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Mauro Mogliani racconta i ‘sogni di Park’ per combattere il parkinson

“Mi chiamo Park. Ho trovato ospitalità in un signore, un ragazzotto cinquantenne, e senza chiedere il permesso, contro la sua volontà, ho invaso il suo corpo. Lui si lamenta che non sto fermo un attimo, che lo faccio tremare in continuazione. Cosa pretende da un bambino? Sì, io sono un bambino e come tutti i bambini non sto fermo un attimo. Sono affari suoi se non mi sopporta, io da lì non mi sposto. Ha creato il mio gemello, quello buono, per contrastare il male, per contrastare me… va dicendo a tutti che aveva l’esigenza di farlo, che aveva bisogno del suo pupazzetto da portare sempre con sé, come fanno i bambini per scacciare i fantasmi, i cattivi, i mostri. Non lo so nemmeno io se i sogni appartengono a me o a lui. I sogni sono sogni, e sono di tutti”.

Partiamo da questo breve racconto di Park per incontrare Mauro Mogliani, artigiano-scrittore tolentinate, 53 anni, marito e padre, che ha scoperto il parkinson tre anni e mezzo fa a causa dei primi sintomi quali perdita di equilibrio e tremore ad una gamba, grazie ad una diagnosi del dott. Carlo Pozzilli, eppoi seguito da un’equipe dell’Irccs ‘San Raffaele’ per una sperimentazione clinica; così per superare l’isolamento ha creato ‘Park’:

“E’ nato dall’esigenza di contrastare la malattia. Per farlo, ho creato una sorta di pupazzetto che porto sempre con me, per difendermi dal male, dal parkinson. Questa malattia può provocare un’improvvisa esplosione di creatività e porta anche a fare sogni bizzarri, sia belli che brutti. A maggio ho preso un foglio nero e con un Uniposca bianco ho iniziato a disegnare. Mai fatto prima. Ma la necessità di tirare fuori ‘Park’ era troppo grande. Soprattutto dopo tre anni in cui ero chiuso in me stesso”.

Insomma il parkinson porta all’isolamento, racconta Mauro: “Se non si è più padroni del proprio corpo ci si sente a disagio, l’approccio è problematico e gli altri non sanno come avvicinarsi. Il morbo non colpisce solo gli anziani, ma anche i giovani; e non riguarda solo il tremore al braccio, ma anche confusione mentale, problemi al linguaggio, a camminare, a scrivere al pc, stanchezza, difficoltà di concentrazione. Io attualmente ho la parte sinistra lesionata, gamba e braccio. Ma ad esempio, se fosse stata la destra, avrei fatto fatica anche a mangiare. Provavo vergogna quando incontravo le persone”.

Come sono nati i sogni di Park?

“Innanzitutto ho iniziato a fare sogni strani, quindi ho chiesto ad una neurologa di Roma se essi derivavano dall’uso delle medicine oppure dalla malattia. Era la malattia, che permette di fare sogni bizzarri ed incubi. Quindi ho avuto l’esigenza di trasmettere questi sogni all’esterno, senza sapere il motivo. Più avanti mi sono reso conto del motivo: ho preso un foglio di carta nero con un pennarello bianco; da qui è nato questo pupazzo attraverso il quale ho narrato i miei sogni con un racconto più breve possibile, in quanto con la tempistica odierna se il sogno raccontato sui social è troppo lungo nessuno lo legge.

Pertanto i sogni devono durare massimo 25” sui social: quindi ho dovuto ‘accorciare’ i sogni per poter trasmettere il contenuto con una frase più breve possibile, in quanto attraverso questi sogni si può trasmettere un messaggio sia sulla malattia che sulla mia persona. Ho scoperto la loro nascita più tardi, quando ho avuto l’esigenza di comunicare con il mondo con il linguaggio di Park, perché il parkinson non è solo il tremore, ma dà solitudine, depressione ed altri problemi. Il malato di  parkinson tende ad isolarsi, in quanto è la malattia che è così. Io scrivevo e scrivo libri, perché, essendo una persona riservata, ho l’esigenza di esprimere il mio stato d’animo attraverso la scrittura”.

Come è la convivenza con Park?

“Brutta! Subito è stata drammatica, in quanto non sei più padrone di te stesso e quindi blocca. Park è come un bambino, che è entrato nel corpo e non sta fermo un attimo. Lui ha fatto un percorso inverso: è entrato nella persona invece di uscire dalla persona e tu hai fatto la scoperta che lui comandava il tuo corpo. E’ una sensazione brutta, perché quando non sei padrone dei tuoi movimenti la convivenza è difficile; però ci devi convivere, sapendo che più trascorre il tempo e più lui si impadronisce del tuo corpo: certi giorni pensi di essere il padrone di te, mentre altri giorni scopri che lui prende il sopravvento e non riesco a controllare i suoi movimenti. Per questo ho creato questo ‘pupazzetto’, che è quello che noi, da bambini, portavamo nel letto per esorcizzare la paura. Forse ho creato questo personaggio per combattere il suo gemello, che è il parkinson, con la speranza di avere qualcuno vicino, in quanto la malattia conduce all’isolamento”.

Allora, come sei riuscito a tradurre i sogni in fumetto?

“Il parkinson  è sempre il parkinson. Poi c’è il soggetto del sogno con sua moglie e sua figlia, disegnati in modo bambinesco, perché sono disegnati da Park, che è un bambino. Devo dire che i sogni raccontati sono veri; l’unica cosa mia riguarda la parte finale quando Park si sveglia e compie sempre una determinata azione”.

Sei anche scrittore (Nessuno sa chi sono, La confessione, L’enigma sepolto, Ombre dal passato, Cerco te): quale altri sogni hai?

