino a Dio’, affermazione tratta dal libro del Siracide con l’invito a riflettere sul valore della preghiera in questi mesi che separano dall’apertura della Porta Santa:

“La speranza cristiana abbraccia anche la certezza che la nostra preghiera giunge fino al cospetto di Dio; ma non qualsiasi preghiera: la preghiera del povero! Riflettiamo su questa Parola e ‘leggiamola’ sui volti e nelle storie dei poveri che incontriamo nelle nostre giornate, perché la preghiera diventi via di comunione con loro e di condivisione della loro sofferenza”.

Nel messaggio c’è un solerte invito a meditare su questo libro biblico: “Il libro del Siracide, a cui facciamo riferimento, non è molto conosciuto, e merita di essere scoperto per la ricchezza di temi che affronta soprattutto quando tocca la relazione dell’uomo con Dio e il mondo. Il suo autore, Ben Sira, è un maestro, uno scriba di Gerusalemme, che scrive probabilmente nel II secolo a.C.

E’ un uomo saggio, radicato nella tradizione d’Israele, che insegna su vari campi della vita umana: dal lavoro alla famiglia, dalla vita in società all’educazione dei giovani; pone attenzione ai temi legati alla fede in Dio e all’osservanza della Legge. Affronta i problemi non facili della libertà, del male e della giustizia divina, che sono di grande attualità anche per noi oggi. Ben Sira, ispirato dallo Spirito Santo, intende trasmettere a tutti la via da seguire per una vita saggia e degna di essere vissuta davanti a Dio e ai fratelli”.

In questo libro l’autore dà molto spazio alla preghiera di chi si rivolge a Dio: “In questo suo percorso, egli scopre una delle realtà fondamentali della rivelazione, cioè il fatto che i poveri hanno un posto privilegiato nel cuore di Dio, a tal punto che, davanti alla loro sofferenza, Dio è ‘impaziente’ fino a quando non ha reso loro giustizia…

Dio conosce le sofferenze dei suoi figli, perché è un Padre attento e premuroso verso tutti. Come Padre, si prende cura di quelli che ne hanno più bisogno: i poveri, gli emarginati, i sofferenti, i dimenticati… Ma nessuno è escluso dal suo cuore, dal momento che, davanti a Lui, tutti siamo poveri e bisognosi”.

Ed è un’esortazione a rivolgersi a Dio attraverso la preghiera: “Tutti siamo mendicanti, perché senza Dio saremmo nulla. Non avremmo neppure la vita se Dio non ce l’avesse donata. E, tuttavia, quante volte viviamo come se fossimo noi i padroni della vita o come se dovessimo conquistarla! La mentalità mondana chiede di diventare qualcuno, di farsi un nome a dispetto di tutto e di tutti, infrangendo regole sociali pur di giungere a conquistare ricchezza. Che triste illusione! La felicità non si acquista calpestando il diritto e la dignità degli altri”.

Il messaggio è una esplicita denuncia contro la guerra, che provoca povertà: “La violenza provocata dalle guerre mostra con evidenza quanta arroganza muove chi si ritiene potente davanti agli uomini, mentre è miserabile agli occhi di Dio. Quanti nuovi poveri produce questa cattiva politica fatta con le armi, quante vittime innocenti! Eppure, non possiamo indietreggiare. I discepoli del Signore sanno che ognuno di questi ‘piccoli’ porta impresso il volto del Figlio di Dio, e ad ognuno deve giungere la nostra solidarietà e il segno della carità cristiana”.

Riprendendo l’esortazione apostolica ‘Evangelii Gaudium’ papa Francesco ha evidenziato l’esigenza di alimentare la preghiera: “In questo anno dedicato alla preghiera, abbiamo bisogno di fare nostra la preghiera dei poveri e pregare insieme a loro. E’ una sfida che dobbiamo accogliere e un’azione pastorale che ha bisogno di essere alimentata…

Tutto questo richiede un cuore umile, che abbia il coraggio di diventare mendicante. Un cuore pronto a riconoscersi povero e bisognoso. Esiste, infatti, una corrispondenza tra povertà, umiltà e fiducia… Il povero, non avendo nulla a cui appoggiarsi, riceve forza da Dio e in Lui pone tutta la sua fiducia. Infatti, l’umiltà genera la fiducia che Dio non ci abbandonerà mai e non ci lascerà senza risposta”.

Tale Giornata è un’opportunità da non sottovalutare: “E’ un’opportunità pastorale da non sottovalutare, perché provoca ogni credente ad ascoltare la preghiera dei poveri, prendendo coscienza della loro presenza e necessità. E’ un’occasione propizia per realizzare iniziative che aiutano concretamente i poveri, e anche per riconoscere e dare sostegno ai tanti volontari che si dedicano con passione ai più bisognosi. Dobbiamo ringraziare il Signore per le persone che si mettono a disposizione per ascoltare e sostenere i più poveri”.

