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La spiritualità nei giovani? Una ricerca continua e poca conoscenza

La secolarizzazione avanza in Occidente e non solo, ma la situazione potrebbe essere un po’ più complessa e meno univoca di quanto si potrebbe pensare, secondo lo studio presentato a fine febbraio alla Pontificia Università della Santa Croce a Roma, dove sono stati illustrati i risultati di un’indagine internazionale su giovani, valori e religione promossa dal gruppo di ricerca ‘Footprints. Young People: Expectations, Ideals, Beliefs’ dello stesso ateneo insieme ad altre sette università nel mondo e col supporto dell’agenzia di sondaggi spagnola Gad3.

Uno dei risultati che si può osservare dai dati raccolti è che nonostante quel processo di secolarizzazione avanzi, esso corre parallelamente ad una minore ma significativa tendenza opposta: un aumento della fede vissuta per convinzione, che si sostituisce alla religione ‘socioculturale’, quella cioè vissuta per mera tradizione.

L’inchiesta si è svolta nei mesi di novembre e dicembre dello scorso anno in otto Paesi (Argentina, Brasile, Italia, Kenya, Messico, Filippine, Spagna e Regno Unito) su un campione di 4.889 giovani tra i 18 e 29 anni di età. Una indagine attenta alle differenze culturali tra i vari Paesi, dove alcune tendenza sono più marcate (ad esempio in Kenya, Filippine e Brasile, dove tra l’82% e il 92% dei giovani si identifica come ‘credente’) rispetto ad altre realtà (Argentina, Spagna e Italia tra il 48% e il 52%), e qualche sorpresa (il 63% dei giovani inglesi si definisce ‘credente’).

In questa ricerca emerge anche la forza della componente femminile tra i credenti con una grande percentuale di donne che dichiarano la propria fede in Paesi come Kenya (93%), Filippine (83%) e Brasile (81%), e in generale il numero di donne cattoliche è più alto anche a livello globale (52%).

In questa ricerca il dato più interessante è che l’Italia sia l’unico Paese in cui alla domanda ‘Credi in Dio?’ risponde in maniera consistente (ben il 32%) indicando l’opzione: ‘Sono in ricerca’, come ha sottolineato Cecilia Galatolo, dottoranda presso la stessa Pontificia Università e parte del team che ha partecipato alla ricerca.

Per la dott.ssa Galatolo “a livello nazionale la fede cattolica è molto radicata e tutti ricevono una infarinata di educazione religiosa, quindi in qualche modo anche tra coloro che lasciano si nota una sorta di nostalgia”. La rottura tra giovani e parrocchia avviene proprio ‘tra gli 11 e i 14 anni, in cui ci si allontana pur conservando spesso un buon ricordo’ ed è anche dovuto a questo quel dato relativo all’essere in ‘ricerca’.

Nella fascia 18-29 anni i giovani italiani si dichiarano credenti per il 35% del totale degli intervistati e uno su due cattolico, anche se poi soltanto una minoranza va a messa almeno una volta al mese. Ugualmente il 53% crede nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, e percentuali analoghe sull’efficacia dei Sacramenti. Eppure solo il 6% dichiara di fermarsi a pregare davanti al Santissimo Sacramento.

A lei abbiamo chiesto di spiegarci cosa si evince da questa ricerca: “Per quanto riguarda l’Italia, emerge che la maggioranza dei giovani ha interesse per il tema religioso. Si è dichiarato indifferente alla spiritualità neanche un giovane su dieci (9%), mentre il 35% ha dichiarato di credere in Dio, contro un 11% che ha ‘smesso di credere’ e un 9% che dice di non aver mai creduto. Un dato rilevante, che vediamo solo nel nostro Paese è la grande presenza di ‘dubbiosi’ o ‘speranzosi’ nell’esistenza di Dio. ci riferiamo a colore che provano a credere in Dio (16%) o non sanno se possono credere in Dio oppure no (16%).

Gli incerti sono quindi un buon 32% (dato nettamente superiore rispetto a tutti gli altri paesi coinvolti nell’indagine). Dunque, possiamo affermare che la maggior parte dei giovani italiani o hanno fede o la stanno cercando. Questo è dovuto al fatto che l’Italia si trova in un momento delicato: da un lato il richiamo alla fede e alla spiritualità è ancora forte nel Paese. Quasi tutti i giovani hanno ricevuto il battesimo e una prima formazione cristiana. La cultura, però, li spinge a guardare oltre Dio, a ‘secolarizzarsi’ come gran parte del resto d’Europa. Il giovane italiano è quindi spesso diviso, scisso”.

Chi sono i giovani intervistati?

“Una ditta di sondaggi particolarmente rilevante in Spagna, GAD3 ha preso in carico il lavoro di somministrare un questionario (formulato dal team di ricercatori delle università degli otto paesi coinvolti) e di elaborare percentuali per ciascuna delle domande poste ai ragazzi. Nel caso italiano, i giovani intervistati sono ragazzi tra i 18 e i 29 anni, di tutto il Paese e di ogni estrazione sociale. Tuttavia, all’interno del questionario c’erano domande rivolte solo ai cattolici (per capire quale idea hanno sulla Chiesa e sui sacramenti) e domande rivolte solo agli atei (per capire se rimanesse in loro nostalgia del sacro)”.

Per quale motivo i giovani sono alla ricerca di spiritualità?

“Per quel motivo per cui la fede dà senso alla vita, la rende più bella. Secondo i giovani intervistati, inoltre, la fede si associa alla capacità di perdonare e di essere solidali gli uni con gli altri.  Alla domanda rivolta solo agli atei se, nonostante non credano in Dio, a volte sia capitato loro di pregare o se lo facciano nei momenti particolari della vita, più di uno su due (52%) ha risposto di sì”.

I giovani come vivono la realtà parrocchiale?

“La religione maggioritaria è quella cattolica, sebbene non con una maggioranza schiacciante (50%). Il dato non è molto alto, se si considera il numero dei battezzati; ma in Spagna, altro Paese di tradizione cattolica, è emerso che solo il 35% dei giovani credenti in una qualche religione si dichiara cattolico. Alla domanda su quando i giovani hanno smesso di credere in Dio, l’età che viene segnalata sia in Italia che in Spagna, per esempio, è tra gli 11 e i 14 anni.

Anche confrontando i nostri dati con altre ricerche si può evincere che la Chiesa (nello specifico le parrocchie) potrebbero fare di più per avvicinarsi al mondo dei giovani, che spesso percepiscono ‘noia e formalità’ negli ambienti parrocchiali. Ciò non toglie che tra gli intervistati cattolici la Chiesa sia percepita nella maggioranza dei casi (64%) come un’istituzione umana e divina voluta da Gesù per il bene degli uomini. Questo ci dice che, tra coloro che restano o che ritornano alla Chiesa dopo i 18 anni, l’immagine della Chiesa è sostanzialmente positiva e che il rapporto con essa sia significativo nella loro vita”.