“Il mio sogno è quello che Park possa diventare un fumetto in forma di diario, ‘Il diario di Park’, dove lui racconta i sogni, lasciando una libera interpretazione al lettore, con una parte del ricavato per la ricerca, in quanto ancora oggi le uniche medicine sono quelle scoperte molti anni fa. Il sogno è quello di sconfiggere il parkinson, ma mi fa piacere anche la pubblicazione di questo diario, che sarà pubblicato grazie all’editore Bertoni in primavera. Intanto ringrazio Francesca Paradisi, che mi aiuta nella parte grafica, mentre Nicola Serrani cura la parte social”.

Allora a quale punto è la ricerca scientifica per la cura della malattia?

“Mi sono sottoposto ad una sperimentazione, accettando tre anni fa di entrare in un protocollo al ‘San Raffaele’ di Roma: 450 nel mondo, di cui 25 italiani, metà con il placebo e metà con la medicina. La sperimentazione consisteva in una flebo ogni quattro settimane. Poi mi hanno detto che era placebo. Ci sono molte sperimentazioni, ma finora non si è trovata alcuna alternativa alle ‘classiche’ medicine, che ci sono da tanti anni. La ricerca scientifica ha scoperto ‘stimoli’ che fermano il tremolio, ma bisogna vedere se ‘funzionano’, in quanto ancora è tutto sperimentale. Eppoi per quanto tempo? Il problema è che il parkinson prima ti poteva ‘colpire’ intorno a 70 anni, ora anche a 30 anni. Puoi rallentare la malattia, però non puoi tornare indietro”.        

(Foto: Mauro Mogliani)  

Roberto Mauri: l’oratorio rinasce dal sogno di san Giovanni Bosco

“Ci siamo. E’ giunto il momento di rompere gli indugi e andare oltre gli oratori e i patronati nelle forme pastorali che ci sono familiari. E’ arrivato il tempo di vincere le nostalgie, salutare ‘la terra dei padri’ e procedere con coraggio in una terra pastorale nuova, in gran parte ancora da esplorare ed abitare”: così scrive lo psicologo e psicoterapeuta Roberto Mauri, fondatore del Centro Studi ‘Missione Emmaus’, autore del libro ‘Campo base. L’oratorio che verrà?’, nel quale analizza la sfida che interpella la Chiesa di elaborare nuove forme e modelli pastorali in discontinuità con gli attuali.

Il testo analizza i modelli di oratorio fino ad oggi realizzati ed i fattori della loro irreversibile crisi, per poi prospettare una diversa forma pastorale, un nuovo ‘sogno’ profetico e generativo, come fu a suo tempo quello di san Giovanni Bosco. Attraverso un’analisi lucida ed appassionata, il testo ripercorre la storia dell’oratorio, prendendo in esame i due modelli che hanno caratterizzato la vicenda oratoriana moderna dalle sue origini: il modello ‘oratorio cittadella’, ovvero il tentativo di proporre un’alternativa educativa attraente alla modernità; il modello ‘oratorio carovana’, ovvero l’investimento sulla progettualità e la sinergia rinnovata tra le componenti interne all’oratorio e parrocchiali per favorire un’esperienza integrale di educazione alla fede.

Quindi si tratta di cambiare paradigma, adattandolo ai tempi: “E’ giunto il tempo di ‘non trattenere oltre’ ciò che ha concluso il suo percorso, non ‘indurire il cuore’ pastorale ma cogliere i segni dei tempi. ‘Campo Base’ è un germoglio pastorale da coltivare, da cui avviare percorsi trasformativi, luogo da cui partire verso nuove ascensioni, ed a cui ritornare, per narrare/rsi per nuovamente ripartire”.

Partendo da queste ‘provocazioni’, che scaturiscono dal libro, chiediamo al dott. Roberto Mauri di raccontarci quale ‘oratorio verrà’: “L’oratorio che verrà non sarà un ‘oratorio’, almeno nel modo in cui oggi lo conosciamo. Il cambio d’epoca che la Chiesa sta attraversando ha messo in crisi i quattro pilastri del modello su cui l’oratorio da sempre si reggeva (la figura carismatica del sacerdote, il protagonismo giovanile, il radicamento territoriale e l’identità cristiana condivisa). Oggi ‘l’oratorio è nudo!’, per parafrasare nota fiaba di Andersen, essendo venuto meno il ‘mito’ fondativo oratoriano, al di là delle difese d’ufficio.

L’oratorio che verrà non potrà essere l’ennesimo aggiornamento o restyling del modello tradizionale, come più volte si è cercato di fare. Non si tratta più di ‘ripartire meglio’, si tratta di cambiare paradigma, quei presupposti ‘invisibili’ in quanto dati per scontato. Occorre lo slancio profetico di immaginare nuove forme originali di presenza e di azione pastorale giovanile, capaci di intercettare le sfide della modernità liquida”.

Per quale motivo l’oratorio è un campo base?

“Oggi l’oratorio non è un campo base, ma lo potrebbe diventare accettando di rinascere su altre basi e premesse pastorali, metodologiche e organizzative.  L’oratorio, al pari di altre realtà ecclesiali è una forma pastorale appartenente a un’epoca ormai finita. Il termine ‘campo base’, al contrario, indica l’esigenza di individuare diverse forme pastorali come il già citato cambio d’epoca richiede.