La preghiera trova validità nella carità, come ha affermato nella sua lettera l’apostolo Giacomo: “La preghiera, quindi, trova nella carità che si fa incontro e vicinanza la verifica della propria autenticità. Se la preghiera non si traduce in agire concreto è vana… Tuttavia, la carità senza preghiera rischia di diventare filantropia che presto si esaurisce… Dobbiamo evitare questa tentazione ed essere sempre vigili con la forza e la perseveranza che proviene dallo Spirito Santo che è datore di vita”.

In questo senso papa Francesco sottolinea l’esempio di santa Madre Teresa di Calcutta e di san Benedetto Giuseppe Labre: “In questo contesto è bello ricordare la testimonianza che ci ha lasciato Madre Teresa di Calcutta, una donna che ha dato la vita per i poveri. La Santa ripeteva continuamente che era la preghiera il luogo da cui attingeva forza e fede per la sua missione di servizio agli ultimi…

E come non ricordare qui, nella città di Roma, San Benedetto Giuseppe Labre, il cui corpo riposa ed è venerato nella chiesa parrocchiale di Santa Maria ai Monti. Pellegrino dalla Francia a Roma, rifiutato da tanti monasteri, egli trascorse gli ultimi anni della sua vita povero tra i poveri, sostando ore e ore in preghiera davanti al Santissimo Sacramento, con la corona del rosario, recitando il breviario, leggendo il Nuovo Testamento e l’Imitazione di Cristo. Non avendo nemmeno una piccola stanza dove alloggiare, dormiva abitualmente in un angolo delle rovine del Colosseo, come ‘vagabondo di Dio’, facendo della sua esistenza una preghiera incessante che saliva fino a Lui”.

Il messaggio si chiude con l’invito a farsi ‘pellegrino di speranza’, come è scritto nell’esortazione apostolica ‘Gaudete et exsultate’, in un mondo che ha abbandonato la parola ‘speranza’: “Non dimentichiamo di custodire ‘i piccoli particolari dell’amore’: fermarsi, avvicinarsi, dare un po’ di attenzione, un sorriso, una carezza, una parola di conforto… Questi gesti non si improvvisano; richiedono, piuttosto, una fedeltà quotidiana, spesso nascosta e silenziosa, ma resa forte dalla preghiera.

In questo tempo, in cui il canto di speranza sembra cedere il posto al frastuono delle armi, al grido di tanti innocenti feriti e al silenzio delle innumerevoli vittime delle guerre, rivolgiamo a Dio la nostra invocazione di pace. Siamo poveri di pace e tendiamo le mani per accoglierla come dono prezioso e nello stesso tempo ci impegniamo a ricucirla nel quotidiano”.

Henri, in esilio senza fine a Niamey

La terza guerra mondiale in realtà c’è già stata e non accenna a terminare. Solo che i riflettori erano puntati altrove, su mondi e morti più importanti. Morire nel Congo della Repubblica Democratica, l’ex. Zaire di Mobutu Sese Seko, non è la stessa cosa che altrove dove la statua al milite ignoto glorifica gli eroi e i martiri della libertà. Nulla di tutto ciò per gli stimati 10.000.000 di morti e delle 500.000 donne violentate strada facendo nel Congo.

Lo ‘scandalo geologico’ della RDC, che possiede i migliori giacimenti delle terre ‘rare’ per l’elettronica e l’informatica, ha solo facilitato il protrarsi delle guerre telecomandate dall’esterno e pagate a caro prezzo all’interno. Le coalizioni di vari Paesi africani e appoggi, in soldi, armi e logistica delle Grandi Potenze con interessi sul campo, hanno creato in questi anni una lunga guerra senza fine.

Per questo motivo, come tanti altri, Henri ha abbandonato una delle regioni più sfortunatamente ricche del suo Paese, la Repubblica Democratica del Congo, all’età 22 anni e. da allora, non vi è più tornato. Ha visto massacrare chi scappava dal martoriato Ruanda e poi, strada facendo, la nascita e lo sviluppo di gruppi armati al soldo di ditte e potenze straniere ‘affamate’ di risorse minerarie. Henri si trova a Niamey, col doppio degli anni dal giorno del suo esodo dal Paese natale e non è neppure riconosciuto dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.

Ha smesso di esistere dal punto di vista giuridico. Non è ‘rifugiato’, non è ‘migrante’, non è ‘sfollato’, non ha lavoro, non ha famiglia, non ha identità e solo gli rimane ciò che si ostina a chiamare un futuro. Per arrivare nel Benin, dove ha soggiornato per 11 anni con lo statuto di rifugiato, aveva attraversato il Centrafrica, il Cameroun e la Nigeria. Alla fine le autorità, per ragioni politiche, hanno ritenuto che il suo statuto non era più sostenibile e allora Henri è partito in Ghana pensando di avere migliore fortuna con l’Alto Commissariato per i Rifugiati basato a Ginevra, in Svizzera.