Quale rapporto hanno con la preghiera?

“Un dato interessante è che, se viene chiesto quale immagine associno di più a Dio (a prescindere che credano o no), per i giovani coinvolti nella ricerca di tutti i Paesi della ricerca la risposta più gettonata è ‘Qualcuno che ci ama e ha misericordia’, mentre la meno dichiarata è ‘un giudice che mi controlla’. Quindi i giovani, quando si rivolgono a Dio – i più con preghiere già formulate da altri, ma molti anche a parole proprie – si rivolgono ad un Dio-amore.

Tuttavia, tra i cattolici manca ancora una piena consapevolezza sul fatto che Dio sia “Qualcuno” con cui entrare in una relazione intima e confidenziale, ad esempio attraverso i sacramenti. Un dato che fa riflettere è che il 53 % dei cattolici (quindi uno su due) è convinto che Gesù sia realmente non simbolicamente presente nell’Eucaristia (il 26% non sa rispondere e il 21% – dei cattolici – afferma che non c’è presenza reale). Nonostante circa un cattolico su due creda nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, solo il 6% (meno di un cristiano su 10) afferma di pregare davanti al Santissimo Sacramento. Tra i giovani dichiaratamente cattolici, il 35% frequenta la messa settimanalmente.

Un dato molto utile per fotografare la situazione della fede tra i giovani italiani è quello sulla confessione. Il 67% dei cattolici ne riconosce l’importanza (tra loro, il 17% dichiara che è un aspetto fondamentale). Tra coloro che non vanno a confessarsi, è interessante notare che solo il 14% di dichiara di ‘non avere peccati da farsi perdonare’. Il 51% riconosce di avere bisogno di perdono e lo chiede direttamente a Dio. Insomma, i giovani cattolici, nella maggior parte dei casi, non hanno smarrito l’idea di aver bisogno del perdono di Dio”.

In quale modo i conciliano fede e sessualità?

Parlando del campione dei cattolici, solo il 13% dei giovani entro i 29 anni sono sposati sacramentalmente, cioè in Chiesa, tuttavia, il 66% di loro, quindi sei cattolici su dieci, riconoscono l’importanza del matrimonio in Chiesa e vorrebbero vivere questo passo. L’aspetto su cui i giovani italiani prendono maggiormente le distanze dall’insegnamento della Chiesa è però quello sulla sessualità.

E’ evidente come in Spagna ed in Italia ci sia una maggiore apertura alla pornografia (metà degli intervistati dichiara che non danneggia la vita affettiva) e si vede con favore la pratica dell’utero in affitto (59% degli intervistati).

Più del 60% dei giovani italiani non riconosce l’esistenza di un modo buono ed un modo cattivo di vivere la sessualità: tutto è lecito, perché è il soggetto a stabilire ciò che è bene e ciò che è male per sé. Su questo punto, la maggior parte dei giovani si discosta da ciò che la religione cristiana propone”.

(Tratto da Aci Stampa)

La Fondazione Santa Rita da Cascia aderisce all’iniziativa in sostegno di ‘ANGSA’ Umbria e di ‘Mio Fratello è Figlio Unico’

La Fondazione Santa Rita da Cascia rinnova il suo sostegno in favore dei diritti delle persone con autismo, facendo illuminare di blu la Basilica della santa della cui carità si è fatta portavoce, in modo da sensibilizzare l’opinione pubblica e aumentare la consapevolezza su uno dei disturbi del neurosviluppo sempre più diffusi, complessi e di diversa gravità, tanto che si parla di spettro autistico. La Fondazione aderisce così alla Giornata Mondiale della Consapevolezza sull’Autismo del 2 aprile, istituita nel 2007 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (ONU), associandole il colore blu.

Il gesto della Fondazione sarà un modo per accendere i riflettori soprattutto su due organizzazioni che operano sul campo – al fianco di famiglie che spesso rimangono disorientate di fronte a una diagnosi che fanno fatica ad accettare e gestire –  e che sta già sostenendo, con un contributo economico triennale.

Si tratta dell’Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici (ANGSA) Umbria e del suo Centro Up di Santa Maria degli Angeli (Assisi), centro-socio educativo all’avanguardia per 30 minori, a cui sono destinati 30mila euro. Una donazione singola di 20mila euro è stata invece devoluta a ‘La Semente’ di Spello, centro terapeutico-riabilitativo diurno per 18 giovani adulti, ancora promosso da ANGSA Umbria.

Infine, oltre € 45.000 saranno destinati alla cooperativa sociale ‘Mio Fratello è Figlio Unico’, di Roma, per cui vengono sostenute le autonomie lavorative di 5 ragazzi e adulti impegnati nei lavori di cura della terra, del casale e degli animali.

“Continua il nostro impegno per esprimere in maniera concreta la carità ritiana nella società di oggi, promuovendo lo sviluppo umano e sociale dei più fragili e costruendo un impatto duraturo– ha dichiarato suor Maria Rosa Bernardinis, Presidente della Fondazione – Un impatto come quello che stiamo generando per le persone con autismo, grazie ad ANGSA Umbria e ‘Mio Fratello è Figlio Unico’, per cui da una parte vogliamo sostenere una presa in carico del minore sempre più precoce ed efficace, in modo da favorirne il potenziale, dall’altra vogliamo garantire la riabilitazione e l’inserimento socio-lavorativo di ragazzi e adulti.  Ciò che siamo, come Fondazione, si rispecchia in ognuna delle persone a cui riusciamo a tendere una mano, quelle persone che sono sempre più parte della nostra famiglia, la famiglia umana che la stessa Santa Rita sognava e ci ispira”.

Proprio  per sostenere sempre più persone fragili come quelle con autismo, rendendo più strutturata e sostenibile la sua carità, nel 2012 il Monastero Santa Rita da Cascia ha creato la Fondazione. Tanta è la strada che l’organizzazione ha fatto in questi anni. Tenuta per mano dai suoi donatori e seguendo l’esempio di una santa a cui niente è mai parso impossibile, ha raggiunto migliaia di persone fragili, in Italia e all’estero, fino ad arrivare a sostenere oltre 10 progetti, dall’Africa al Libano, dalle Filippine al Perù. L’obiettivo è garantire il diritto alla salute, all’istruzione e al cibo.

Per coloro che vogliono contribuire a questa crescita, si possono trovare maggiori informazioni su fondazione.santaritadacascia.org

Ad Haiti l’impegno della Chiesa italiana

Sono momenti estremamente difficili quelli che la popolazione haitiana continua ad affrontare, ora anche a causa dell’aumento dell’instabilità politica. Questa situazione ha fatto precipitare la capitale, Port-au-Prince, in una situazione di grave insicurezza negli ultimi giorni e ha portato allo sfollamento di migliaia di persone dai quartieri poveri e vulnerabili conquistati dalle bande, verso quartieri non ancora colpiti situati nel comune di Delmas e del comune di Pétion-Ville. Lo stato di emergenza è attualmente prorogato fino al 3 aprile.

