Hiroshima e Nagasaki: l’incubo dell’atomica e la libertà di coscienza

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Nei giorni scorsi a Hiroshima, città giapponese che ha subito il bombardamento atomico da parte degli Stati Uniti nel 1945, si è svolta la consueta cerimonia di commemorazione in occasione del 78^ anniversario dello sgancio dell’ordigno nucleare.

Il mattino del 6 agosto 1945 alle 8.16, l’Aeronautica militare statunitense lanciò la bomba atomica ‘Little Boy’ sulla città giapponese di Hiroshima, seguita tre giorni dopo dal lancio dell’ordigno ‘Fat Man’ su Nagasaki. Il numero di vittime dirette è stimato da 100.000 a 200.000, quasi esclusivamente civili.

Per la gravità dei danni diretti ed indiretti causati dagli ordigni, e per il fatto che si è trattato del primo e unico utilizzo in guerra di tali armi, i due attacchi atomici sono considerati fra gli episodi bellici più significativi dell’intera storia dell’umanità.

Testimone oculare del bombardamento di Hiroshima fu il gesuita p. Pedro Arrupe, che allora si trovava in missione in Giappone presso la comunità cattolica della città e che portò aiuto ai sopravvissuti:

“Ero nella mia stanza con un altro prete alle ore 8.15, quando improvvisamente vedemmo una luce accecante, come un bagliore al magnesio. Non appena aprii la porta che si affacciava sulla città, sentimmo un’esplosione formidabile simile al colpo di vento di un uragano. Allo stesso tempo porte, finestre e muri precipitarono su di noi in pezzi.

Salimmo su una collina per avere una migliore vista. Da lì potemmo vedere una città in rovina: di fronte a noi c’era una Hiroshima decimata. Poiché ciò accadde mentre in tutte le cucine si stava preparando il primo pasto, le fiamme, a contatto con la corrente elettrica, entro due ore e mezza trasformarono la città intera in un’enorme vampa.

Non dimenticherò mai la mia prima vista di quello che fu l’effetto della bomba atomica: un gruppo di giovani donne, di diciotto o venti anni, che si aggrappavano l’un l’altra mentre si trascinavano lungo la strada. Continuammo a cercare un qualche modo per entrare nella città, ma fu impossibile.

Facemmo allora l’unica cosa che poteva essere fatta in presenza di una tale carneficina di massa: cademmo sulle nostre ginocchia e pregammo per avere una guida, poiché eravamo privi di ogni aiuto umano. L’esplosione ebbe luogo il 6 agosto.

Il giorno seguente, il 7 agosto, alle cinque di mattina, prima di cominciare a prenderci cura dei feriti e seppellire i morti, celebrai Messa nella casa. In questi momenti forti uno si sente più vicino a Dio, sente più profondamente il valore dell’aiuto di Dio.

In effetti ciò che ci circondava non incoraggiava la devozione per la celebrazione per la Messa. La cappella, metà distrutta, era stipata di feriti che stavano sdraiati sul pavimento molto vicini l’uno all’altro mentre, soffrendo terribilmente, si contorcevano per il dolore”.

Ed ha continuato il racconto: “Saliamo in cima alla collina per cercare un raggio di visione maggiore. E da lì, guardando la pianura a est, abbiamo visto il lotto bruciato di quella che era stata Hiroshima. Non lo era più. Stava bruciando, come una nuova Pompei.

Il cratere capovolto della bomba atomica aveva lanciato il primo bagliore di intenso fuoco bianco sulla città vittima. E a contatto con il suo terribile calore, tutti i combustibili bruciavano come fiammiferi in una fornace. E come se non bastasse, le case di legno crollate sotto l’onda dell’esplosione sono cadute sulle braci delle stufe domestiche che presto si sono trasformate in fiamme di falò”.

