Padre Scalella: Gesù non ci lascia soli

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“Il più grande pericolo che possa temere l’umanità, oggi, non è una catastrofe esterna, una catastrofe cosmica, non è né la fame né la peste; al contrario è questa malattia spirituale –la più terribile perché la più direttamente umana fra tutte le calamità– che è la perdita del gusto di vivere”: questo pensiero di Theilard de Chardin apre un piccolo libriccino dell’agostiniano p. Giuseppe Scalella, ‘Colpiti, ma non uccisi’, scritto a forma di diario durante i giorni della pandemia, nato dalle riflessioni con i suoi amici di facebook e della parrocchia di santa Rita di Milano (disponibile in pdf, chiedendolo all’autore).

Nella prefazione il sacerdote spiega il motivo di questi pensieri, sviluppati nel tempo quaresimale: “Com’è facile, pensavo, cadere nel ricatto del ‘nulla’, quel nulla che avanza sempre di più e spazza via ogni cosa, soprattutto la speranza. E si cade nella disperazione, cioè in quel terribile sentimento che ti porta a credere che non c’è niente che vale, niente per cui vale la pena spendersi.

Sembrava proprio che Dio stesso fosse scomparso, si fosse dato latitante e ci avesse lasciati soli a noi stessi. Poi, improvvisamente, affiora una domanda: e tutto quello che ho visto in questi anni? la mia fede che è cresciuta proprio guardando Lui all’opera? che fine ha fatto? non vale più? E mi sono accorto di essere nella stessa situazione degli undici quando Gesù è asceso al cielo. Se ne va non per lasciarli soli ma per renderli ancora più forti, più coscienti di Lui e quindi di se stessi”.

Questa pandemia ha costretto a misurarsi con la realtà ed a cambiare prospettiva di vedute anche in rapporto con la fede: “Pensavamo che aver fede significasse solo andare in chiesa, accendere la candela e dire qualche preghiera. Ci siamo accorti, invece, che vuol dire innanzitutto stare dentro la realtà, quella di ogni giorno, e vedere che cambiamento ci chiede.

E allora si cominciano a capire tante cose. Una fra tutte: la compagnia della Chiesa e del papa. Non è un caso se la pandemia e la successiva quarantena sono capitate proprio in un tempo come quello della Quaresima e della Pasqua. La Chiesa si è mostrata davvero madre e, con la liturgia, ci ha preso per mano e ci ha fatto vivere il passaggio morte-resurrezione. Sì, perchè la vita è morte e resurrezione”.

In questo opuscolo l’autore ha sottolineato l’amore di Dio per l’uomo nonostante i tradimenti: “Il mistero della morte di Gesù è tutto in quelle poche parole, che poi è una sola: amore. Perchè un Dio ci ha tanto amati fino a morire per noi? Perchè sapeva più di noi che la vita è una condanna a morte.

Questi giorni di quarantena ci sbattono in faccia, più di prima, questa tremenda verità. Ora, il suo desiderio più grande era, ed è, proprio quello di toglierci di dosso quella condanna. Solo lui poteva farlo, solo lui poteva sfidare il potere della morte, e lo ha fatto entrandoci dentro lui, prendendola su di sé. Non c’è riscatto più grande di questo, anche in questi tremendi giorni di sofferenza, e soprattutto nei giorni che verranno e che si profilano già drammatici e incerti”.

Questo periodo trascorso ha messo in evidenza la realtà della Chiesa, che non è rito, ma compagnia: “Certo, a me manca sempre perchè anche quello che Lui ci fa vivere non basta mai. La Chiesa, però, dice che l’Eucarestia è ‘fonte e culmine’ della vita cristiana.

Quindi tra la fonte e il culmine c’è tutta la vita della Chiesa che non è di meno rispetto alla fonte e al culmine, cioè al sacramento. Gesù è anche in quella vita lì, posso incontrarlo e mettermi in rapporto con lui attraverso quella vita, posso nutrirmi di quella vita, perché è come nutrirmi di lui.

Allora, può mancarmi l’Eucarestia, ma non mi manca Gesù perché so dove trovarlo. E in questa circostanza è ancora più urgente perché il bisogno più grande che abbiamo è di un Dio che sia umanamente presente. Come un bambino che ha bisogno non della madre ma della sua presenza.

Se Dio si è fatto uomo è perché aveva capito che gli uomini da soli non sarebbero riusciti mai a vincere la paura del male, di qualsiasi male. Per questo si è fatto umanamente presente. E se duemila anni fa era l’uomo Gesù di Nazareth, oggi, e sempre, è la vita della Chiesa, la cui sorgente e culmine è l’Eucarestia.

Se ci lamentiamo perché il virus ci ha tolto l’Eucarestia è perché non guardiamo più la vita in cui Lui continua ad essere presente e a vincere il male e la paura; e non la guardiamo più perché abbiamo ridotto la fede a un rito, addirittura a un rito che bisogna compiere perché abbiamo paura del giudizio di Dio. Ma non erano i pagani che avevano paura degli dèi e dei riti?”

Perciò al termine dell’opuscolo, corredato da alcune novelle, padre Scalella evidenzia il gesto di papa Francesco compiuto in quel venerdì 27 marzo, in cui si evidenzia la necessità di sentirci figli di Dio, che è Padre: “Non eravamo abituati a prove di questo genere e ci sembrava di vivere in una sorta di isola beata, sicuri ormai che il benessere e il progresso ci avrebbero protetto per sempre.

Invece non è andata così. All’improvviso ci siamo sentiti fragili, indifesi, inermi, impauriti da un nemico invisibile e incontrollabile. Ci sembrava di essere diventati onnipotenti, e invece ci siamo ritrovati uomini.

Ed è stato davvero sorprendente vivere tutto questo in un tempo particolare della Chiesa: quello della Quaresima e della Pasqua. E, con i passi della liturgia, la Chiesa, come sempre, ci si è mostrata madre, accompagnandoci pazientemente e amorevolmente, perchè, più che dal virus, non fossimo vinti dalla paura…

Non possiamo negare che questo è ‘il tempo del nostro giudizio’ come ci ha ricordato papa Francesco in quella memorabile serata del 27 marzo in una piazza san Pietro vuota. Non del giudizio di Dio ma del ‘nostro’ giudizio, il tempo, cioè, ‘di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è’. E’ il tempo della nostra conversione”.

(Foto: Vatican Media)

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