Le violenze hanno portato a saccheggi, atti di vandalismo e alla chiusura della maggior parte delle istituzioni commerciali, pubbliche e private, e delle strutture sanitarie come l’ospedale Saint François de Salle (ente dell’arcidiocesi di Port-au-Prince). Altre istituzioni sanitarie hanno ridotto drasticamente le loro attività per paura di un attacco e anche per carenza di medicinali, di attrezzature mediche e di personale.

La maggior parte delle scuole pubbliche nei comuni di Port-au-Prince, Tabarre, Cité Soleil, Delmas, Pétion-ville, Croix-des-Bouquets e Carrefour rimane chiusa. Gli sfollati interni non fanno che aumentare dopo le recenti violenze. Alla fine dello scorso anno, erano stati registrati circa 13.000 profughi interni a seguito di situazioni di violenza. Questo numero è salito rapidamente a 15.000, pari a circa 3.200 famiglie, all’inizio del 2024. Oggi gli sfollati sono circa 362.000. La maggior parte di queste persone si trova in 14 rifugi, tra cui tre nuovi allestiti nella municipalità di Port-au-Prince, e presso famiglie ospitanti.

Il fenomeno delle bande giovanili è una forma di comportamento e aggregazione delle generazioni più giovani diffuso in tutte le parti del mondo, secondo modalità e sfaccettature tipiche dei diversi contesti nazionali e socio-culturali. Nel dossier ‘Bande, maras e pandillas. Le gang giovanili, un fenomeno transnazionale’, curato da Caritas Italiana a marzo dello scorso anno, oltre ai dati di statistica pubblica sulle tendenze in atto, sono presentati gli esiti di una indagine sul campo che ha coinvolto 250 giovani: 100 in Guatemala, 100 ad Haiti e 50 in Italia. Alcune storie di vita e interviste realizzate appositamente, con la partecipazione di operatori ed ex membri di gang giovanili, consentono di capire meglio meccanismi di inclusione e funzionamento delle bande.

La gang è spesso una scelta obbligata per sopravvivere alla strada, all’abbandono e alla fame, così come ha raccontato Roberto, un ragazzo haitiano che beneficia dei servizi offerti dal Centro Lakay Lakou, una comunità di accoglienza diretta dai Salesiani, che nella capitale Port-au-Prince riscatta i giovani dalle gang di quartiere: “Mio padre si occupava di tutto, ma non lo vedevo mai a casa, perché lavorava tutto il giorno per mantenere me e i miei fratelli.

Spesso non tornava a casa per giorni e noi rimanevamo soli. Così ho iniziato a frequentare la strada, vivevo come un vagabondo. Quando ero per strada ho incontrato la banda, che si occupava di me e mi dava quello di cui avevo bisogno: cibo, un tetto sopra la testa, ma soprattutto protezione e appartenenza. Con loro mi sentivo accolto. La gang per me è stata una seconda famiglia, anzi, la mia unica famiglia. Ho vissuto per strada tre anni”. E’ arrivato al ‘Centro Don Bosco’, perché aveva sentito che accoglievano ragazzi di strada e che insegnavano un mestiere.

Dopo gli interventi post sisma del 2010 ora la Chiesa italiana “si trova ora di fronte al desiderio di moltiplicare i segni concreti di vicinanza, ma anche alla necessità di valutare bene come poter intervenire in modo efficace in questa nuova emergenza che rende difficile non solo la pianificazione ma anche la realizzazione degli interventi e perfino far arrivare i fondi. Con il rischio che pur essendo a favore dei più poveri diventino oggetto delle mire delle bande armate”.

Negli ultimi 10 anni tramite il Servizio per gli interventi caritativi per lo sviluppo dei popoli, la Chiesa italiana ha sostenuto nell’isola caraibica 70 progetti per quasi € 11.000.000 per rispondere ai bisogni della popolazione attraverso la Chiesa locale, le Congregazioni, i vari Organismi pastorali:

“Si tratta di progetti in risposta a emergenze (in particolare terremoti e uragani) e di sviluppo socio-economico in vari settori: sanità, agricoltura, educazione, formazione. Alcune iniziative hanno anche puntato al rafforzamento del sistema democratico tramite lo sviluppo della capacità istituzionali e di rappresentanza delle reti delle organizzazioni della società civile; la formazione e l’educazione civica, soprattutto con i giovani nelle scuole e nelle parrocchie; le iniziative di sensibilizzazione sul fenomeno della corruzione; il sostegno ai meccanismi di dialogo e concertazione tra potere pubblico e società civile; il coinvolgimento e la mobilitazione delle comunità locali; la partecipazione alla pianificazione e all’implementazione dei programmi di sviluppo; il monitoraggio e la valutazione dell’azione pubblica sulle azioni e sull’utilizzo dei fondi”.

Nel dossier sono ‘ospitate’ alcune testimonianze, tra cui quella di p. Massimo Miraglio, missionario camilliano, che vive da 18 anni a Jeremie, nel Sud Est di Haiti: “Oramai sono mesi che le strade sono bloccate e il poco che arriva ha dei prezzi proibitivi. Anche i trasporti via mare sono fermi. E la maggior parte della popolazione non ha lavoro né i soldi per affrontare questi costi e reperire il minimo indispensabile.

Ci troviamo in una situazione dalla quale non si vede via d’uscita, in cui non ci sono reali alternative politiche decenti che possano guidare questo Paese verso una transizione. La Chiesa sta facendo continui appelli per uscire da questo clima di violenza e c’è una grande preoccupazione per la sofferenza della gente”.

Ed ha raccontato il compito a cui è chiamata la Chiesa: “Bisogna cominciare a pensare al dopo, all’accompagnamento della società verso una transizione alla pace. Ci sono migliaia di giovani armati che devono essere disarmati e che dovranno essere reintrodotti ad una vita normale. Occorre pensare come accompagnare questo Paese verso lo sviluppo, pensare all’educazione, alla sanità. Va bene distribuire sacchi di riso, ma è necessario individuare strategie che aiutino il Paese ad uscire da questo stato di povertà estrema”.

Ha concluso la testimonianza con un messaggio di speranza per il popolo haitiano: “Nella parrocchia in cui sono parroco da agosto del 2023, la gente non ha perso la fede né la speranza, però i fedeli hanno, abbiamo tutti, bisogno di aiuto in questo momento. Dobbiamo unire le forze! C’è tanta gente in gamba ad Haiti, tanti che vogliono risollevarsi e uscire da questa situazione di miseria e di violenza e noi, come Chiesa, abbiamo una grande responsabilità e possiamo sostenere tutte queste forze sane che esistono nel Paese, che lottano e vogliono per Haiti un futuro diverso. Dobbiamo aiutare questa gente a potersi risollevare con le sue gambe e a ritrovare la sua dignità”.

