Intorno ai femminicidi

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Proseguendo la nostra disamina si sottolinea che il rapporto anomalo fra il maschio e la femmina di qualsiasi età si può evincere da vari sintomi (possessività, eccessivo controllo del partner, morbosità esasperante, lontananza dalla chiesa, pulsioni istintive malevoli, ecc.) e da diversi indizi (espressioni palesi o velate di gelosia, di invidia, di esuberante competizione, incomunicabilità con sé stesso, con Dio, con i genitori, con i sacerdoti, ecc.) che spesso purtroppo incidono sui propri comportamenti lesivi del prossimo (spesso contro le donne al medesimo vicine), cioè verso “reati contro le persone”, di cui si occupa anche mio figlio Riccardo, alto magistrato penale presso la Corte d’Appello (cfr. le norme sancite dal Titolo XII – Dei delitti contro la persona – LIBRO SECONDO Brocardi.it https://www.brocardi.it › codice-penale › titolo-xii omicidi, lesioni, percosse, sequestri, rapimenti, ecc.) tentati, consumati ed aggravati (https://www.avvocatopenalista.org/contenuto.php?id=20401&redirected=d2fc6c8fd2f733006 b019b325ccb7b00 ) commessi con dolo (intenzionalmente, cfr. https://www.njus.it/news/2799/premeditazione-e-preordinazione-del-delitto-di-omicidio/, o con colpa, cioè per negligenza o imprudenza od imperizia, cfr. Differenza tra dolo colpa e preterintenzione – DAS Difesa Legale) o con preterintenzione (p. e. si vuole dare un pugno, ma l’altro/a batte la testa e muore), con crudeltà, per motivi abietti ed anche con premeditazione (cfr. https://www.altalex.com/documents/2023/08/04/premeditazione-motivi-abietti-futilicrudelta-sentenza-maltesi) basati frequentemente sulla tramandata, patriarcale idea di presunta “inferiorità” della donna.

Ritengo pertanto rilevante esaminare il graduale “status” della donna decritto da molti autori (cliccando su ciascun vocabolo in grassetto) iniziando dalla disciplina giuridica contemplata dal Diritto romano, al fine di comprendere meglio le ragioni dell’originaria posizione di “inferiorità”. Come riferito dagli storici del diritto la donna nell’antica Roma viveva in una condizione di minorità pressocché continua, prima sotto la potestà del padre (o un altro membro maschio della famiglia), poi sotto quella del marito. La società romana, fondata sull’autorità del pater familias, era infatti fortemente maschilista.

Educata ai valori del pudore, della riservatezza e della modestia, in genere la donna romana andava sposa molto giovane, per lo più a un uomo scelto dalla famiglia (per un approfondimento leggi Nozze romane, il cerimoniale). Compito principale della matrona era gestire la casa e generare figli educandoli ai valori del mos maiorum. La sua vita si svolgeva soprattutto tra le mura domestiche, anche se poteva uscire a fare acquisti e partecipare ai banchetti insieme al marito (ma non le era però permesso bere vino e assistere al momento più animato della serata). Questo quadro vale certamente per la donna romana di famiglia aristocratica; più variegata era la condizione della donna plebea, che non di rado lavorava come sarta, tessitrice, ostessa, venditrice, balia, lavandaia.

Ancora diversa la condizione della schiava che dipendeva totalmente dal proprio dominus. Se nella Roma arcaica la donna romana era un “eterna minorenne”, con il tempo si affermarono però alcune novità giuridiche. Non parliamo di diritti politici, perché la donna romana rimase sempre esclusa dalle cariche pubbliche e religiose (a parte eccezioni come le sacerdotesse della dea Vesta), ma di diritti civili.

Un primo segnale viene dall’evoluzione del diritto matrimoniale. Il matrimonio tradizionale a Roma era quello cum manus, che prevedeva il passaggio della donna sotto la potestà del marito. Dal II secolo a.C. si diffonde invece ampiamente il matrimonio con il consenso di entrambi i coniugi, detto sine manu, con il quale la donna romana non è più in una condizione di netta minorità giuridica.

Parallelamente cambia anche il divorzio (tematica trattata anche da me nelle mie pubblicazioni postate nel mio gruppo FB e pubblicate da KORAZYM) . Nell’età arcaica esso era deciso dagli uomini, mentre dal I secolo a.C. diventa sempre più libero, frequente e deciso anche dalla donna (per un approfondimento leggi Matrimonio e divorzio a Roma).

Un’altra trasformazione investe il diritto ereditario. La donna romana ha fin dall’età arcaica il diritto di ereditare parte dei beni paterni, non però di fare essa stessa testamento. Le norme che riguardano le facoltà ereditarie e testamentarie della donna si affermano poco alla volta e sono di grande importanza, perché la disponibilità di un patrimonio costituisce, per una donna della buona società, la base concreta della sua emancipazione dal controllo maschile.