‘Campo Base’ rimanda all’emergere dei cosiddetti ‘terzi luoghi’ pastorali, piccole strutture e spazi di ospitalità e di innovazione molto più flessibili rispetto alle solide tradizionali strutture pastorali cui siamo abituati, realtà leggere più simili ai moderni coworking che all’attuale organizzazionecatechistico-familiar-sportivo che solitamente caratterizzano gli oratori attuali. Un Campo Base si caratterizza per la sua essenzialità, leggerezza, accessibilità, apertura.

Esso nasce dalla volontà di coltivare il desiderio e non dal bisogno di risolvere problemi. ‘Campo Base’ è un modello tras-formativo, fortemente esperienziale, che mira a coniugare fraternità (lo stare insieme) e grandezza (sperimentare imprese condivise): proprio ciò che rende attraente la metafora del Campo Base”.

Quale pastorale oratoriana è necessaria per attrarre i giovani?

“La domanda è mal posta e riflette la classica impostazione centripeta oratoriana: non si tratta di attrarre i giovani, di farli venire in oratorio ma di incontrarli in chiave missionaria: si tratta di creare condizioni per ‘uscire’ e non ‘far entrare’, essere sinceramente attratti dal mondo giovanile e non attrarre.

L’immagine e modello del ‘Campo Base’ rimanda non più una realtà (quella dell’oratorio) scelta e proposta perché solida e rassicurante ma ad un punto di riferimento aperto e flessibile, luogo di partenza per nuove ascensioni e di ritorno per rielaborare le esperienze vissute e favorire nuove tessiture di senso, in una ritrovata unità di corpo, vita, spirito. Un modello che privilegia la valenza trasformativa dell’esperienza, il primato dei processi rispetto ai progetti, l’utilizzo di metafore e situazioni di tipo ‘iniziatico’, per favorire una rilettura critica delle proprie esperienze umane e spirituali per una nuova tessitura di senso”.

In quale modo si può fare sprigionare la creatività dei giovani?

“Rendendoli e facendoli sentire davvero soggetti e non oggetti dell’azione pastorale, valorizzando la loro sete di libertà ed esplorazione. La creatività giovanile scaturisce quando parte dal desiderio di coniugare ricerca di senso e bellezza, nella libertà, attraverso esperienze sfidanti e la loro rinarrazione trasformativa. Vale la regola sinodale del camminare insieme, così da entrare in contatto con la sana inquietudine dell’incompletezza con la consapevolezza che ci sono ancora molte cose di cui non siamo in grado di portare il peso. La creatività dei giovani si sprigiona a partire dall’assumere una postura spirituale di ascolto, dalla consapevolezza di avere molto da imparare per rigenerare attorno a sé fiducia e credibilità”.

E’ ancora attuale per la Chiesa il ‘sogno’di don Bosco?

“Quello che è davvero attuale, addirittura urgente, per la Chiesa, e che rimarrà tale, è la disponibilità e possibilità di sognare profeticamente, come a suo tempo fece don Bosco. Il sogno profetico è uno dei linguaggi preferiti da Dio nella Bibbia, come ben sappiamo. Sappiamo però anche che non si sogna mai due volte la stessa cosa. Oggi don Bosco con ogni probabilità avrebbe altre fertili

intuizioni, diverse dal metodo preventivo e formazione professionale. Il ‘sogno profetico’ di don Bosco raccoglieva la sfida della nascente questione giovanile legata all’affermarsi della modernità industriale ed urbana, mentre oggi la questione giovanile, nella modernità liquida in cui ci troviamo, si pone in termini molto diversi.

Il punto critico tuttavia è un altro, ovvero nel fatto che da tempo gli oratori hanno smesso di sognare: cercano segnali di futuro guardando al loro passato e così facendo accentuano lo scollamento tra azione pastorale e vita reale dei giovani. Parafrasando l’epistemologo Michel Serres, gli oratori brillano di una luce simile a quella delle costellazioni che gli astronomi ci dicono morte da tempo”.

Cosa si propone il Centro Studi ‘Missione Emmaus’?

“Il Centro Studi ‘Missione Emmaus’ opera attraverso un approccio di accompagnamento pastorale che si differenza da una semplice proposta di formazione. Lavorare per processi significa attivare nuovi dinamismi a partire da una visione condivisa e non da semplici bisogni. Ciò si concretizza nell’affiancamento e nel sostegno dei responsabili di una realtà pastorale (parrocchia, comunità pastorale, diocesi, congregazione…) senza sostituirsi ad essi, ma facilitando e sviluppando sinergie che valorizzino le risorse presenti”.

(Tratto da Aci Stampa)

Papa Francesco agli artigiani: il bene ha bisogno di talenti

Ricevendo oggi in udienza circa 300 rappresentanti della Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della piccola e media impresa italiana, papa Francesco ha sottolineato il valore del lavoro artigianali, esortandoli a mettere a disposizione per la promozione del bene comune la loro creatività:

“L’artigianato mi è molto caro perché esprime bene il valore del lavoro umano. Quando creiamo con le nostre mani, nello stesso tempo attiviamo la testa e i piedi: il fare è sempre frutto di un pensiero e di un movimento verso gli altri. L’artigianato è un elogio alla creatività; infatti, l’artigiano deve saper scorgere nella materia inerte una forma particolare che altri non sanno riconoscere. E questo vi rende collaboratori dell’opera creatrice di Dio. Abbiamo bisogno del vostro talento per ridare senso all’attività umana e per metterla al servizio di progetti di promozione del bene comune”.

