A Kabul torna il terrore

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I membri del Consiglio di sicurezza Onu hanno invitato “a intensificare gli sforzi per fornire assistenza umanitaria all’Afghanistan e a tutte le parti per consentire l’accesso immediato, sicuro e senza ostacoli alle agenzie umanitarie delle Nazioni Unite e ad altri attori umanitari che forniscono assistenza, anche attraverso le linee di conflitto, per garantire che l’assistenza raggiunge tutti i bisognosi”.

I membri del Consiglio di sicurezza hanno riaffermato “l’importanza della lotta al terrorismo in Afghanistan per garantire che il territorio dell’Afghanistan non venga utilizzato per minacciare o attaccare alcun Paese e che né i talebani né alcun altro gruppo o individuo afghano sostengano i terroristi che operano sul territorio di qualsiasi altro Paese”.

E da ferragosto sventola la bandiera dell’Emirato islamico dell’Afghanistan sul palazzo presidenziale, capitolato dopo la fuga del presidente Ghani. Dopo 20 anni l’Afghanistan si sente tradito dai Paesi occidentali, che si sono ritirati senza resistenza, come ha affermato il mullah Abdul Ghani Baradar: “Il modo in cui siamo arrivati era inatteso e abbiamo raggiunto questa posizione che non ci aspettavamo”.

Intanto i costi di questa insensata guerra è costata molti miliardi e molte morte, senza costruire le basi della democrazia, come ha detto papa Francesco dopo la recita dell’Angelus di domenica 15 agosto: “Mi unisco all’unanime preoccupazione per la situazione in Afghanistan. Vi chiedo di pregare con me il Dio della pace affinché cessi il frastuono delle armi e le soluzioni possano essere trovate al tavolo del dialogo. Solo così la martoriata popolazione di quel Paese (uomini, donne, anziani e bambini) potrà ritornare alle proprie case, vivere in pace e sicurezza nel pieno rispetto reciproco”.

Però in Afghanistan esiste una piccola comunità cristiana, che negli ultimi anni ha testimoniato l’attenzione nei riguardi dei più poveri e fragili, aiutata sin dagli anni ’90 dalla Caritas Italiana, che ha sempre sostenuto  un ampio programma di aiuto di urgenza, riabilitazione e sviluppo, la costruzione di quattro scuole nella valle del Ghor, il ritorno di 483 famiglie di rifugiati nella valle del Panshir con la costruzione di 100 alloggi tradizionali per le famiglie più povere e assistenza alle persone disabili.

In queste ore una massa crescente di profughi sta fuggendo dalle zone di guerra, aumentando la pressione in direzione dei paesi circostanti. In Pakistan la Caritas ha avviato una valutazione della situazione nella regione di Quetta, ai confini con l’Afghanistan in vista di un grande afflusso di profughi.

Quindi è possibile sostenere gli interventi di Caritas Italiana, utilizzando il conto corrente postale n. 347013, o donazione on-line tramite il sito  www.caritas.it, o bonifico bancario (causale ‘Emergenza Afghanistan’) tramite: Banca Popolare Etica, via Parigi 17, Roma –Iban: IT24 C050 1803 2000 0001 3331 111; Banca Intesa Sanpaolo, Fil. Accentrata Ter S, Roma – Iban: IT66 W030 6909 6061 0000 0012 474; Banco Posta, viale Europa 175, Roma – Iban: IT91 P076 0103 2000 0000 0347 013; UniCredit, via Taranto 49, Roma – Iban: IT 88 U 02008 05206 000011063119.

Anche il presidente della Comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, la moderatrice della Tavola Valdese, Alessandra Trotta, e il presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, Luca M. Negro,  hanno chiesto l’apertura di un corridoio umanitario per salvare migliaia di uomini e soprattutto donne dalla vendetta e dalla violenza dei talebani che hanno riconquistato l’Afghanistan:

“L’Europa deve agire per garantire la protezione di quanti fuggono dall’Afghanistan riconquistato dai talebani. In queste ore migliaia di uomini, donne e bambini rischiano la vita semplicemente per avere creduto nei valori della democrazia, della libertà di esprimersi e di studiare. Chiediamo un impegno anche all’Italia, che per prima ha sperimentato con successo i ‘corridoi umanitari’, perché adotti questo strumento per facilitare l’evacuazione di profughi afghani” .

I tre presidenti hanno chiesto aiuti concreti per gli afgani: “Si possono poi aiutare quegli afghani che, già in Europa, vivono in condizioni di precarietà. Chiediamo a tutti i governi europei di sospendere le pratiche di espulsione già decretate per centinaia di afghani richiedenti asilo e diniegati, e inoltre di riesaminare le domande rigettate vista la drammaticità della situazione sul terreno. Ribadiamo che la forza morale e politica dell’Europa si costruisce anche garantendo diritti e protezione umanitaria a chi è perseguitato ed ha già sofferto il dramma della guerra”.