Don Pino Puglisi nel racconto di mons. Corrado Lorefice

Sabato 9 dicembre il santuario della Madonna dei Rimedi a Palermo (dove il 2 luglio del 1960 il beato Giuseppe Puglisi fu ordinato presbitero della Chiesa di Palermo dal card. Ernesto Ruffini) ha ospitato la Messa cantata, eseguite dal Coro di Imperia ‘con Claudia’, nel trentennale del suo martirio, grazie al centro diocesano ‘Beato Pino Puglisi martire ucciso dalla mafia’.

Qualche mese prima, nel giorno del trentennale dell’uccisione di p. Pino Puglisi, avvenuta il 15 settembre 1993, papa Francesco aveva inviato una lettera all’arcivescovo della diocesi di Palermo, mons. Corrado Lorefice, sottolineando i tratti del’buon pastore:

“Sull’esempio di Gesù, don Pino è andato fino in fondo nell’amore. Possedeva i medesimi tratti del ‘buon pastore’ mite e umile: i suoi ragazzi, che conosceva uno ad uno, sono la testimonianza di un uomo di Dio che ha prediletto i piccoli e gli indifesi, li ha educati alla libertà, ad amare 1a vita e a rispettarla.

Sovente ha gridato con semplicità evangelica il senso del suo instancabile impegno in difesa della famiglia, dei tanti bambini destinati troppo presto a divenire adulti e condannati alla sofferenza, nonché l’urgenza di comunicare loro i valori di una esistenza più dignitosa, strappandola cosi alla schiavitù del male. Questo sacerdote non si è fermato, ha dato sé stesso per amore abbracciando la Croce sino all’effusione del sangue”.

Passo ripreso da mons. Lorefice nella lettera ai fedeli dell’arcidiocesi palermitana: “Don Pino Puglisi è per il Santo Padre l’icona del buon Pastore mite e umile. Ecco, ci dice papa Francesco, come essere pastori in Sicilia… Essere preti vuol dire per il papa fare la nostra ‘opzione preferenziale per i poveri’, essere vicini a quanti sono senza voce, senza diritti, senza speranza.

E’ dalla ‘com-passione’ pastorale di Don Pino che dobbiamo lasciarci interpellare. Come singoli ma soprattutto come comunità discepolari, come Chiesa sinodale, chiamata alla ricerca comune e al discernimento dello Spirito. Solo così, ci ricorda il papa, emergeranno ‘la bellezza e la differenza del Vangelo’…

Siamo profondamente grati al Santo Padre! Impegniamoci a mantenere nella nostra Chiesa di Palermo lo stile di Don Pino e preghiamo per il Papa, perché il Signore continui a custodire e benedire il Suo Servizio Petrino. Sappiamo quanto questa preghiera gli stia a cuore”.

Da queste lettere abbiamo preso occasione per un colloquio con mons. Corrado Lorefice, che ha raccontato don Pino Puglisi: “Don Pino Puglisi ha educato sempre i giovani al rispetto della creazione, li ha fatti crescere col senso della bellezza e della sacralità di ogni forma di vita, di fronte al quotidiano culto della morte in cui, soprattutto nel quartiere Brancaccio, erano immersi.

Don Pino ha interpretato il proprio dimorare in un luogo dominato dalla mafia, dal suo potere e dalla sua logica, come un ascolto infinito del bisogno e del grido inespresso di un popolo, in attesa di una liberazione dall’oppressione e dalla schiavitù mafiose che sfigurano il volto degli umani e riducono le persone a sudditi”.

‘Me l’aspettavo’, ha detto mentre veniva ucciso: quale volto aveva don Pino Puglisi?

“Anche nei Vangeli si dice che Gesù, nei confronti dei Giudei che lo osteggiavano, indurì il suo volto e si diresse verso Gerusalemme,in quanto è consapevole che in quella città i profeti vanno a morire, per cui è chiaro che nel volto di don Puglisi abbiamo la consapevolezza di un uomo che è lucido ed ha deciso di mettere in gioco la propria vita. E’ riduttiva l’immagine di don Puglisi come sacerdote antimafia, perché la sua vita rispecchia pienamente il Vangelo.

Lui era consapevole che l’avrebbero ucciso e si poteva tirare indietro. Don Puglisi rimane nel quartiere Brancaccio solo tre anni e non si capirebbe la sua persona senza cogliere tutto l’arco della sua vita, iniziando da Godrano  nel 1970 con i giovani, che li porta a studiare a Palermo, perché capisce che per sconfiggere la mafia occorre la cultura.

Don Puglisi è il sacerdote che, grazie al Concilio Vaticano II, scopre che la storia è l’altro luogo dove i cristiani devono sapere cogliere l’istanza della presenza di Dio e quello che Dio chiede. Don Pino pensa il suo ministero, collocandolo dentro il contesto sociale in cui vive. Per lui il Vangelo non è solo una dottrina, ma è una visione della storia. Alla mancanza dava sempre una risposta concreta”.

Per quale motivo organizzò la marcia antimafia a Brancaccio, pochi mesi prima di essere ucciso?

“L’istanza evangelica non lo distoglie dall’istanza umana; anzi lo rimanda dentro con la stessa intensità di decidere della propria vita, perché possa servire affinchè altri abbiano vita. Don Puglisi ha assimilato l’essenza evangelica ed, arrivando a Brancaccio, si accorge della situazione esistente con occhio capace di leggere il territorio, avendo una visione di una comunità cristiana incarnata nel territorio.

Don Puglisi è una vocazione adulta per il suo tempo, in quanto è entrato in seminario a 16 anni (quando l’età di ingresso era ad 11 anni), ed aveva già quel ‘taglio’ educativo. E’ stato un educatore ispirato dal Vangelo ed ha avuto una visione del mondo matura. Il Vangelo, per lui, deve incarnarsi nella realtà in cui si vive; quindi comunità capaci di testimoniare il Vangelo. Ha avuto la visione di una Chiesa che attinge al Vangelo, che è una bella notizia che arriva a tutti”.

Come ha’interpretato il Vangelo?

“Don Pino ha sentito il suo stare dalla parte del popolo, il suo lavoro inesausto per sottrarre i bambini ed i ragazzi alla mentalità della mafia (appoggiato da tante donne e tanti uomini, laici e religiosi, attratti dall’esempio di colui che tutti chiamavano affettuosamente ‘3P’), come una risposta al Vangelo delle Beatitudini, come un ascolto di quella parola scandalosa pronunciata dal suo Maestro e Signore: Beati i poveri”.

Come raccontare don Puglisi ai giovani?

“Don Puglisi ha raccontato un Vangelo che abbraccia la vita e raggiunge la carne umana. Don Pino non ha mai saputo che stava facendo qualcosa di particolare e non ha mai pensato di essere un eroe. Una persona che sa incidere nella vita degli altri non solo non lo ostenta, ma lo fa nella normalità: un vero martire non sa che sta facendo qualcosa di straordinario. Quando sono arrivato come vescovo ho detto che questa è la città che mi interpella, perché ha conosciuto tanti santi e ci sono martiri della giustizia e della fede.