E’ stato un esplicito riferimento alla parabola evangelica dei talenti: “Un padrone consegna a tre servi dei talenti da far fruttare. Quello che ne ha ricevuti cinque si dimostra intraprendente e ne guadagna altri cinque. Quello che ne ha ricevuti due fa altrettanto e ne procura altri due. Entrambi vengono lodati dal padrone allo stesso modo. Non conta la quantità, ma l’impegno di far fruttare i doni ricevuti. Proprio ciò che manca al terzo servo, che per paura e per pigrizia nasconde il suo talento sottoterra. Ha rinunciato all’intraprendenza perché non ha coltivato un rapporto di fiducia verso il suo padrone, verso la vita e verso gli altri, un rapporto di fiducia con gli altri”.

Tale parabola è un invito ad abbandonare il timore di non essere capace e di avere fiducia: “Questa parabola è un inno alla fiducia in Dio, e un invito a una sana, positiva ‘complicità’ con Dio, che ci rende partecipi dei suoi beni e conta su di noi, conta sulla nostra responsabilità. Se nella vita si vuole crescere occorre abbandonare la paura e avere fiducia. A volte, specialmente quando aumentano le difficoltà, siamo tentati di pensare che il Signore sia un arbitro o un controllore implacabile più che Colui che ci incoraggia a prendere in mano la vita”.

Però tale fiducia ha necessità di uno sguardo di fede, che si concretizza nella storia di ciascuno: “Ma il Vangelo ci chiama sempre ad avere uno sguardo di fede; a non pensare che ciò che realizziamo sia frutto solo delle nostre capacità o dei nostri meriti. E’ frutto anche della storia di ognuno di noi, è frutto di tanta gente che ci ha insegnato ad andare avanti nella vita, incominciando dai genitori.

Il lavoro che faccio è frutto di una storia, che ci ha resi capaci di fare questo. Anche voi, se vi appassionate al vostro lavoro, e se qualche volta giustamente vi lamentate perché non è adeguatamente riconosciuto, è perché siete consapevoli del valore di ciò che Dio ha posto nelle vostre mani, non solo per voi ma per tutti”.

E la paura si esorcizza attraverso la partecipazione ad un progetto: “Tutti abbiamo bisogno di mettere da parte la paura che paralizza e distrugge la creatività. Possiamo farlo anche nel modo di vivere il lavoro quotidiano, sentendoci partecipi di un grande progetto di Dio, capace di sorprenderci con i suoi doni. Dietro alle nostre ricchezze non c’è solo bravura, ma anche una Provvidenza che ci prende per mano e ci conduce. Il lavoro artigianale può esprimere bene tutto questo, se è accompagnato giorno per giorno dalla consapevolezza che Dio non ci abbandona mai, che siamo capolavori delle sue mani, e per questo siamo capaci di realizzare opere originali”.

Da qui l’invito del papa ad ‘abbellire’ il mondo per costruire la pace: “Vorrei elogiare il vostro lavoro anche perché abbellisce il mondo. Noi viviamo tempi di guerra, di violenze; dappertutto le notizie sono così e sembrano farci perdere la fiducia nelle capacità dell’essere umano, lo sguardo alle vostre attività ci consola e ci dà speranza. Abbellire il mondo è costruire pace. Mi ha detto un economista che gli investimenti che danno più reddito oggi, in Italia, sono le fabbriche delle armi”. Quindi il papa ha incoraggiato gli artigiani ad essere costruttori di pace, come ha scritto nell’enciclica ‘Fratelli tutti’: “Questo non abbellisce il mondo, è brutto. Se tu vuoi guadagnare di più devi investire per uccidere. Pensiamo a questo. Non dimenticate: abbellire il mondo è costruire pace. L’enciclica, ‘Fratelli tutti’, ha definito i costruttori di pace come artigiani capaci di avviare processi di ripresa e di incontro con ingegno e audacia. Lo stesso ingegno e la stessa audacia che voi usate per realizzare le tante opere destinate ad arricchire il mondo”.

Ha concluso l’incontro esortandoli a mettere i loro ‘talenti’ a servizio del bene comune: “E Dio chiama tutti gli uomini e le donne a lavorare in modo artigianale, come Lui, lavorare a quel progetto di pace che Lui ha. Per questo Egli distribuisce in abbondanza i suoi talenti, perché siano messi al servizio della vita e non sotterrati nella sterilità della morte e della distruzione, come fanno le guerre, fomentate dal nemico di Dio.

Cari amici, grazie per quello che sapete realizzare attraverso il vostro lavoro; e grazie anche per l’impegno sociale: anche questo è un lavoro che richiede pazienza e progettualità! San Giuseppe artigiano vi ispiri sempre a vivere il lavoro con creatività e passione”.

(Foto: Santa Sede)

Card. Zuppi invita ad essere amici della vita

Domenica 3 novembre nella basilica di Santa Maria in Trastevere a Roma, in occasione della Celebrazione Eucaristica per i 70 anni della televisione, i 100 anni della radio ed i 70 anni della trasmissione della Santa Messa, partendo dal brano del Vangelo, che era un invito all’ascolto: “È una domanda molto vera, forse all’inizio fatta senza tanta convinzione, solo per discutere. Gesù E’ maestro. E’ il maestro e ci fa trovare il vero, quello che cerchiamo e di cui abbiamo bisogno non per collezionare tante risposte che alla fine non ci fanno credere più a niente”.

Ed ha sottolineato l’importanza di ascoltare Dio: “Ascoltare Dio libera da tanti idoli che si impadroniscono del cuore, a cominciare da quello così enfatizzato dalla nostra generazione che qualcuno chiama “egolatria” e che tanti sacrifici impone, rovinando proprio il nostro io. Gesù parla di amore, non un amore qualsiasi, un surrogato o un elisir di benessere, ma amore, con tutto il cuore, la mente e la forza. Mente e cuore insieme e con tutta la forza, perché l’amore vero, quello che cerchiamo non è consolatorio, un entusiasmo che finisce, ma è forte, vince le paure, cambia il mondo, si misura con il male e lo sconfigge. Gesù per primo ama con tutto sé stesso”.