Pensa dunque di prendere il proprio destino in mano per tentare di attraversare il mare di Mezzo che osserva con timore coloro che hanno l’ardire sfidarne il mistero. Abbandona dunque il Ghana e, con un lungo viaggio, raggiunge l’Algeria, una delle sponde del Mediterraneo. Ivi Henri è arrestato, detenuto e infine deportato alla frontiera col Niger e, nel 2019, è accolto dall’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni.

Siccome Henri non vuole tornare nella sua regione di origine ancora in guerra, per motivi umanitari è affidato all’Alto Commissariato per i Rifugiati. Passa altri 4 anni come richiedente asilo in un campo-villaggio non lontano  da Niamey chiamato Hamdallay, per vedere, infine, la sua domanda di asilo definitivamente respinta. L’istituzione gli offre una modica somma di denaro come ‘liquidazione’e Henri trova una camera da affittare in uno dei nuovi quartieri alla periferia della capitale, Niamey 2000.

La vita di Henri, nel suo cercare invano una terra d’asilo a causa della guerra permanente nel suo paese appare come una delle metafore del nostro tempo. Entrambi, lui, il suo Paese e milioni di persone celebrano nel complice e assordante silenzio del mondo che conta, un esilio senza fine. Henri abita in uno dei quartieri del futuro di Niamey perché, in quella zona, gli affitti sono meno cari.

Frontiere di Pace, da una parrocchia di Como alla gente in Ucraina

Il conflitto, deflagrato il 24 febbraio 2022, continua a essere caratterizzato da bombardamenti indiscriminati nelle aree civili che non risparmiano scuole, ospedali, centri comunitari, abitazioni. L’economia di base è pressoché ferma e la vita di ogni giorno dipende quasi totalmente dagli aiuti umanitari. Però gli aiuti alla popolazione ucraina non si ferma e continua attraverso i viaggi di molte associazioni, come quelli organizzati dai volontari  del gruppo ‘Frontiere di pace’, legato alla parrocchia di Santa Maria Assunta di Maccio in Villa Guardia, in provincia di Como, con l’obiettivo di portare cibo e solidarietà alla popolazione ucraina attraverso la presenza diretta, sul campo, mettendoci il corpo. Per raccogliere i bisogni reali della popolazione si appoggiano a p. Ihor Boyko, rettore del seminario greco cattolico di Lviv.

A conclusione dell’ultima missione al coordinatore dell’associazione ‘Frontiere di pace’, Giambattista Mosa, chiediamo di raccontarci la situazione in Ucraina: “La situazione in Ucraina è in lento peggioramento da un punto di vista strettamente legato ai rapporti di forza sul campo, ma credo che questo sia ormai palese a tutti. Ciò che posso aggiungere è la grande speranza che la gente incontrata da noi, ci consegna, di poter resistere all’invasione delle forze armate russe, mantenendo i loro villaggi e città libere dall’occupazione”.

Perché ‘Frontiere di pace’?

“La pace è un valore immenso, senza la quale manca tutto. Noi lo vediamo ad ogni missione. La gente chiede pace. La pace però è qualcosa da costruire senza ingenuità nelle condizioni storico concrete in cui la gente si trova a vivere. Questo ci hanno insegnato le persone che incontriamo durante le nostre missioni. La pace sta alla “frontiera”, nelle situazioni di discontinuità tra popoli e culture, “confini, frontiere” storicamente determinati, ma sempre mutevoli e negoziabili, soprattutto confini e discontinuità dell’ingiustizia e della violenza.

Proviamo a pensare alla pace dentro queste complessità senza ingenuità, la pace sulla frontiera, cercando di coniugare pace e giustizia. Soprattutto, pensare alla frontiere non esclusivamente come luogo della differenza e discontinuità, ma anche della comunicazione e della vicinanza, del contatto, dello scambio, qualcosa di permeabile. Il nostro modo concreto di pensare la pace è praticare la solidarietà,  tramite le nostre missioni umanitarie indirizzate alle vittime, a tutte le vittime della guerra da noi raggiungibili”.

Quale è il vostro ‘metodo’?

“L’associazione svolge missioni umanitarie e di pace ‘sul campo’, nelle situazioni di grave marginalità, povertà ed oppressione in cui popoli e gruppi umani si trovano a sopravvivere. Operiamo soprattutto nelle zone di conflitto ed assenza di pace. Missioni umanitarie perché ci preoccupiamo di fornire direttamente beni di prima necessità (cibo, medicinali, vestiti ed attrezzature varie, ecc.), indispensabili alle persone che vivono in situazioni di emergenza e conflitto. Progettiamo anche interventi post emergenza e microprogetti di sviluppo (‘Un tetto per Kharkiv’, biblioteca di Izjum…).

Missioni di pace perché ci mettiamo il ‘corpo’, noi stessi, ovvero facciamo esperienza diretta, sul “campo” delle persone che incontriamo, cercando di trasmettere solidarietà e vicinanza, per spezzare l’esclusione, e l’isolamento che le persone in aree di conflitto sono costrette a subire. Ci mettiamo in atteggiamento empatico e di ascolto, incorporando sensazioni, fatiche, speranze, desideri, ideali ed emozioni. Raccogliamo le testimonianze, facciamo parlare le vittime, riportando alle nostre comunità le sensazioni ed emozioni che abbiamo incorporato, raccontando le vittime con le loro parole, nel loro contesto e situazione. Il nostro è un punto di vista interno vicino all’esperienza delle persone che incontriamo sul ‘campo’.