Don Puglisi era autentico. Una nota essenziale di don Pino: è stato un uomo di una grande intelligenza e colto. Nella sua casa popolare aveva più di 5.000 libri antropologici e biblici, perché sentiva l’esigenza di formare i giovani. Nella proposta evangelica partiva dal senso della vita. Voleva educare i giovani ad un senso profondo della vita. Da qui arrivava a raccontare ai giovani le Beatitudini ed il Padre Nostro: in questi brani c’è la forza ‘rivoluzionaria’ del Vangelo.

Ecco il motivo per cui non sempre era capito nella Chiesa palermitana. Ho lavorato con lui nella pastorale vocazionale per tre anni e mi ricordo il giorno in cui diede le dimissioni e diceva che la realtà di Brancaccio gli avrebbe richiesto un impegno totale. Questo è stato don Pino Puglisi: era una forza al servizio dei giovani. La sua era una proposta di libertà. Ecco il motivo per cui la mafia lo ha ucciso. Però la morte di don Puglisi è stata feconda”.

(Foto: Arcidiocesi di Palermo)

CEI: ripensare i rapporti con i giovani

Ieri a Roma si sono conclusi i lavori del Consiglio episcopale permanente della CEI, aperti dalla prolusione del Cardinale Matteo Maria Zuppi, in cui è stata sottolineata la necessità di un impegno per la pace a 360°, fatto di preghiera, formazione e gesti concreti:

“Di fronte ad una cultura che sembra essere assuefatta alla guerra, a un aumento incontrollato delle armi e a un sistema economico che beneficia della corsa agli armamenti, occorre riprendere il dialogo tra Chiesa e mondo attraverso cammini educativi che offrano alternative alle logiche ora dominanti. In quest’ottica, l’esperienza dell’obiezione di coscienza e il patrimonio di azioni sperimentate nel passato possono costituire una base da cui ripartire per tornare a educare alla pace e dare prospettive di futuro, specialmente ai giovani”.

Per i vescovi occorre lavorare a più livelli per essere costruttori di fraternità, senza dimenticare il Magistero della Chiesa e l’articolo 11 della Costituzione Italiana: “L’impegno per la pace deve prendere avvio all’interno delle comunità cristiane, cercando di ricostruirne il tessuto ecclesiale laddove appare ferito. Il Cammino sinodale sta infatti mostrando l’importanza di fare sintesi tra le diverse sensibilità: anche se non tutti si sentono coinvolti, ormai tutti percepiscono l’importanza di questo tempo ecclesiale, voluto da papa Francesco per la Chiesa universale e dunque anche per le Chiese in Italia”.

Altra questione importante è stata quella dell’iniziazione cristiana, con un focus sulla figura dei padrini e delle madrine: “Nella società attuale, se il riferimento ai Sacramenti appare ancora molto diffuso, talvolta risulta svuotato di significato, un fatto convenzionale riconosciuto come elemento della tradizione, ma che non consente più di dare per scontata la fede”. Secondo i vescovi è urgente un ripensamento dei cammini tradizionali che permetta di intrecciare sempre di più la consegna delle forme pratiche della fede con la trasmissione delle esperienze elementari della vita:

“In tale orizzonte, sarà possibile anche riscoprire e valorizzare il ruolo di padrini e madrine, passando dalla concezione di ‘sponsor’ per un giorno a testimoni autentici nella crescita globale delle persone che ricevono il Sacramento. La loro figura, che deve accompagnare le diverse età, dovrà anche contribuire all’azione generativa ed educativa dei genitori, in sinergia con la comunità ecclesiale”.

Inoltre i vescovi hanno rilevato la necessità di approfondire il tema per costruire una grammatica comune così da evitare l’attuale diversificazione della prassi pastorale delle Chiese locali, che in alcuni casi hanno sospeso la figura dei padrini e delle madrine a causa di un fraintendimento socioculturale.

Per quanto riguarda il mondo giovanile i vescovi hanno proposto di ripensare il rapporto con le nuove generazioni a partire dagli spunti offerti da Paola Bignardi che ha presentato i risultati dell’ ‘Indagine in merito a giovani e fede oggi’, curata dall’Istituto Toniolo: “Nel contesto attuale è in atto una trasformazione molto rilevante nella modalità del credere. I giovani esprimono, anche con la loro protesta silenziosa nei confronti della comunità cristiana, il desiderio di un modo nuovo di comprendere l’umano e una domanda di interpretazione della fede dentro questa condizione umana. E’ in gioco lo stile con cui la Chiesa intende la vita cristiana e la propone”.

Infine l’appello per uno sviluppo unitario, che metta in circolo in modo virtuoso la solidarietà e la sussidiarietà: “Da parte sua la Chiesa in Italia, fedele al Vangelo e nel solco del percorso compiuto finora, continuerà a contribuire all’unità, accompagnando le comunità e non lasciandosi spaventare dalle contingenze del tempo presente. In questo senso, il Cammino sinodale si presenta come una grande occasione anche per ravvivare l’entusiasmo nella Chiesa e la fiducia in essa”.

Ed ecco la novità di un’iniziativa di microcredito per alleviare le povertà in vista del Giubileo: “E’ da leggere in questa prospettiva il mandato affidato alla Caritas Italiana di studiare un progetto di microcredito sociale da realizzare in occasione del Giubileo. L’iniziativa dovrebbe prevedere l’istituzione di un fondo che permetterà di sostenere quanti hanno difficoltà ad accedere al credito ordinario. Il progetto, che ha come elemento innovativo l’accompagnamento della persona, non dovrebbe esaurirsi tuttavia nell’intervento economico a favore dei singoli, ma coinvolgere e impegnare le Chiese locali nella loro pluralità di soggetti, con l’ulteriore obiettivo di far crescere la rete delle Caritas locali e delle Fondazioni antiusura diocesane”.

Inoltre i vescovi hanno concordato sulla necessità di incrementare le cure palliative, regolamentate da un’ottima legge che però non trova ancora la sua piena attuazione, tanto che vi accede meno della metà degli ammalati: “Nonostante esse assicurino dignità, supportino il paziente e i familiari nella malattia, la loro applicazione resta in larga parte disattesa. Dinanzi ad una certa deriva eutanasica e alla fuga in avanti di alcune Regioni desiderose di colmare un vuoto legislativo in tema di fine vita, è fondamentale ribadire che la vita è sacra, sempre e in qualunque condizione, e che su di essa non si può giocare a ribasso”.

Infine, rispondendo ai giornalisti, mons. Giuseppe Baturi, segretario generale della Cei e arcivescovo di Cagliari, è intervenuto sulla vicenda della scuola ‘Iqbal Masih’ di Pioltello, nel rispetto della libertà religiosa: “Il rispetto del fatto religioso e dell’identità delle comunità religiose, da parte dello Stato è un fatto positivo e appartiene alla laicità tipica dello Stato italiano… La laicità all’italiana non sopprime le identità religiose, ma le promuove in un contesto di rispetto vicendevole. Questo, però, deve avvenire dentro un contesto istituzionale di rispetto di norme e di procedure. Non so se nel caso specifico si sia rispettato tutto il percorso amministrativo, ma in generale vale il rispetto per ogni forma di libertà religiosa”.