Formalmente l’antico concetto giuridico di tutela della donna sopravvive. Di fatto, però, dal I secolo a.C. esso appare in buona parte superato. Nel contesto della sua normativa sulla famiglia e sulla moralizzazione della società – riassunta nella legge Giulia e Papia del 9 d.C. – Augusto concede infatti l’esenzione dalla tutela alle donne che generano almeno tre figli.

In effetti, al tempo di Augusto si sono ormai fatti strada nuovi modelli femminili. Le donne sono più istruite e colte. I Romani non ritenevano negativo o inutile che la donna ricevesse un’istruzione, perché convinti che una donna istruita fosse una madre migliore. La donna romana, almeno quella appartenente ai ceti sociali elevati, riceveva perciò una formazione scolastica.

Tra le donne più istruite e colte vi sono la celebre Cornelia, madre dei fratelli Gracchi, o un’altra Cornelia, la moglie di Pompeo, capaci di animare circoli culturali. Nel I secolo a.C. vi sono donne della buona società che affermano la propria indipendenza; la propria libertà sentimentale e sessuale; che manifestano senza timori la distanza dai modelli della tradizione, suscitando lo scandalo e la riprovazione dei conservatori. Le donne che non si conformavano al modello della matrona virtuosa sono dipinte come immorali e in qualche caso pericolose.

Un esempio di questo atteggiamento si ritrova nel ritratto di Clodia (I secolo a.C.) la seducente Lesbia amata da Catullo (Cicerone ne fa un fosco ritratto nell’orazione Pro Caelio). Un interessante aggiornamento sul nuovo “status” della donna si può approfondire in La “giurista online” ( I diritti delle donne: dal diritto di voto nel 1945 ad oggi) di cui adesso trascrivo, avendolo giudicato facilmente comprensibile da tutti, i principi fondamentali in merito oggi vigenti.

5-Le tappe dei diritti riconosciuti alle donne

Quali sono le sfide che le donne nel corso della storia hanno dovuto affrontare per il riconoscimento dei propri diritti? Nel corso della storia le donne hanno affrontato e vinto una serie di sfide. Hanno lottato e combattuto per la “parità”, per essere riconosciute nel loro ruolo di mamme, di donne lavoratrici, di donne in grado di apportare un contributo alla società senza i lacci che le costringevano ad un ruolo di subordinazione (cfr. www.lagiuristaonline.com).

Nel 1912 il suffragio universale maschile riconobbe a tutti uomini di età superiore ai 21 anni il diritto di voto. La soglia dell’età minima per il diritto di voto venne innalzata ad anni 30 per gli uomini analfabeti. Le donne, invece, dovranno attendere il 1945 quando il Consiglio dei Ministri presieduto da Ivanoe Bonomi con decreto legislativo luogotenenziale n. 23 del 1° febbraio 1945, “Estensione alle donne del diritto di voto”, riconobbe per la prima vota il diritto di voto attivo (eleggere i candidati) anche alle donne. L’estensione porta la firma di Umberto di Savoia, su proposta di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi, anche se fu solo un anno più tardi che le donne ebbero la possibilità di essere anche elette, oltre che eleggere. Infatti, fu solo nel 1946 che venne riconosciuto alle donne con età superiore ai 25 anni il voto passivo, ossia la facoltà di essere elette.

La prima occasione di voto sono state le elezioni amministrative fra il marzo e l’aprile del 1946 e subito dopo, il 2 giugno 1946, quando le donne poterono votare al referendum istituzionale che chiedeva ai cittadini di scegliere tra la Monarchia e la Repubblica. Tuttavia, dal 1946 dobbiamo aspettare il 2006 per ottenere dei numeri rappresentativi della partecipazione delle donne in Parlamento.

Con la Legge n. 7 del 1963 viene introdotta una tutela a favore delle donne lavoratrici, la disposizione appare sorretta da diversi principi costituzionali – in particolare quello sancito dall’art. 37 Cost. (Articolo 37. La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.) – che ben giustificano misure legislative dirette a tutelare il diritto della lavoratrice al lavoro e alla armonizzazione di esso con la sua funzione essenziale di madre.

Dal 1919 alle donne venne riconosciuta la facoltà di ricoprire incarichi pubblici, con espressa esclusione dell’esercizio della giurisdizione. Alle donne era sbarrato l’accesso a incarichi quali quelli nelle Forze Armate o nella magistratura. Pietra miliare delle conquiste delle donne è la vittoria di Rosa Oliva. Il 13 maggio del 1960, con la sentenza numero 33, la Corte Costituzionale diede ragione ad una ragazza di famiglia napoletana, Rosa Oliva, appena laureata in Scienze Politiche, che si era vista rifiutare l’ammissione al concorso per diventare prefetto, in quanto donna. Rosa volle ricorrere contro il ministero dell’Interno per quel rifiuto da cui si sentiva gravemente offesa. L’ avvocato che sostenne la sua battaglia era un illustre costituzionalista, Costantino Mortati, suo professore universitario.