Pensiamo la pace ed il dialogo a partire dal punto di vista aderente all’esperienza delle vittime e alla nostra esperienza incorporata. Progettiamo la pace alla frontiera, sui confini di discontinuità, leggendo il confine non solo come divisione e separazione immutabile ma, permeabile alle relazioni tra popoli, dentro una visione di rispetto per le specificità storiche, culturali e identitarie di ogni popolo, nel rispetto di una pace giusta e praticabile. Promuoviamo il dialogo e l’incontro.

Infine evidenzio soltanto il valore dell’ascolto: le persone che incontriamo chiedono di essere ascoltate, chiedono di raccontare la loro storia. Noi iniziamo sempre mettendoci in ascolto, un ascolto umile e attento. Solo ascoltando le vittime possiamo ‘comprendere’ la situazione che stanno vivendo, solo su questo ascolto è possibile  pensare alla pace”.

In quale modo portate sollievo alla popolazione?

“Noi vogliamo essere concreti. Le nostre missioni umanitarie, portano cibo, medicinali, igiene, vestiti direttamente a chi ne ha bisogno, senza intermediari. Ascoltiamo ciò che la gente racconta e ne raccogliamo le storie;  portando la nostra testimonianza  e sensibilizzando le nostre comunità, le scuole, i gruppi… Costruiamo rapporti di amicizia, solidarietà e vicinanza con le comunità destinatarie delle nostre missioni umanitarie”.

In cosa consistono le missioni umanitarie e di pace?

“Le missioni consistono nel trasportare tramite furgoni e bilici, il materiale che generosamente le nostre comunità ci donano (cibo, vestiti, farmaci, igiene…). Trasportiamo e portiamo questi beni, che danno sollievo alla popolazione civile, direttamente dove la gente ne ha bisogno. Le nostre destinazioni sono la chiesa greco cattolica di san Nikola taumaturgo a Kharkiv, di san Demetrio a Kharkiv e il monastero greco cattolico dei padri Basiliani di Kherson. Ci accompagna e ci guida sempre nelle nostre missioni il rettore del seminario greco cattolico dello Spirito Santo, padre Ihor Boyko.

Ci accompagna anche suor Oleksia delle suore di san Giuseppe; hanno una piccola sede a Kharkiv. Con lei andiamo nei villaggi dell’oblast di Kharkiv (Izjum) e dell’Oblast di Donietsk; ci spingiamo fino a Kramatorsk, e Kostantinvka. Facciamo microprogetti con varie realtà (ospedale di Izjum, Ospedale di Dryzisvka, comunità di padre Pietro a Izjum…). Tutto ciò costituisce le nostre missioni umanitarie e di pace, aiuto materiale e sostegno alla speranza di un futuro di pace e libertà delle comunità che incontriamo”.

E’ possibile ricostruire un futuro di riconciliazione?

“La riconciliazione è qualcosa che si può fare in due. Non dipende solo dagli ucraini. Prevede un cammino lungo, doloroso e faticoso, ma necessità della volontà di entrambi. Una signora, durante l’ultima missione nello scorso marzo mi disse: ‘E’ molto difficile perdonare, tutto questo male che ci hanno fatto e ci stanno facendo…, forse con il tempo…, gli ucraini hanno un grande cuore…’. Il perdono è possibile, ma emerge dall’ascolto, dal riconoscere le sofferenze e le speranze delle persone, delle vittime;  da qui, forse in futuro, sarà possibile la riconciliazione, che è qualcosa da costruire e volere insieme”.

(Tratto da Aci Stampa)

Il Teatro del Dramma Popolare si interroga sulla fede con la ‘Sfida di Gerusalemme’

E’ nel Dna del Teatro dei Cielo quella ricerca complessa degli interrogativi che scuotono le coscienze. Succede così, dal 1947 ad oggi per mano della Fondazione Istituto del Dramma Popolare di San Miniato, oggi guidato da Marzio Gabbanini. E quest’anno, per la scena sacra di piazza Duomo, è tempo di ‘Chi sei Tu? La Sfida di Gerusalemme’, versione teatrale del diario del viaggio in Terra Santa di Éric-Emmanuel Schmitt.

Per questo tutti gli spettacoli della Festa del Teatro hanno un unico comune denominatore che, quest’anno, mette sotto la lente la fede al centro di una dura prova in un mondo di dubbi e conflitti, come ha sottolineato il direttore artistico, Masolino D’Amico: “Fra tradizione ed innovazione, questa la linea guida che ogni anno il Festival propone alternando sul palcoscenico autori registi e attori della nuova scena emergente a nomi di spicco della scena teatrale italiana.