L’amore coinvolge la mente ed il corpo: “Mente e cuore insieme e con tutta la forza, perché l’amore vero, quello che cerchiamo non è consolatorio, un entusiasmo che finisce, ma è forte, vince le paure, cambia il mondo, si misura con il male e lo sconfigge. Gesù per primo ama con tutto sé stesso. Ama tutti, perché sente tutti suoi e amandoli trova la bellezza nascosta in ognuno e si accorge quanto tutti hanno bisogno di amore, anche quando essi stessi non lo capiscono e si nascondono. Solo amare il prossimo fa amare sé stessi, fa capire chi siamo e il nostro valore più di qualunque interpretazione e prestazione, che non bastano mai. Amore per Dio e per il prossimo. Insieme”.

Ed ha invitato a rileggere la storia della Rai: “Questa pagina del Vangelo è il miglior piano editoriale, il palinsesto più efficace per pianificare il lavoro e renderlo sempre sorprendete e nuovo, ma anche per rileggere le azioni compiute. Oggi, in questa Basilica (che è un vero spettacolo e che con la bellezza del mosaico ci aiuta a vedere le cose del cielo, a contemplare il mistero luminoso dell’amore di Dio che si riflette su di noi e accende la luce che portiamo dentro di noi) ricordiamo e ringraziamo per i 70 anni della Televisione e per i 100 anni della Radio”.

E’ stato un ringraziamento alla Rai per il servizio che svolge: “Ringraziamo la RAI per il suo prezioso servizio. Quanto è importante presentare il mondo, la vita vera, non banalizzarla, farla conoscere, aiutare a capire e sconfiggere l’ignoranza con una conoscenza vera, profonda dell’umano e dell’umanità, del creato e delle creature e quindi, sempre, anche del creatore. Farlo richiede e esprime professionalità, creatività, rigore, servizio per fare conoscere e capire. 

L’ethos nazionale non sarebbe lo stesso, il nostro paese non sarebbe lo stesso e noi tutti non saremmo gli stessi, senza questi 70 anni di televisione. Un’intera generazione non sarebbe uscita dall’analfabetismo senza la televisione e l’Italia sarebbe stata meno unita senza questo immaginario comune che crea anche quel tanto che ci unisce. Guai a dividerlo o indebolirlo, a fare qualcosa di parte quello che è di tutti!”

Ed ha richiamato le parole di papa Francesco: “Papa Francesco, proprio alla RAI, ha detto che la vostra presenza nelle case degli italiani è come ‘un gruppo di amici che bussano alla porta per fare una sorpresa, per offrire compagnia, per condividere gioie e dolori, per promuovere in famiglia e nella società unità e riconciliazione, ascolto e dialogo, per informare e anche per mettersi in ascolto, con rispetto e umiltà’.

Continuate a esserlo, siate davvero amici della vita con sapienza e tanta umanità vera e non finta, per regalare prossimità e vicinanza, unione e appartenenza, specialmente a chi vive situazioni di isolamento o di vera e propria solitudine. Ecco il nostro augurio e sono certo sarà il vostro impegno per onorare un compito così importante e delicato. Desidero ricordare anche tutti quei colleghi che hanno offerto la loro vita per la comunicazione e l’informazione: alcuni sono diventati volti familiari, tra i più amati e conosciuti, tutti importanti”.

Ha concluso l’omelia con l’invito a raccontare la vita: “Chiediamo al Signore che lo straordinario e affascinante, a volte tragico spettacolo della vita, la scena di questo mondo, lo sappiamo raccontare e comunicare cercando sempre di amarlo, perché chi ama Dio ama il prossimo e non smette di scoprire l’incanto e la benedizione che è la vita, che a tutti chiede sempre e solo amore”.

Mons. Mosciatti: la santità dà la carica per vivere nella realtà

“Uno degli inni liturgici della festa del nostro patrono san Cassiano così lo descrive: ‘Con zelo insegni ai giovani l’arte di scriver celere e con parole esplicite Cristo verace predichi’. Colpisce di Cassiano la caratteristica di un uomo che ha svolto con diligenza ed entusiasmo il proprio compito, avendo a cuore di insegnare un lavoro ai giovani, ma nello stesso tempo la presenza di Cristo nella sua vita lo ha reso annunciatore del significato del vivere, tanto da parlarne in maniera, dice l’inno, esplicita, chiara e verace” mons. Giovanni Mosciatti, vescovo di Imola, ha definito il patrono della città, san Cassiano come annunciatore di vita nella celebrazione per la festa del patrono.

E’ un tratteggio di una santità quotidiana: “Certamente Cassiano ha vissuto pienamente la sua esistenza nell’operosità e nella creatività del lavoro, ma nell’adesione a Gesù Cristo ha anche trasmesso il significato profondo di quel lavoro e un gusto di vita nuova”.

Quindi i santi vivono nella realtà: “Così è il cristiano: una persona attenta alla realtà e capace di declinare nella vita quotidiana la passione e il gusto per la vita che Gesù ha portato. Con Lui la vita acquista il suo pieno valore e diviene degna di essere vissuta, in ogni suo aspetto”.

Un paragone che potrebbe essere giusto anche per il tempo di oggi: “Oggi viviamo in un tempo secolarizzato e sembra che la proposta cristiana non susciti interesse, ma non è venuto meno il bisogno dell’uomo, il suo irriducibile desiderio di significato. Ce lo dice la nostra esperienza quotidiana.

rSe lasciamo parlare il cuore ci accorgiamo che veramente siamo definiti da un’inquietudine che si manifesta in mille modi. Siamo interconnessi digitalmente 24 ore su 24, ma ci si accorge di uomini e donne spesso sprofondati nella solitudine, con legami solo passeggeri ed evanescenti”.