La corte, che annoverava fra gli altri Aldo Sandulli, Gaetano Azzariti, Giuseppe Branca e Giovanni Cassandro ( tutti docenti sui cui testi ho acquisito la mia formazione per conseguire le mie 2 lauree), dichiarò l’ illegittimità della norma contenuta nell’ articolo 7 della Legge 17 luglio 1919, che impediva l’accesso delle donne alle principali carriere e uffici pubblici, in riferimento all’ articolo 51, primo comma, della Costituzione. Una sentenza storica per l’ Italia sul fronte della parità dei sessi.

Da quel momento in poi caddero le discriminazioni di genere e le donne diventarono prefetto, magistrato e molto altro ancora. Il Parlamento, direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo l’articolo 7 della legge 1176 del 1919 nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche, a seguito della proposta dell’agosto 1960 di un gruppo di deputate democristiane (guidate da Maria Cocco, che era anche presidente del Centro italiano femminile-CIF, e composto da Maria de Unterrichter Jervolino e dalla ex costituente Angela

Gotelli) chiese l’abrogazione della intera legge del 1919. La proposta venne approvata con la legge 9 febbraio 1963 n. 66 che ha sancito l’Ammissione della donna ai pubblici uffici ed alle libere professioni. Nel 1959 con la legge 1083 del 7 dicembre, venne istituito il Corpo della Polizia femminile. Il campo di intervento era molto specifico ed era circoscritto ai reati che riguardavano la tutela della moralità pubblica, della famiglia, delle donne e dei minori. Solo con la riforma del 1981 avremo l’unificazione del corpo delle guardie di P.S. e la Polizia femminile nella moderna Polizia di Stato così come la conosciamo.

Il 20 ottobre del 1999, con la legge 380/99, il nostro Paese, con una svolta storica per la Difesa, si è allineato ad altre Nazioni della NATO aprendo le porte delle Forze Armate e della Guardia di Finanza (in cui prestai il servizio militare come Ufficiale di complemento, per il quale occorreva una laurea giuridica/economica con la votazione di 1110/110) all’arruolamento femminile con iprimi militari donne reclutate, di fatto, l’anno successivo.

Con la riforma del diritto di famiglia del 1975 (molte sentenze emanate in materia da mio figlio nel primo decennio dalla nomina a magistrato) la condizione della donna è radicalmente mutata: è stata abolita la figura del capofamiglia (che rimane solo ai fini anagrafici) e la donna e l’uomo hanno pari diritti e doveri (L. 151/1975). Fino al 1975 l’ordinamento giuridico italiano si trovava in una strana situazione. Infatti nella Carta Costituzionale, fin dal 1948, sono stati inseriti gli articoli 29, 30 e 31 che riconoscono la piena parità di diritti e di doveri fra i coniugi, mentre sul piano della legislazione ordinaria erano ancora in vigore le norme del Codice Civile del 1942 ispirate ad un modello autoritario e gerarchico della famiglia della quale il marito era il “capo”.

Viene così riconosciuta la parità tra i coniugi, viene soppresso l’istituto della dote sostituto dal patrimonio della famiglia condiviso tra i coniugi, viene sancita la “legittimità” e l’uguaglianza dei figli nati in costanza di matrimonio o al di fuori di esso, ed anche il tradimento del marito (in vista di una parità tra i coniugi) diviene causa legittima di separazione.

Con la legge 194/1978 si è permesso alle donne di poter interrompere volontariamente la gravidanza in una struttura pubblica, quale garanzia e parità di diritti nei confronti di chi non dispone di adeguate condizioni economiche; il filo conduttore di questa norma è il diritto alla salute e il diritto all’autodeterminazione. L’aborto, può essere effettuato entro i primi 90 giorni se si tratta di scelta volontaria o entro 180 giorni dall’ultimo mestruo se si tratta di aborto terapeutico. La donna, secondo quanto sancito dall’art. 5 L.194/78, è l’unica titolare del diritto di interrompere la sua gravidanza, dopo essersi sottoposta alla visita medica, gode di un tempo di riflessione di sette giorni per valutare la necessità ed esigenza di procedere all’interruzione. Il legislatore nella parte finale della norma ha previsto una serie di articoli con i quali ha individuato varie ipotesi di reato collegate con la pratica abortiva ed in particolare gli artt. 17, 18 e 19.

Con il decreto legislativo 5 del 25 gennaio 2010 viene rafforzato il diritto delle lavoratrici a percepire, a parità di condizioni, la stessa retribuzione dei colleghi maschi. In caso di condanna per comportamenti discriminatori, l’inottemperanza del datore di lavoro al decreto del giudice è punita con l’ammenda fino a 50mila euro o con l’arresto fino a sei mesi. Il provvedimento dà attuazione alla direttiva 2006/54/Ce sul principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, modificando in più parti il Codice delle pari opportunità (Dlgs 198/06).

La L.120/2011 prevede l’obbligo da parte dei consigli di amministrazione delle società pubbliche di modificare i propri statuti per garantire l’equilibrio tra i generi. Un equilibrio che si considera raggiunto quando le donne sono almeno un terzo dei componenti eletti dell’organo amministrativo o di controllo: verificheremo adesso gli ulteriori sviluppi…..

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