A tal proposito l’arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, non entrando nelle irregolarità riscontrate dall’USR preposta, ha affermato che si tratta di un legittimo provvedimento della scuola: “Una delle cose più importanti della vita è la religione. Non so come è il regolamento delle scuole, si sospende anche a Carnevale”, confermando la posizione del responsabile dell’Ufficio diocesano Ecumenismo e dialogo, Roberto Pagani, che si era già espresso nei giorni precedenti:

“Con un numero così significativo di ragazzi che aderiscono alle proprie celebrazioni non è irragionevole usare tali momenti per costruire dei legami, invece che contrapporre mondi e visioni. E’ sempre meglio fare i conti con la realtà, soprattutto considerando che parliamo di educazione e di una scuola, riconoscendo la composizione della nostra società e la presenza dell’altro, mantenendone la diversità con rispetto e non avendone paura. E’ un lavoro prospettico nel quale si può immaginare un futuro di convivenza pacifica e civile, e non solo di tolleranza reciproca”.

I vescovi lombardi invitano a guardare l’Europa

A Caravaggio il 13 e 14 marzo i Vescovi della Lombardia si sono incontrati per la loro sessione di lavori in previsione del prossimo Consiglio permanente della Cei. Con loro hanno partecipato a una sessione di lavoro anche i 34 Incaricati regionali e Assistenti dei vari settori della pastorale della regione. Si sono condivisi i risultati della recente Visita ad Limina e la gioiosa esperienza dell’incontro con papa Francesco, che ha stimolato a una pastorale capace di dire il volto bello di una Chiesa che accoglie tutti. Infine, in previsione dei prossimi appuntamenti elettorali, i Vescovi vogliono condividere con tutti le seguenti loro riflessioni per guardare insieme al bene comune delle nostre città e dell’Europa.

Il primo invito è quello ad un’assunzione di responsabilità: “L’assunzione di responsabilità da parte dei cristiani e delle persone serie, capaci, oneste in politica è particolarmente urgente in questo tempo. L’interessamento e l’impegno diretto in politica è una doverosa espressione della cura per il bene comune. L’indifferenza che induce all’astensionismo, il giudizio sommario che scredita uomini e donne impegnati in politica sono atteggiamenti che devono essere estranei alla comunità cristiana”.

I vescovi lombardi hanno invitato con chiarezza ad una scelta contro la guerra: “Sono chiamati a farsi avanti uomini e donne che siano voce coraggiosa e sapiente, profetica e realistica per dire: no alla guerra assurda e disastrosa, noi cerchiamo la pace giusta e possibile; no alla follia delle armi che guadagna nel distruggere, noi chiediamo che ci siano risorse per costruire e curare; no alla diseguaglianza scandalosa che con sperperi irresponsabili rovina i popoli, ignora i poveri e distrugge il pianeta, noi siamo assetati di giustizia e dedicati alla solidarietà;

no all’ambigua tolleranza che apre le porte al denaro sporco che si moltiplica sfruttando le debolezze umane, incrementando dipendenze, approfittando del sovraindebitamento, noi pratichiamo e insegniamo la legalità; no alla cultura individualistica e libertaria che legittima l’aborto come diritto e non rispetta la vita di persone fragili, noi chiediamo che la legge difenda i più deboli; no a una gestione delle risorse della comunità che trascuri i bisogni primari della casa, del lavoro, della formazione, noi proponiamo alleanze per condizioni di vita dignitose per tutti”.

Il secondo invito riguarda la responsabilità verso l’Europa: “Le elezioni europee ed amministrative sono un esercizio doveroso di democrazia e di responsabilità civile che coinvolge tutti i cittadini e sollecita anche il manifestarsi di disponibilità al servizio delle istituzioni. La comunità ecclesiale guarda con stima a coloro che, anche sacrificando tempo ed energie personali e familiari, scelgono di dedicarsi al bene comune”.

Ed anche i cristiani impegnati in politica devono trovare un contesto nella Chiesa: “I cristiani che ricoprono responsabilità in ambito politico e amministrativo devono trovare nella comunità cristiana il contesto propizio per alimentare la loro fede nell’ascolto della Parola di Dio, per motivare il loro servizio al bene comune, per trovare negli insegnamenti della Chiesa e nel confronto fraterno il contesto propizio per un saggio discernimento.

Compito dei pastori è formare le coscienze, motivare l’impegno, incoraggiare le responsabilità, astenersi dal prendere posizioni nel confronto tra i partiti e le persone che si presentano per raccogliere il consenso dell’elettorato”.

Nell’ultimo punto anche i vescovi lombardi ribadiscono che le parrocchie non possono essere coinvolte nella campagna elettorale: “Le strutture delle parrocchie e degli altri soggetti ecclesiali non possono essere utilizzate per la campagna elettorale. La comunità cristiana, associazioni e movimenti devono sentirsi incoraggiati a promuovere di propria iniziativa opportuni confronti su temi sociali e iniziative di formazione per suggerire criteri di discernimento in ogni ambito della vita, anche in quello politico e amministrativo.

Si deve valutare l’opportunità che i candidati nelle elezioni amministrative e politiche sospendano incarichi pastorali per evitare di essere motivo di divisione nelle comunità cristiane e per favorire la libertà di tutti sia nel proporsi sia nel votare”.

Nella conclusione i vescovi lombardi chiedono di scegliere la pace: “Verranno giorni di pace? Sarà possibile una società più giusta? Sapremo costruire una città, un paese, un’Europa dove sia desiderabile abitare insieme? Noi che andiamo a votare diciamo alla gente di oggi e alle generazioni future: sì, sarà possibile, perché ciascuno di noi, secondo le sue responsabilità, competenze e ruoli mette mano adesso all’impresa di aggiustare il mondo!”

Cei: l’Università Cattolica sia motore di speranza per i giovani

Nei giorni scorsi è stato diffuso il Messaggio della Presidenza della CEI per la 100ª Giornata per l’Università Cattolica del Sacro Cuore che si celebrerà domenica 14 aprile sul tema: ‘Domanda di futuro. I giovani tra disincanto e desiderio’, scelto per celebrare, domenica 14 aprile, la 100^ giornata dedicata all’Università Cattolica del Sacro Cuore, offrendo la possibilità di sviluppare alcune considerazioni utili a comprendere la missione dell’Ateneo dei cattolici italiani:

“In questi ultimi anni un susseguirsi di eventi sta modificando in profondità la percezione della realtà e dell’esperienza umana, soprattutto in rapporto al futuro. Guardando in particolare al mondo giovanile si registra una situazione di grande incertezza che oscilla tra paure e slanci, smarrimento e ricerca di sicurezze, senso di solitudine e rincorsa ad abitare i social media”.