Il cristianesimo non estranea la gente dalla realtà, perché esso è un avvenimento: “Ciò di cui abbiamo bisogno è però più vicino di quello che pensiamo. Così vicino da identificarsi in un pezzo di pane che possiamo mangiare, in una persona che possiamo abbracciare. Il cristianesimo continua ad accadere come un avvenimento presente…

Questa situazione presenta molte analogie con il paganesimo romano del II-III secolo dopo Cristo. I cristiani di allora non scommisero su una vittoria culturale o politica, rischiarono una testimonianza gratuita che si trasmetteva da persona a persona. In questo modo, in 300 anni, riuscirono a mutare il volto del più grande impero della storia. Così come ci testimonia Cassiano”.

La gente si convertì non per una teoria, ma per una presenza, come quella di san Cassiano nella terra imolese: “Non credettero perché Cristo diceva delle cose, non credettero perché fece miracoli, fino a risuscitare i morti. Tant’è che molti videro ma questa non cambiò la loro vita. Credettero per una presenza carica di proposta, per una presenza carica di significato.

La testimonianza di Cassiano è allora un invito per noi a lasciarci colpire da quello stesso avvenimento. Un invito a verificare se quella presenza carica di significato basta per vivere. Perciò il problema è davvero quello del riaccadere di esperienze di fede, personali e comunitarie, in modo che l’uomo di oggi possa incontrare, di nuovo, o per la prima volta, il cristianesimo. Possa sperimentare il fascino della realtà di Cristo nella vita, come duemila anni fa”.

L’omelia del vescovo imolese è un invito a non preoccuparsi dell’inadeguatezza della propria  testimonianza: “La testimonianza è innanzitutto di Cristo in noi, attraverso il cambiamento che provoca nella nostra vita e a cui io acconsento liberamente… Abbiamo bisogno di qualcosa che non dipenda dalle nostre capacità o dai nostri progetti, ma che riaccada nella nostra vita ed allarghi la misura del nostro cuore”.

In fondo Cristo si è fatto uomo: “Perciò l’incontro con Cristo è l’imbattersi in una realtà umana diversa. Ti imbatti in una realtà umana che ha una differenza di vita che tu percepisci.

Cominciarono ad accorgersi di Cassiano e ad accusarlo dicendogli: ‘Tu sei diverso dagli altri, c’è qualcosa di diverso’. Ecco, l’incontro è l’imbattersi in una diversità, che ti attrae. E’ la modalità con cui Cristo si rende presente agli uomini. E ti attrae perché corrisponde di più al tuo cuore”.

(Foto: Diocesi di Imola)

Settimana della Lingua Italiana nel mondo: Biagio Maimone presenta il suo saggio a New York

Il giornalista Biagio Maimone presenterà, martedì 15 ottobre, alle ore 17.30, nella Sala Conferenze dell’Istituto Italiano di Cultura di New York, a Park Avenue, il suo saggio intitolato ‘La Comunicazione Creativa per lo sviluppo socio-umanitario’, edito dalla Casa Editrice TraccePerlaMeta.

Il libro sta riscuotendo molto interesse in quanto propone la necessità di fondare un nuovo modello comunicativo che ponga al centro la relazione umana ed, ancor più, l’emancipazione morale ed umana della società odierna. Il libro ha ottenuto il patrocinio dell’Istituto Italiano di Cultura di New York ed è stato inserito nel programma delle iniziative per l’edizione 2024 della Settimana della Lingua Italiana nel mondo il cui tema quest’anno è ‘L’italiano e il libro: il mondo fra le righe’.

La metropoli statunitense rappresenta la prima tappa internazionale del giornalista il quale intende presentare la sua opera letteraria nelle principali città europee e negli Emirati Arabi. Secondo Maimone, Il dialogo è la condizione imprescindibile per realizzare la pace ed esso vive se chi comunica utilizza la ‘parola vitale’, tale in quanto  genera la vita e non il conflitto.

La comunicazione è vitale, pertanto, quando fa sgorgare dal cuore umano l’amore per la ‘Bellezza’, che è l’espressione di un disegno di amore insito nell’interiorità di ogni persona, da proiettare nella realtà per emanciparla e renderla una dimora accogliente per tutti, nella quale non vi è posto per la violenza e la conseguente esclusione. L’Amore per la ‘Bellezza’,  da veicolare attraverso la comunicazione, la parola scritta e parlata,  inevitabilmente, conduce all’amore per i deboli, per gli ultimi, al fine di renderli forti, inclusi, risvegliando in loro la gioia di vivere.

L’amore per la ‘Bellezza’ si prefigge la diffusione di quella ‘Parola’ capace di veicolare la ‘Pedagogia della Pace’, che crea ponti di umanità e quel dialogo che fa vivere le differenze, accogliendole in un progetto di vita: “Nel mio saggio ho voluto porre in luce la necessità di creare un modello comunicativo che tenga conto dell’importanza inconfutabile dell’uso appropriato della parola, superando quelle distorsioni, ormai consuete, che la rendono veicolo di offese, di menzogne, nonché di calunnie, che ledono la dignità umana dell’interlocutore e di ascolta o legge.

Possiamo constatare come spesso i mass media, i social molto di più, veicolano messaggi i cui contenuti sono pervasi dalla violenza e dall’odio sociale, dall’intento di screditare e porre sul rogo chi ritengono essere un avversario. Ciò che emerge è il farsi strada di una subcultura della comunicazione che rischia di impoverire sempre più la relazione umana, in quanto i messaggi che essa trasmette sono diseducativi.