Il comune denominatore degli spettacoli del Festival di quest’anno, ‘La fede messa alla prova: una forza di pace interiore, individuale e collettiva, in un mondo di dubbi e conflitti’, trova, negli spettacoli proposti, modalità attuali di essere affrontato dando particolare spazio e rilievo alla promozione di una drammaturgia sia di autori affermati che giovani drammaturghi, di cui valorizzare creatività, capacità multidisciplinari ed espressive, volontà di innovazione”.

Quindi dal presidente della fondazione ‘Istituto Dramma Popolare’ di San Miniato, dott. Marzio Gabbanini, ci siamo fatti raccontare il motivo per cui il teatro si interroga sulla fede: “Il Dramma Popolare, nato nel 1947 dalle macerie fisiche e psicologiche del secondo conflitto mondiale, ha inteso essere, fino dagli esordi, un teatro popolare di ispirazione cristiana alla maniera delle sacre rappresentazioni medievali, ma con l’intento di affrontare tematiche di forte attualità, legate all’evolversi dei tempi, dei bisogni interiori, dei problemi vissuti nella contemporaneità; dunque un teatro moderno, vivo e vitale, in grado di parlare all’uomo di oggi anche attraverso personaggi legati a un passato storico-letterario significativo, potenzialmente proiettati in orizzonti senza tempo, quindi anche i nostri.

Negli anni il Teatro dello Spirito ha inteso rimanere fedele a questi intenti e principi, che costituiscono valori imprescindibili, per essere voce delle aspettative più profonde, spirituali, sociali, culturali di un mondo come il nostro, bello da una parte per le tante conquiste realizzate, ma anche carico di conflitti, di angosce, di problemi irrisolti. Da qui il valore assunto dalla fede come forza individuale e collettiva che spinge ad affrontare ogni genere di difficoltà, ad aprirsi alla speranza, alla solidarietà, alla comprensione umana, alla trascendenza”.

Quali sono gli interrogativi che il ‘Teatro del Cielo’ pone in questa rassegna?

“Nella Rassegna di quest’anno ci si interroga in quali modi la fede possa essere conseguita o mantenuta; spesso si tratta di una conquista faticosa e non semplice in un mondo quale quello attuale in cui l’umanità sembra essere alle prese con problemi di tale portata da sentirsi come sopraffatta da una sorta di impotenza, quasi di rinuncia fatalistica a cercare soluzioni, che possono talvolta apparire irraggiungibili. La fede ci chiama invece a reagire, a lottare, a confidare in Dio e negli uomini di buona volontà anche quando sembrano prevalere un acceso individualismo, la chiusura nel privato, il rifiuto dell’altro da sé”.

Per quale motivo il comune denominatore è la fede?

“Il comune denominatore degli spettacoli è la fede, sempre più spesso messa a dura prova, perché vogliamo testimoniare la sua capacità di renderci caparbi nel bene, tenaci nell’aprirci al dialogo, al confronto costruttivo, decisi nell’abbattere muri e nel creare ponti, come sostiene instancabilmente papa Francesco, soprattutto quando essa sia stata il punto di arrivo di un viaggio interiore teso a dare risposte ai tanti dubbi, agli interrogativi, alle confutazioni della ragione, costretta infine a capitolare senza per questo configgere con la fede stessa”.

La rassegna si apre, giovedì 20 giugno, con ‘Poveri noi – Storia di una famiglia nella tragedia della guerra’ di e con Silvia Frasson: perché la scelta di raccontare una storia ai tempi di guerra?

“La scelta di aprire la rassegna con lo spettacolo di Silvia Frasson ‘Poveri noi’ si lega ad un duplice intento: da una parte, quello di dimostrare come avere fede significhi nutrire ideali nei quali credere fermamente anche a prezzo della vita; dall’altra, quello di richiamarsi al secondo conflitto mondiale come specchio del modo in cui qualsiasi guerra sconvolga, rompa dal profondo la civile convivenza e distrugga con violenza quanto gli uomini hanno faticosamente costruito nella concordia. La storia di Gabriella degli Esposti, Medaglia d’oro al valor militare, eroina e martire partigiana, uccisa insieme al figlio che portava in grembo, rimanda l’immagine di una fede incrollabile negli ideali di libertà, di fratellanza, di giustizia sociale”.

Invece ‘Giobbe, storia di un uomo semplice’, in programma lunedì 1 luglio, racconta il rapporto con Dio nel dramma del dolore: quale è il filo che permette di vivere?

“La scelta del personaggio di Giobbe diventa un ulteriore tassello nella riflessione del Dramma Popolare sul tema della fede, in questo caso messa davvero a dura prova. Giobbe è la figura biblica la cui fede in Dio rimane solida, impossibile da scalfire anche di fronte alle richieste più dure sul piano umano e affettivo.

Giobbe ha tutto, a partire dal benessere economico fino a una bella famiglia, ma Dio gli chiede un sacrificio, ai nostri occhi, disumano, quello di perdere tutto, soprattutto i figli. La sua fede in Dio è dunque più forte di qualsiasi prova. Quale migliore testimonianza del potere della fede, che permette a Giobbe di superare condizioni umanamente tragiche e, in particolare, di continuare a vivere? La fede richiede dunque un totale abbandono a Dio, una fiducia smisurata in Lui”.

