Ha ragione Papa Francesco. Dentro la Chiesa, tra conservatori e progressisti rischiamo di perdere tutti.
A sessant’anni dal Concilio Vaticano II cosa rimane di uno snodo spartiacque tra una Chiesa che guarda al passato per salvaguardare la propria identità e una che la estremizza al futuro, per renderla attuale con i tempi che mutano?
Come sempre, come ormai siamo abituati ad apprezzare o criticare, entra a gamba tesa Papa Francesco.
Lo fa condannando proprio durante l’omelia per la celebrazioni liturgica del sessantesimo anniversario del Concilio, chi dall’interno della Chiesa vuole polarizzarla a destra o a sinistra.
Lo fa condannando chi cerca in tutti i modi di etichettarla e forzala dentro la più classica delle dicotomie tanto cara agli addetti ai lavori: quella tra la corrente dei conservatori e quella dei progressisti.
Una dicotomia nella quale a essere onesti, in molti hanno coinvolto anche il Sommo Pontefice o il Papa Emerito Benedetto XVI, eleggendoli a paladini contrapposti dei due schieramenti.
Due novelli Guelfi e Ghibellini, pronti a brandire il primato dell’una o dell’altra corrente.
Ma queste divisioni all’interno della “Sposa di Cristo” a chi giovano? Francesco non usa mezzi termini: sono “atti di infedeltà”.
A dire il vero, non è polarizzando a tutti i costi gli atteggiamenti o le convinzioni in materia fideistica che saremo credibili sia dentro che fuori le Istituzioni religiose.
Il successore di Pietro esorta a “superare le nostalgie del passato, il rimpianto della rilevanza, l’attaccamento al potere” per mettere al centro l’essenziale.
“Sempre c’è la tentazione di partire dall’io piuttosto che da Dio – continua il Vescovo di Roma – di mettere le nostre agende prima del Vangelo, di lasciarci trasportare dal vento della mondanità per inseguire le mode del tempo o di rigettare il tempo che la Provvidenza ci dona per volgerci indietro”.
È questo che forse ancora oggi è la più grande sfida della Chiesa.
A dispetto dei sessant’anni di vita di un Concilio Vaticano II nato per rivoluzionare il suo approccio nel mondo, la stessa deve interrogarsi su come tornare a parlare a tutti, non solo a chi appartiene all’una piuttosto che l’altra corrente di pensiero.
Un modo di agire che si scrosti da posizioni estreme, o bianche o nere, per cogliere le molteplici sfaccettature che stanno nel mezzo.
È proprio lì che si gioca la partita più difficile, ma che al contempo riserva le gratificazione più significative.
Cedendo parte delle proprie convinzioni e dei propri pregiudizi per fare squadra, per tornare all’essenza del Vangelo.
Solo così la Chiesa potrà finalmente liberarsi da certe sovrastrutture che ne minano la credibilità dall’interno.
E ad un anno dalla chiusura del Sinodo del prossimo autunno – già cominciato a onor del vero nelle diocesi di tutto il mondo cristiano – qualche interrogativo è obbligatorio.
Il messaggio di Papa Francesco è chiaro: agli egoismi anteponiamo la comunità. Alle ideologie e agli steccati politici preferiamo il rapporto tra Dio e l’uomo.
All’ipocrisia celata dalla rigida ortodossia o dalla frenesia del cambiamento, preferiamo l’attualità del messaggio cristiano, che oggi come duemila anni fa è sempre lo stesso.