Nel mio testo, che intende contrastare tale impoverimento culturale e la sua nocività, si rimarca che la parola è vita  in quanto deve generare la vita nelle sue espressioni più nobili e spirituali, perchè essa penetra nelle coscienze individuali e collettive e, se è sorretta dalla violenza e dalla menzogna, crea una coscienza umana che è guidata da disvalori che impoveriscono i singoli individui e, conseguentemente, l’intera collettività ed il contesto sociale.

Umanizzare il linguaggio affinché sia veicolo della ‘Pedagogia della Vita’ definisce il significato autentico del mio impegno giornalistico, che sono certo possa essere condiviso da chi fa della comunicazione lo strumento mediante cui giungere al mondo interiore di chi ascolta, al fine di arricchirlo e non  impoverirlo attraverso un uso distorto e, pertanto, nocivo del linguaggio. L’ epoca contemporanea pone in luce un crescente smarrimento di natura spirituale e morale, che si riflette sulla relazione umana, sulle relazioni tra gli Stati e i Continenti dell’intero universo, generando conflitti, nonché povertà morale e materiale. Ne è testimonianza l’insorgere continuo di conflitti in numerosi territori del mondo.

Quel che manca è la ‘Cultura Umana’, la ‘Cultura della Fratellanza Umana’ e  la ‘Cultura’ intesa come conoscenza profonda della realtà e del significato autentico del valore dell’essere umano,  in quanto soggetto pensante, nel cui mondo interiore vivono i valori che gli  attribuiscono un valore regale rispetto a tutte le altre creature ed, ancor più, rispetto alle cose” ha dichiarato Biagio Maimone, il quale ha sottolineato inoltre:

“La cultura umana consente di cogliere la bellezza depositata nell’interiorità della persona, generata dallo splendore divino che alberga nell’animo umano. E’ compito di chi comunica porre al centro la ‘Cultura Umana’ ed, in tal modo, rimarcare il valore supremo dell’essere umano, che lo distingue dalle cose materiali. Per tale motivo intendiamo insegnare, partendo dai rudimenti della conoscenza, quell’arte che già Fromm rivendicava come valore supremo, che è l’arte di amare. Occorre insegnare, pertanto, ad amare. Occorre, pertanto, comunicare l’amore.

Ed ecco la necessità di fare in modo che la nostra pedagogia comunicativa sia tesa al recupero dei valori dell’arte e della spiritualità, entrambi appartenenti alla sfera etica e morale della vita dell’individuo, necessari per alimentare e far progredire ogni dimensione della vita umana.

Si tratta di ritrovare la bellezza morale attraverso la comunicazione, che diviene, innanzitutto, insegnamento morale, talmente incisivo da poter migliorare l’interazione umana.

Ho avuto la possibilità anche di poter scrivere relativamente alla realizzazione della Casa della Famiglia Abramitica, edificata nella città di Abu Dhabi, che è uno tra i progetti più rilevanti in quanto pone le basi del dialogo interreligioso creando uno spazio fisico, un territorio comune su cui sono stati edificati tre luoghi di culto diversi (una Chiesa, una Sinagoga e una Moschea), posti l’uno accanto all’altro, in ciascuno dei quali si praticano religioni diverse, le quali si interfacciano reciprocamente per dialogare su ogni tema della vita religiosa ed umana.

Altrettanto coinvolgente è stato per me poter scrivere relativamente ai seguenti progetti: l’Orfanotrofio ‘Oasi della Pietà’, che è stato inaugurato il 5 maggio 2024 nella città Il Cairo, i Convogli medici, l’Ospedale Pediatrico ‘Bambino Gesù del Cairo’, primo Ospedale del Papa fuori dall’Italia, la ‘Scuola della Fratellanza Umana’ per le persone portatrici  di disabilità, la ‘Catena dei Ristoranti della Fraternità Umana’, denominata ‘Fratello’, che offre pasti gratuiti alle famiglie bisognose egiziane. Poter contribuire alla loro conoscenza è stato per me motivo di grande felicità.

Dedico il mio libro, pertanto, a mons. Yoannis Lahzi Gaid per la fiducia che ha riposto in me e, nel contempo, a Sua Santità Papa Francesco, in quanto promotore della  realizzazione dei progetti, per i quali ho potuto collaborare nell’impegno di divulgazione, che ha visto l’opinione pubblica destinataria dell’informazione inerente l’impegno connesso all’affermazione del dialogo interreligioso, promosso, in via prioritaria, dalla Chiesa Cattolica e dalla religione musulmana sunnita.

Ritengo che comunicare la pedagogia dell’amore, del rispetto della dignità umana e del valore della vita spirituale sia compito primario dei mass media, degli operatori che in essi riversano le proprie energie. La dimensione socio-umanitaria della vita non può essere sottovalutata da una comunicazione priva di ‘anima’, in quanto la società rischia di regredire verso la barbarie, in cui dominerà  la violenza in tutte le sue forme. La vita non può essere un campo di battaglia, ma l’incontro amorevole e fraterno di ogni essere umano. Perché sia così è necessario diffondere  messaggi che ricreino la consapevolezza smarrita del valore sacro di ogni persona”.