Dal 20 al 24 luglio la ‘Festa del Teatro’ chiude con la pièce tratta dal libro ‘La sfida di Gerusalemme’ di Eric-Emmanuel Schmitt, con la regia di Otello Cenci: quale provocazione pone l’autore?

“Il testo di Eric Emmanuel Schmitt, ‘La sfida di Gerusalemme’, rappresenta il momento culminante del viaggio del Dramma Popolare lungo il cammino della Fede. L’autore, su suggerimento della Santa Sede, compie un viaggio in Palestina, nei luoghi in cui Gesù è nato, vissuto e morto crocifisso; prima incerto, poi sempre più colpito da un richiamo, un desiderio sempre più forte di fare esperienza con tutto se stesso, anche in ascolto dei suoni, delle sensazioni, delle percezioni legate a quei luoghi, Schmitt, prima privo di fede in Dio, poi credente, si fa convinto cristiano nella scoperta di quello ‘Sconosciuto’ di cui, in maniera inaspettata, egli ‘sente’ l’odore del corpo, il suo calore; avverte uno sguardo attento, una persona invisibile di cui Schmitt percepisce la vita organica, un Dio fatto uomo che, per amore, rende capaci di amare tutti senza alcuna distinzione, in quanto tutti Suoi figli e quindi tra loro fratelli”.

Perché è sorto l’Istituto del Dramma Popolare?

“Ora si può meglio comprendere perché, nel 1947, nacque il Dramma Popolare: ridare speranza ad un intero popolo dopo il dramma della Seconda guerra mondiale, ma soprattutto aiutare a cercare risposte ai tanti interrogativi di senso che l’individuo si pone sul significato da dare alla propria vita, sul perché di tante distruzioni, esclusioni, rifiuti, sofferenze, ma anche sul valore da attribuire alla fede in mondo contemporaneo sempre più legato al consumismo, al ‘mordi e fuggi’, all’iperconnessione, ad un individualismo esasperato che sembra negare il principio della relazionalità e dell’apertura al dialogo, ma anche alla trascendenza”.

(Tratto da Aci Stampa)

Associazioni cattoliche: la pace è dovere ‘creativo’ per la politica

“Ci siamo incontrati in questi giorni a Trieste per riflettere sul tema della prossima Settimana Sociale, dal titolo ‘Al cuore della democrazia’, e abbiamo condiviso l’urgenza di rivolgere insieme un appello accorato per la Pace ai leader dei Governi, ai rappresentanti delle istituzioni e in particolare a coloro che si candidano a guidare l’Unione Europea”.

Richiamando l’appello di papa Francesco di pregare per la pace l’associazionismo cattolico (Acli, Agesci, Azione Cattolica Italiana, Comunione e Liberazione, Comunità di Sant’Egidio, Movimetno Cristiano dei Lavoratori), Movimento politico per l’unità e Rinnovamento nello Spirito) hanno sottoscritto a Trieste, città che nel prossimo luglio ospiterà la 50^ Settimana Sociale dei Cattolici sul tema della democrazia (‘Al cuore della democrazia’), un appello per la pace rivolto non solo ai governi e ai rappresentanti delle istituzioni, ma anche ai candidati impegnati nelle elezioni europee. Il documento è stato ufficializzato nel mese di maggio durante i lavori svolti nella città giuliana in preparazione all’evento di luglio con la partecipazione di papa Francesco e del presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella.

Nel testo, che nelle prossime settimane sarà possibile sottoscrivere anche da parte da cittadini ed  altre associazioni, movimenti e comunità, è ribadito che alimentare i conflitti non è la soluzione: “La guerra non è mai stata la soluzione dei conflitti e delle tensioni tra popoli e nazioni, ma ha sempre causato morte e sofferenza per tutti e in particolare per i più deboli, che pagano e pagheranno sempre il prezzo più alto”.

Quindi chiaramente le associazioni ribadiscono che la pace è un dovere ‘creativo’ per la politica: “La guerra è una sconfitta del diritto e della comunità internazionale e dell’umanità intera. Conflitti imperversano alle nostre porte, in Ucraina, in Terra Santa e in tanti altri posti del mondo, con armi sempre più potenti e dagli effetti devastanti per le persone e per l’ambiente. In questa ora così terribile per il mondo sentiamo di essere chiamati a una conversione profonda e a dare un giudizio comune e chiaro: la pace è il dovere della politica. Un ostinato e creativo dovere”.