In Italia questa ricorrenza è stata ricordata, attraverso alcune manifestazioni,dalla ‘Rete Italiana Pace e Disarmo’: “Le bombe atomiche statunitensi lanciate sulle città giapponesi nell’agosto del 1945 hanno segnato un prima e un dopo nella Storia: la guerra non era mai stata così distruttiva e nessuno strumento militare era mai arrivato alla soglia della cancellazione dell’intera Umanità…

Nessun ordigno nucleare è poi stato utilizzato, ma il rischio esistenziale rimane enorme (come le minacce degli ultimi mesi ci hanno dimostrato): le testate nucleari non sono più oltre 75.000, ma anche le circa 12.500 che rimangono potrebbero eliminare la vita (umana e non solo) sulla Terra svariate volte…

Gli Hibakusha, le persone colpite e sopravvissute all’atomica, sono state le più resistenti e più determinate a lottare per eliminarla. I trattati e il diritto internazionale da soli non bastano, rimangono determinanti le persone, tutte, ciascuno di noi, per la riuscita della vita di tutti gli esseri viventi e dell’ambiente.

Perciò, anche quest’anno, 78 anni dopo i bombardamenti del 1945, facciamo memoria dei morti e rendiamo onore ai sopravvissuti, aggiungendo il nostro impegno al loro sforzo di eliminare tutte le armi nucleari dal pianeta. Per dire: mai più Hiroshima! Mai più Nagasaki!”

L’associazione ha ricordato l’esistenza di un trattato per la messa al bando delle armi nucleari, che l’Italia ancora non  ha firmato: “Uno strumento c’è: il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW) entrato in vigore nel 2021 ed ormai legge per 68 Stati e in un’altra trentina sono in corso le procedure di ratifica.

L’Italia rimane ancora fuori da questo consesso, ma avrà una nuova opportunità tra il 27 novembre e il 1 dicembre, quando si terrà all’ONU a New York la seconda conferenza degli Stati parti del TPNW. Solo pochi giorni fa, la Commissione Esteri della Camera ha approvato all’unanimità una Risoluzione sul disarmo nucleare in cui si impegna il Governo a valutare la possibilità di parteciparvi come Paese osservatore.

Come già annunciato ci mobiliteremo affinché l’Italia decida di partecipare alla Conferenza, e la Risoluzione unanime della Camera evidenzia come anche le forze politiche si aspettino questo passo. Lo faremo insieme ai Parlamentari che hanno espresso il loro sostegno al ‘Pledge’ lanciato dalla International Campaign to Abolish Nuclear Weapons”.

E proprio nella data di ieri la chiesa ha ricordato l’uccisione da parte dei nazisti del beato Franz Jägerstätter, avvenuto il 9 agosto  1943.come ha ricordato dalle pagine di Avvenire, il prefetto del dicastero delle cause dei santi, card. Marcello Semeraro: “Pian piano maturò in lui la consapevolezza che quell’immagine alludesse al nazionalsocialismo, che s’insinuava violentemente nelle articolazioni della vita sociale e personale.

Al contempo, anche sotto la spinta di alcune personali esperienze riguardo alle inenarrabili nefandezze compiute dai nazisti, maturava in lui la persuasione che non si potesse essere al contempo cattolico e nazionalsocialista.

Questo lo condusse pure alla decisione di rifiutare il servizio militare con le armi a favore di quel regime, che riteneva nemico di Dio e responsabile di una guerra ingiusta. In tale consapevolezza e conseguente decisione Franz rimase fermo, nonostante le raccomandazioni e i consigli alla cautela, che gli giungevano da più parti (anche dal vescovo e dal parroco) e pur sapendo che la renitenza alla leva era punita dal regime con la pena di morte”.

Prima di morire il beato Franz Jägerstätter scrisse alla moglie: “A cosa serve saper distinguere tra bene e male? … Se un nostro buon amico ci proponesse un lungo viaggio di piacere, naturalmente gratis e con trattamento di prima classe, cercheremmo di rimandarlo continuamente o addirittura lo terremmo in serbo per la vecchiaia? Non credo proprio.

E cos’è dunque la morte: non si tratta anche in questo caso di un lungo viaggio che dovremo fare, anche se da questo non ritorneremo? Ma può esservi un momento più gioioso di quello nel quale ci accorgeremo di essere felicemente approdati sulle rive del paradiso?”.

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