Il card. Tolentino de Mendonça ha presentato il padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia

Oggi il card. José Tolentino de Mendonça, prefetto del dicastero per la Cultura e l’Educazione, ha presentato il Padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia, sul tema ‘Con i miei occhi’, visitabile dal 20 aprile al 24 novembre, che sarà visitato anche dal papa domenica 28 aprile: “E’ con grande gioia, quindi, che abbiamo accolto la notizia della visita di papa Francesco al Padiglione. Si tratterà di un momento storico poiché papa Francesco sarà il primo papa a visitare la Biennale di Venezia, il che dimostra chiaramente la volontà della Chiesa di consolidare un dialogo fecondo e ravvicinato con il mondo delle arti e della cultura”.

Ha spiegato il tema scelto dalla Santa Sede per la Biennale veneziana: “Non è un caso che la Santa Sede abbia scelto di presentare il suo padiglione alla Biennale di Venezia, nell’anno in cui questa celebra la sua sessantesima edizione, in un luogo apparentemente inaspettato, come lo può essere il Carcere femminile dell’Isola della Giudecca. E non è certo un caso che il titolo del padiglione, ‘Con i miei occhi’, voglia focalizzare la nostra attenzione sull’importanza di come costruiamo il nostro sguardo sociale, culturale e spirituale, di cui siamo tutti responsabili”.

E’ lo sguardo che è trait d’union tra l’esperienza artistica e l’esperienza di fede: “Viviamo in un’epoca, marcata dal predominio del digitale e dal trionfo delle tecnologie di comunicazione a distanza, che propongono uno sguardo umano sempre più differito e indiretto, correndo il rischio che esso rimanga distaccato dalla realtà stessa.

La contemporaneità preferisce metaforizzare lo sguardo; invece, vedere con i propri occhi conferisce alla visione uno statuto unico, poiché ci coinvolge direttamente nella realtà e ci rende non spettatori, ma testimoni. Questo è ciò che accomuna l’esperienza religiosa con l’esperienza artistica: nessuna delle due smette di valorizzare l’implicazione totale del soggetto”.

In questo sessantesimo anniversario della Biennale il prefetto del dicastero ha ricordato anche il sessantesimo anniversario della proiezione del film di Pier Paolo Pasolini, ‘Il Vangelo secondo Matteo’ a Venezia: “E Pasolini confessò allora che il suo fascino per il Gesù narrato dall’evangelista Matteo era dovuto ‘ai limiti della metaforicità, fino ad essere una realtà’. Basti ricordare il capitolo 25 del Vangelo di Matteo…

Questo è uno dei testi biblici più commentati da papa Francesco e che possiamo certamente associare alle linee portanti del Suo pontificato… Riacquistare la capacità di guardare la realtà, come punto di partenza per ridisegnarla, coreografando nuove possibilità: questo ha sottolineato papa Francesco agli artisti quando li ha ricevuti nello storico incontro dello scorso giugno, nella Cappella Sistina”.

Mentre Giovanni Russo, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia, intervenuto alla presentazione del padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia, visitabile nel Carcere femminile della Giudecca, ha affermato che “il carcere è un luogo inaspettato, ma dove l’attesa è una condizione permanente…

Il nostro compito è quello di aiutare i detenuti, in questo caso le detenute, a ricostruire il proprio vissuto dopo gli errori che, per svariate ragioni, sono stati compiuti nella loro vita precedente. Le detenute sono state chiamate non solo ad ospitare, ma anche a collaborare attivamente alla costruzione del Padiglione, e ciò ha avuto un importante ruolo riparativo, un modo per vivere in concreto la generosità, la solidarietà, e tutti quei valori che sono tipici del cristianesimo e che loro nella loro vita passata avevano per ragioni diverse calpestato”.

Invece per per Bruno Racine, curatore del Padiglione della Santa Sede: “Trovare un luogo che sia già in sé un messaggi… sarà un’esperienza per gli artisti, le detenuti e i visitatori, che dovranno capire che attraversano un confine, in sintonia con il tema generale della Biennale, Stranieri ovunque”.

Chiara Parisi, anche lei curatrice del Padiglione della Santa Sede, ha parlato della ‘doppia creatività’ degli artisti e delle detenute, che ha portato frutti come un docufilm girato nel carcere, a cui hanno partecipato una ventina di detenute, ed opere ispirate alle foto di famiglia delle recluse o a poesie scritte da loro.

 (Foto: la biennale)

Papa Francesco: l’evangelizzazione è ‘animata’ dallo Spirito Santo

“Non dimentichiamo di pregare per chi soffre per il dramma della guerra, in particolare per Ucraina, Palestina e Israele. La guerra è sempre una sconfitta, tutti perdono. Ci guadagna solo chi fabbrica armi”: ancora una volta papa Francesco ha chiesto di pregare per la pace al termine dell’udienza generale per la catechesi sull’evangelizzazione, delegando la lettura ad un collaboratore per motivi di salute in via di miglioramento. In questa catechesi ha sottolineato che l’evangelizzazione avviene con l’aiuto dello Spirito Santo:

Card. Zuppi: cattolici sono minoranza creativa

“Prima di entrare in medias res, mi sia consentito un ricordo doveroso ma cordiale del Presidente Giorgio Napolitano. In particolare negli anni della sua presidenza della Repubblica, dal 2006 al 2015, ha dimostrato grande sapienza non soltanto nella gestione delle crisi, ma anche nell’impegno ordinario a far dialogare le varie componenti della politica italiana e a dare alle discussioni un respiro almeno europeo, se non mondiale. Questo sforzo per il dialogo costante e per un allargamento degli orizzonti resta un esempio significativo e molto attuale”.

Preti per una Chiesa in uscita. Ripensare il ministero nel contesto attuale

‘Preti per una Chiesa in uscita’, pubblicato da Edizioni Messaggero Padova (2023), cerca di approfondire il ‘cambiamento d’epoca’ fotografato ormai alcuni anni fa da papa Francesco.

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