Emiliano Manfredonia (Acli), Francesco Scoppola (Acli), Giuseppe Notarstefano (Azione Cattolica Italiana), Cesare Pozzoli (Comunità e Liberazione), Adriano Roccucci (Comunità di Sant’Egidio), Guglielmo Borri (Movimento Cristiano dei Lavoratori), Argia Albanese (Movimento politico per l’unità), Giuseppe Contaldo (Rinnovamento nello Spirito) hanno sottolineato l’importante ‘ruolo’ del’Unione Europea e la responsabilità a cui sono chiamati gli europei: “L’Unione Europea, sognata sulle macerie della guerra, costruita sull’utopia della pace, ha un ruolo decisivo. E tutti noi ci sentiamo responsabili dell’eredità di politici europei, credenti e non, che hanno anteposto la vita e le ragioni che uniscono dinanzi a ciò che divide”.

Richiamando il monito del presidente della Repubblica Italiana (‘Il mondo ha bisogno di pace, stabilità, progresso, e l’Unione europea è chiamata a dare risposte concrete alle aspirazioni di quei popoli che guardano al più imponente progetto di cooperazione concepito sulle macerie del secondo conflitto mondiale’) l’associazionismo cattolico si appella ai candidati ricordando la responsabilità nei confronti della pace: “Per questo facciamo appello alle forze politiche e a chi si candida alle imminenti elezioni europee perché si assuma esplicitamente la responsabilità di porsi come interlocutore per la pace, proponendo senza riserve la via diplomatica e della vera politica”.

Però la pace non è un impegno solo per la politica, ma riguarda i cittadini, in quanto è un compito educativo difendere la dignità della persona: “Non possiamo rassegnarci al fatto che la retorica bellicistica e la non-cultura dello scontro invada la nostra vita dalle relazioni personali alle relazioni sociali e politiche.

Continueremo a impegnarci sul terreno educativo e formativo, nella solidarietà concreta verso i più deboli e le vittime delle ingiustizie, nel dialogo per il bene comune con le donne e gli uomini di buona volontà. Oggi più che mai, la politica è ‘la più alta forma di carità’ se persegue la pace. Emerga con decisione un impegno condiviso per una Pace fondata sul riconoscimento dell’infinita ed inalienabile dignità della persona”.

Ed il vescovo di Trieste, mons. Enrico Trevisi, presentando la Settimana Sociale ha rimarcato come Trieste sia terra di frontiera con lo sguardo rivolto al futuro, che vive ed è testimone di una profezia: “Una testimonianza che è una sfida continua a procedere nel rispetto reciproco e nella costruzione del bene comune attraverso la partecipazione. Trieste, città nella quale le diverse culture e religioni convivono nel rispetto e nella stima reciproca, si appresta ad accogliere con grande interesse la 50^ Settimana sociale dei cattolici in Italia”.

Il prof. Giovanni Grandi, docente dell’Università degli Studi di Trieste e membro del Comitato scientifico delle Settimane sociali, ha ricordato come questo evento abbia radici antiche, essendo partito, su iniziativa di Giuseppe Toniolo, nel 1907 con l’intento di creare una rete di riflessione sui temi sociali che potesse coinvolgere i cattolici nella vita dell’Italia:

“La dicitura del convegno è cambiata, da ‘cattolici italiani’ a ‘cattolici in Italia’ per includere e dare spazio e voce a sensibilità diverse, quelle di tante persone del mondo cattolico che vivono e lavorano in Italia pur avendo le provenienze più disparate, evidenziando il pluralismo del mondo cattolico, che qui a Trieste si concretizza nella presenza della minoranza slovena, ma anche della comunità croata, filippina, moldava”.

Infine un accenno al titolo dell’imminente edizione delle ‘Settimane sociali’: “Le Settimane si pongono non come evento, ma come un processo che vuole mettersi al servizio del bene comune coinvolgendosi con le dinamiche culturali, sociali e politiche del Paese. L’edizione di Trieste vuole aprirsi alla città attraverso una serie di dibattiti, eventi culturali e spettacoli aperti al pubblico.

Il tema è quello della partecipazione attiva dei cittadini alla vita democratica, tema particolarmente sentito in questo momento storico in Italia e in tutto l’Occidente, segnato da una profonda disaffezione delle persone verso la vita democratica, evidenziata anche dalla crescente quota di astensionismo registrata nelle elezioni”.

(Foto: Acli)

Papa Francesco: lo Spirito Santo guida il popolo di Dio

“Il mio pensiero va alla martoriata Ucraina. L’altro giorno ho ricevuto bambini e bambine che hanno sofferto bruciature, hanno perso le gambe nella guerra: la guerra sempre è una crudeltà. Questi bambini e bambine devono incominciare a camminare, a muoversi con braccia artificiali … hanno perso il sorriso. E’ molto brutto, molto triste quando un bambino perde il sorriso. Preghiamo per i bambini ucraini. E non dimentichiamo Palestina, Israele che soffrono tanto: che finisca la guerra. E non dimentichiamo il Myanmar, e tanti Paesi che sono in guerra. I bambini soffrono, i bambini nella guerra soffrono. Preghiamo il Signore perché sia vicino a tutti e ci dia la grazia della pace”:

al termine dell’udienza generale in piazza san Pietro papa Francesco è tornato ad invocare la pace mel mondo, specialmente in Ucraina ed in Terra Santa, senza dimenticare il Myanmar e gli altri Stati in guerra, mentre in precedenza aveva ricordato san Paolo VI nella sua memoria liturgica con l’invito a leggere l’esortazione apostolica ‘Evangelii Nuntiandi’:

“Oggi celebriamo la memoria liturgica di San Paolo VI, pastore ardente di amore per Cristo, per la Chiesa e per l’umanità. Tale ricorrenza aiuti tutti a riscoprire la gioia di essere cristiani, suscitando un rinnovato impegno nella costruzione della civiltà dell’amore. E mi raccomando, per favore, se avete un po’ di tempo, leggete la lettera di Paolo VI ‘Evangelii Nuntiandi’ che è ancora attuale”.