E’ un invito a prendere la domanda dei giovani sul futuro seriamente: “Ci troviamo ad affrontare scenari imprevedibili, determinati dai cambiamenti climatici, dai devastanti conflitti in corso, dai precari equilibri internazionali, dalle criticità economiche. A questi macro-fattori si aggiungono le situazioni personali e contingenti percepite in modo più diretto dai giovani come la mancanza di lavoro, la fragilità dei legami affettivi, i rapidi cambiamenti sociali determinati dalle innovazioni tecnologiche, la crisi demografica che fa dell’Italia un Paese in progressivo e rapido invecchiamento”.

Per i vescovi italiani la vita dei giovani si muove tra la speranza e la disillusione, specchio della società contemporanea: “C’è tutta la disillusione rispetto a un futuro che non offre certezze e finisce per scoraggiare e demotivare. Nello stesso tempo, però, resta forte la ricerca del senso da dare alla propria esistenza, del posto da assumere nel mondo e delle strade da percorrere per non sentirsi vecchi prima del tempo.

I giovani sono il termometro di una società in deficit di speranza e incapace di vivere il presente come piattaforma reale e concreta per costruire il futuro. Tutto sembra consumarsi nel vissuto quotidiano senza più considerare il futuro, troppo fluido e confuso, mentre dovremmo costruirlo assieme valutando in tale prospettiva le scelte di oggi”.

I giovani sono in ricerca di luoghi in grado di offrire concretezza ai desideri e l’Università è uno dei luoghi: “I giovani cercano luoghi che siano in grado di alimentare i loro desideri, che sappiano dare concretezza ai loro sogni e che non soffochino la loro speranza. L’Università Cattolica del Sacro Cuore è nata sulle macerie di una guerra mondiale e in un quadro sociale e politico di grande incertezza”.

L’Università Cattolica mette a disposizione competenze capaci di renderli protagonisti: “L’Ateneo ha preso forma grazie alla intraprendenza di p. Agostino Gemelli e della beata Armida Barelli, in una stagione certamente non più facile dell’attuale e da oltre cento anni con la sua proposta formativa, originale e integrale, vuole essere uno spazio fecondo e creativo per dare ai giovani non tanto aspettative per il futuro quanto certezze per un presente da protagonisti e da veri artefici di un domani che sia più sostenibile, fraterno e pacifico per tutta l’umanità. Sono però necessarie alcune condizioni per non rendere evanescente il futuro e per radicarlo piuttosto in un vissuto ricco di senso e di solide prospettive umane e spirituali”.

L’Università Cattolica è nata grazie ai cattolici, che hanno impresso una ‘matrice popolare’: “La sua matrice popolare, anche se oggi non si registra la mobilitazione del passato, si manifesta nel suo essere comunità educante di respiro nazionale e nel suo essere sotto molteplici aspetti a servizio della comunità ecclesiale, sia curando la formazione delle nuove generazioni sia offrendo un rilevante apporto culturale alla presenza dei cattolici nel Paese. L’attuale cammino di ripensamento sinodale della vita e della missione della Chiesa potrà certamente ricevere un prezioso contributo da questa presenza culturale e formativa a servizio della comunità ecclesiale e della società in Italia”.

La seconda dimensione caratterizzante l’Università Cattolica riguarda l’innovazione: “Gli sviluppi dell’intelligenza artificiale interpellano la comunità scientifica e la società civile sotto diversi profili. E’ certamente doveroso valorizzare le tante opportunità offerte sapendo, allo stesso tempo, valutare le implicazioni etiche, culturali, sociali ed economiche.

Ricerca scientifica, valutazione etica, processi formativi, implicazioni socioculturali richiedono, pertanto, una visione d’insieme e un approccio transdisciplinare. Sono le caratteristiche proprie di una comunità accademica plasmata da un approccio davvero unitario e universale, come quello che scaturisce da un sentire autenticamente cattolico, aperto cioè alla totalità e attento a tutti i valori in gioco”.

La terza dimensione riguarda l’aiuto ai giovani, secondo il magistero della Chiesa: “Compito di un Ateneo cattolico, alla luce delle indicazioni offerte dal magistero di papa Francesco, è quello di aiutare i giovani: a essere artefici di uno sviluppo davvero sostenibile e attento alle necessità di tutti, soprattutto i più poveri ed emarginati;

ad essere protagonisti di una cultura della fratellanza che sappia valorizzare le differenze e disarmare con la solidarietà la violenza che sta distruggendo relazioni e convivenze tra popoli; a ridisegnare il volto dell’umano sfigurato da visioni e modelli che snaturano il senso degli affetti, la dimensione trascendente della vita umana, la domanda di verità e di bene che abita il cuore di ogni donna e di ogni uomo”.

Mons. Martinelli invita gli arabi a vivere la propria vocazione

Nello scorso settembre il vicario apostolico per l’Arabia Meridionale (Emirati Arabi Uniti, Oman e Yemen), mons. Paolo Martinelli, ha pubblicato la sua prima lettera pastorale, che prende spunto dal passo evangelico di san Giovanni, ‘Vieni e vedi (Giovanni 1:39), la vita è una vocazione’, indirizzata ai fedeli con l’invito a riflettere sul tema della propria vita come vocazione, richiamando l’attenzione sugli aspetti fondamentali della vita cristiana:

“Nel primo capitolo, dopo il maestoso prologo, che descrive il mistero di Dio e l’incarnazione del Figlio che ci rivela la vita divina (Gv 1,1-18), troviamo una storia molto semplice che ci ricorda l’essenza del cristianesimo. All’inizio del cristianesimo c’è la grazia dell’incontro. Giovanni Battista vede Gesù venire verso di lui; lo riconosce: è l’agnello di Dio, colui che toglie i peccati del mondo. Due suoi discepoli, probabilmente Andrea e Giovanni, lo stesso autore del Vangelo, cominciano a seguirlo. Ad un certo punto, Gesù si accorge di essere seguito; si volta e chiede: Che cosa cerchi?”

Perché la vita è una vocazione?

La vita è vocazione perché’ siamo ‘chiamati’ alla vita. Nessuno si può dare la vita da solo. Esistiamo perchè siamo voluti ed amati da Dio personalmente. Ricordare che la vita è vocazione è necessario per avere consapevolezza del valore della propria vita e del proprio compito nel mondo. Inoltre, la vita è vocazione perchè in ogni istante siamo in rapporto con Dio attraverso quello che accade ogni giorno. Dio si è fatto carne in Gesù Cristo. Per questo Dio ci raggiunge sempre attraverso una ‘carne’, un incontro, un evento in cui ci chiama ad accogliere la sua parola, a seguirlo e a metterci a servizio del Regno”.

Quale è l’aspetto fondamentale della vita cristiana?