Anche il Centro Astalli ha chiesto la protezione dei civili, come ha spiegato il presidente Camillo Ripamonti: “Rivolgiamo un appello alla comunità internazionale, a istituzioni europee e nazionali: si abbia come priorità la sicurezza e la protezione dei civili.

Si predispongano modalità agili e sicure di accesso in Europa per chi sta cercando di lasciare l’Afghanistan. Lo dobbiamo a un popolo che da decenni vive nel terrore e in guerra, in un Paese in cui siamo stati direttamente coinvolti e per cui abbiamo evidenti responsabilità”.

Inoltre MOAS sostiene con fermezza che è importante garantire la sicurezza di tutte le persone che desiderano lasciare l’Afghanistan, ormai non più un luogo sicuro, attraverso il ricorso e l’implementazione di #VieSicureELegali che consentano ai civili in fuga di raggiungere la loro destinazione senza mettere a rischio la propria vita.

Il panico e la disperazione dipingono i volti degli afgani in queste ore drammatiche, che fuggono dal Paese, attraversando montagne e deserti, passare valichi e confini, forse imbarcarsi su carrette del mare col rischio di annegare, andando ad arricchire i ‘trafficanti’ di esseri umani, come ha affermato Regina Catrambone, co-fondatrice e direttrice di MOAS:

“Mi unisco all’appello firmato da 60 Paesi, affinchè i cittadini afgani siano aiutati a lasciare il Paese in sicurezza e vengano accolti in modo legale. Bisogna proteggere le vite di tanti bambini, delle donne e di quelle persone vulnerabili che rischiano pesanti ripercussioni per aver collaborato con le missioni dei Paesi occidentali”.

Intanto domenica scorsa le diocesi italiane hanno pregato per la pace, come ha ricordato l’arcivescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia: “Una parte di queste persone è attesa in Italia e un gruppo è già stato temporaneamente accolto in Piemonte. Occorre, adesso, provare a dare stabilità e qualità all’accoglienza.

 Oso rivolgere ancora questo appello proprio perché so di poter contare sulla risposta pronta e generosa di comunità e famiglie. Per noi credenti non si tratta solamente di collaborare a una ‘azione umanitaria’, ma di mettere in pratica quel richiamo all’accoglienza e al servizio del prossimo che ci vengono direttamente dall’adesione al Vangelo di Gesù Cristo”.

Infine, per capire che siamo ritornati anni indietro e l’inutilità di questa guerra, definita dall’Occidente falsamente ‘umanitaria’, si riportano alcuni pensieri del settembre 2011 da don Tonio Dell’Olio, ora presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi, che con una delegazione della Tavola della Pace era stato in Afghanistan:

“Gli aquiloni ci sono davvero e sono tanti. Li fanno volare i bambini dai cortili, dalle strade, dai tetti delle case. Siamo una delegazione di otto persone. Tra noi c’è Paul, portavoce del coordinamento dei familiari delle vittime dell’11 settembre. Sin dall’inizio hanno fatto sapere di non credere nella guerra come risposta alla tragedia di dieci anni fa. E di questa guerra sono stanchi tutti. Tutti tranne quelli che ne ricavano profitti.

Abbiamo cominciato a parlare con i rappresentanti di associazioni di cooperazione umanitaria, dei diritti umani, delle donne… la sensazione comune è che dopo dieci anni, di questa guerra si sia perso il bandolo. Nessuno più la vuole, ma nessuno ha il coraggio di dire basta. Se non la gente”.

Ed accusava i Paesi occidentali di aver garantito i ‘poteri forti’: “E’ stato dato appoggio e spazio ai ‘signori della guerra’, alla corruzione dilagante che erode risorse e speranze. All’oppio che ora scorre anche nelle vene dei giovani afgani e corre con i narcoafgani ben oltre i confini nazionali. Alle rancorose e ataviche divisioni tribali.

In nome della sicurezza da garantire a se stessi, chi doveva incontrare, ascoltare e aiutare la gente, è rintanata in bunker che non riesco nemmeno a descrivere. Ma Dio, che da queste parti invocano con un nome diverso dal mio, non è sterile. Ha messo nel cuore di qualche donna e uomo di questa terra la sana inquietudine che non si piega alla rassegnazione.

Sono donne e uomini che non hanno mai smesso di contribuire a piccoli passi alla promozione delle donne, a denunciare la corruzione, a promuovere i diritti umani, a informare senza padroni. Una luce diversa da quella delle esplosioni e dei bombardamenti. L’altra faccia di una terra che sarebbe bella”.

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