Inoltre, salutando i fedeli polacchi, ha definito il card. Wyszyński ‘primate del millennio’: “Un pensiero speciale rivolgo ai pellegrini riuniti a Roma nel ricordo orante del beato card. Stefan Wyszyński. Il Primate del Millennio sia per la Chiesa in Polonia e nel mondo un modello di fedeltà a Cristo e alla Madonna. Impariamo da lui la generosità nel rispondere alle povertà del nostro tempo, comprese quelle causate dalla guerra in tanti Paesi, specialmente in Ucraina”.

In precedenza, durante l’udienza generale, papa Francesco aveva dato inizio ad un nuovo ciclo di catechesi dedicato al tema: ‘Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza’, iniziando dall’Antico Testamento, che non è ‘archeologia biblica’: “Faremo questo cammino attraversando le tre grandi tappe della storia della salvezza: l’Antico Testamento, il Nuovo Testamento e il tempo della Chiesa. Sempre tenendo lo sguardo fisso su Gesù, che è la nostra speranza.

In queste prime catechesi sullo Spirito nell’Antico Testamento non faremo ‘archeologia biblica’. Scopriremo invece che quanto è donato come promessa nell’Antico Testamento si è realizzato pienamente in Cristo. Sarà come seguire il cammino del sole dall’alba verso il meriggio”.

Quindi ha iniziato la catechesi spiegando i primi due versetti della Bibbia, che racconta dell’armonia del creato grazie allo Spirito Santo: “Lo Spirito di Dio ci appare come la potenza misteriosa che fa passare il mondo dal suo iniziale stato informe, deserto e tenebroso, al suo stato ordinato e armonioso. Perché lo Spirito fa l’armonia, l’armonia nella vita, l’armonia nel mondo.

In altre parole, è Colui che fa passare dal caos al cosmo, cioè dalla confusione a qualcosa di bello e di ordinato. E’ questo, infatti, il significato della parola greca kosmos, come pure della parola latina mundus, cioè qualcosa di bello, di ordinato, pulito, armonico, perché lo Spirito è l’armonia”.

Mentre nell’Antico Testamento l’azione dello Spirito Santo è solo ‘accennato’, nel Nuovo Testamento la sua azione è molto chiara: “Questa linea di sviluppo diventa chiarissima nel Nuovo Testamento, che descrive l’intervento dello Spirito Santo nella nuova creazione, servendosi proprio delle immagini che si leggono a proposito dell’origine del mondo: la colomba che nel battesimo di Gesù aleggia sulle acque del Giordano; Gesù che, nel Cenacolo, soffia sui discepoli e dice: ‘Ricevete lo Spirito Santo’, come all’inizio Dio aveva alitato il suo soffio su Adamo”.

Ed anche san Paolo parla del rapporto tra lo Spirito Santo ed il creato: “Parla di un universo che ‘geme e soffre come nelle doglie del parto’. Soffre a causa dell’uomo che lo ha sottoposto alla ‘schiavitù della corruzione’. E’ una realtà che ci riguarda da vicino e drammaticamente. L’Apostolo vede la causa della sofferenza del creato nella corruzione e nel peccato dell’umanità che lo ha trascinato nella sua alienazione da Dio. Questo resta vero oggi come allora. Vediamo lo scempio che del creato ha fatto e continua a fare l’umanità, soprattutto quella parte di essa che ha maggiori capacità di sfruttamento delle sue risorse”.

Infine, citando il ‘Cantico delle Creature’ di san Francesco il papa ha sottolineato che lo Spirito Santo opera per trasformare ‘il caos in cosmo’ nelle persone: “Intorno a noi possiamo dire che c’è un caos esterno, un caos sociale, un caos politico: pensiamo alle guerre, pensiamo a tanti bambini e bambine che non hanno da mangiare, a tante ingiustizie sociali, questo è il caos esterno.

Ma c’è anche un caos interno: interno ad ognuno di noi. Non si può sanare il primo, se non si comincia a risanare il secondo! Fratelli e sorelle, facciamo un bel lavoro per fare della nostra confusione interiore una chiarezza dello Spirito Santo: è la potenza di Dio che fa questo, e noi apriamo il cuore perché Lui possa farlo… Chiediamo allo Spirito Santo che venga a noi e ci faccia persone nuove, con la novità dello Spirito”.

(Foto: Santa Sede)

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