“L’essenza del Cristianesimo non è innanzitutto una nuova morale o una nuova teoria, ma un incontro con la persona di Gesù che può cambiare radicalmente la nostra esistenza aprendo un nuovo orizzonte esistenziale (come hanno ribadito papa Benedetto XVI e papa Francesco). L’aspetto fondamentale della vita cristiana è la sequela di Cristo, che si realizza nel vivere la vita della Chiesa e testimoniare a tutti la gioia del Vangelo”.

Nella lettera pastorale si narra la storia della Chiesa nella penisola arabica: ‘Questa città fu sede di una delle più grandi comunità cristiane dei primi secoli. Najrān si trovava nell’antico Yemen, attualmente si trova in Arabia Saudita. Ricordando la loro testimonianza, ci rendiamo conto che, fin dall’antichità, i cristiani hanno abitato la terra in cui ora viviamo. E noi facciamo parte di questa bellissima storia, la storia della Chiesa nella penisola arabica’. In quale modo è avvenuto l’incontro con il cristianesimo nella penisola arabica?

“Il cristianesimo in Arabia ha una storia complessa. La documentazione non è facile. Già gli Atti degli Apostoli ci ricordano che san Paolo si recò in Arabia. I santi martiri Arethas e compagni ci testimoniano una presenza molto significativa del cristianesimo in epoca preislamica. Recenti scoperte archeologiche testimoniano una presenza di monasteri cristiani che hanno continuato a sussistere anche nei primi tempi dopo la nascita dell’Islam, mostrando la possibilità di una serena convivenza. In epoca più recente, a partire dal XIX secolo inizia a strutturarsi il vicariato Apostolico nella regione araba. Negli ultimi decenni la presenza cristiana in Arabia è molto aumentata grazie alle massicce migrazioni. Oggi si contano circa 3.000.000 di cattolici presenti nella penisola araba”.

“Quest’anno celebriamo il giubileo, insieme al Vicariato Apostolico dell’Arabia Settentrionale, commemorando il 1500° anniversario del martirio di sant’Areta e dei suoi compagni a Najrān”: cosa significa celebrare il giubileo del martirio di sant’Areta?

Ricordare i martiri è ringraziare Dio per la loro fedeltà a Cristo e al Vangelo ed è richiamo alla testimonianza che spetta a tutti noi, innanzitutto con la nostra vita: mostrare Cristo attraverso la vita buona che nasce dalla fede. Inoltre, ricordare sant’Arethas e compagni martiri ricorda a tutti i cristiani che vivono nel Golfo, che anche se come migranti si proviene da tante parti del mondo e da Chiese diverse, qui si diventa parte di una lunga storia, di una Chiesa che affonda le sue radici nei cristiani che hanno santificato questa terra con il dono della propria vita”.

“Ognuno di noi è unico e irripetibile, e ognuno di noi è al mondo perché ha una missione speciale da compiere. Per questo è importante discernere insieme la vostra vocazione. Come diceva questo grande giovane, il beato Carlo Acutis: tutti nasciamo originali perché ciascuno di noi è stato voluto e progettato da Dio per cose grandi”. Per quale motivo, nella lettera, ha proposto ai giovani arabi il beato Carlo Acutis?

“L’ho proposto a tutti i giovani del vicariato, di qualsiasi provenienza. La figura di Carlo Acutis mi sembra in grado di parlare al cuore dei giovani. Soprattutto il suo richiamo ad essere originali e non fotocopie impressiona sempre la gioventù che è in ricerca di modelli autentici da seguire. Colpisce molto anche il suo straordinario amore per l’Eucaristia (‘la mia autostrada per il cielo’) e la sua capacità di utilizzare le nuove tecnologie e i new media per diffondere il vangelo, senza rimanerne intrappolato”.

Allora cosa significa essere Chiesa di migranti?

“La nostra Chiesa è composta da persone che provengono da paesi diversi e da tradizioni spirituali differenti, con riti diversi. Contiamo circa cento nazionalità tra i nostri fedeli. Le nostre assemblee liturgiche hanno questo carattere interculturale che le caratterizza in modo unico. Questa è una straordinaria occasione per mostrare come il battesimo ci renda membri di una unica Chiesa pur essendo cosi diversi. I nostri fedeli sono chiamati non solo a mantenere le proprie tradizioni ma anche a condividerle e a conoscere quelle degli altri. Questo permette un arricchimento vicendevole.

Inoltre, essere chiese di migranti vuol dire essere consapevoli della transitorietà della propria condizione di vita. Qui nessuno diventa cittadino. La gente è qui per lavorare. Al termine ritorna nei propri Paesi di origine. Come Chiesa impariamo attraverso questa condizione particolare ad essere pellegrini, ad abitare il tempo e la terra con impegno e dedizione, sapendo che siamo destinati ad una pienezza che va oltre il tempo presente. Siamo destinati alla vita eterna in Cristo”.

Sono trascorsi 5 anni dalla firma del documento di Abu Dhabi: quali effetti può avere sul dialogo tra le fedi la crisi mediorientale?

“Il conflitto attualmente in atto in Medio Oriente ha aspetti e proporzioni sicuramente inediti rispetto al passato; si vede dalle difficoltà riscontrate nei tentativi di trovare una via di uscita. In questo senso penso che il contributo fondamentale della ‘Abrahamic family house’ sia il fatto stesso di esistere. E’ un invito costante a non darsi per vinti, a non rassegnarsi alla guerra. Questo centro rappresenta una realtà di convivenza che può ispirare e rilanciare cammini di pace”.

Karol Woytila e il suo sguardo paterno: perché il papa polacco era tanto amato dai giovani

“Voi siete giovani e il Papa è vecchio. Avere 82 o 83 anni di vita non è come averne 22 o 23. Ma il Papa ancora si identifica con le vostre attese e con le vostre speranze. Anche se sono vissuto fra molte tenebre, sotto duri regimi totalitari, ho visto abbastanza per essere convinto in maniera incrollabile che nessuna difficoltà, nessuna paura è così grande da poter soffocare completamente la speranza che zampilla eterna nel cuore dei giovani.

I giovani sono ancora affamati di Cristo? L’anno dedicato a Giovanni Testori

L’anno testoriano si è concluso alla Fondazione ‘Ambrosianeum’ di Milano con la presentazione del volume ‘Giovani affamati di Cristo’, in cui sono pubblicate due conferenze, che esploravano il rapporto tra i giovani e la fede nel contesto dei turbolenti ‘anni di piombo’, tenute da Giovanni Testori in quel luogo a gennaio ed ottobre del 1979, proponendosi di arricchire ulteriormente l’affascinante esplorazione della fede e della cultura affrontata da Testori durante le conferenze. Gli autori dei contributi inclusi nel volume, Luca Bressan, Marina Corradi, Giuseppe Frangi, Fabio Pizzul e Alessandro Zaccuri, hanno offerto nuove dimensioni, prospettive e ricordi a questa rilevante indagine.

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