Mons. Pizzaballa ha chiesto di superare la mentalità identitaria

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“Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito”.

Con questo passo della lettera di san Paolo agli Efesini il patriarca di Gerusalemme, mons. Pierbattista Pizzaballa, ha concluso l’omelia della festività della Madre di Dio: “Credo sia questa la via. Partire dalla nostra relazione con Cristo e non dalle nostre necessità, porre il nostro cuore nel cuore di Cristo, leggere la nostra realtà anche ecclesiale alla luce della Parola di Dio.

Non si vive senza amore e l’amore dal quale partire è l’amore di Colui che ha dato la vita per noi e per la nostra salvezza. Sarà questo il percorso che ci attende. La Vergine Santissima, Madre di Dio e Madre nostra, ci accompagni in questo nostro cammino e ci custodisca nella Sua pace”.

Iniziando l’omelia mons. Pizzaballa si è augurato che questo momento pandemico passi: “Mi auguro che il nuovo anno che comincia oggi sia sempre meno segnato da questa tragedia, che ha paralizzato la vita della nostra comunità così a lungo. Davvero è stato difficile, nell’anno passato, riuscire ad avere un minimo di cammino ordinario per la diocesi.

Un anno segnato dalla pandemia, come dicevamo, ma anche da tanti altri problemi sia a livello diocesano che sociale e politico. Ma sono certo, e me lo auguro, che presto torneremo alla normalità della nostra vita ecclesiale, con celebrazioni vive e in presenza, e non solamente via internet”.

L’omelia del patriarca di Gerusalemme si è incentrata sulla giornata della pace: “Oggi è anche la giornata mondiale di preghiera per la pace. E proprio alla pace vogliamo dedicare il nostro primo pensiero per questo nuovo anno. So bene che è un tema caro a tutti noi, ma anche lontano dalla nostra esperienza di vita. Difficile parlare di pace, quando attorno a noi facciamo esperienza dell’esatto contrario”.

Ha riflettuto sul significato della pace ‘ecclesiale’: “Abbiamo speso molte parole per contestare il muro di divisione che tanta sofferenza ha causato e continua a causare per tanti nostri fedeli. Ed è giusto che la Chiesa sia chiara al riguardo.

Ma penso che ci si possa fermare a riflettere anche sulle barriere che a volte inconsapevolmente erigiamo al nostro interno, tra noi. Per avere una serena e sempre più feconda vita ecclesiale, infatti, è anche necessario guardare alla nostra realtà e chiederci dove il Signore ci invita a crescere e migliorare”.

Ed ha elencato alcune ‘barriere’, la prima delle quali è la contrapposizione tra clero e laico: “Ad ogni cambio di sacerdote, la vita della comunità spesso deve ricominciare da capo e prendere il modello e la misura del sacerdote di turno, quasi sempre assai diversa dal predecessore. Difficile convincere ad avere i consigli parrocchiali e saper condividere idee e iniziative.

E’ vero che la cultura locale non aiuta ad avere un approccio condiviso alla vita ecclesiale. Ma è vero fino ad un certo punto. Ci sono parrocchie nelle quali i consigli parrocchiali funzionano egregiamente. Locali anch’essi. D’altro canto è anche vero che è difficile trovare laici formati, impegnati, desiderosi di portare un contributo positivo alla comunità”.

Poi ha approfondito il divario ‘generazionale’: “Da un lato abbiamo chi guarda con nostalgia al passato e rimpiange un modello di Chiesa e di comunità che oggi sembra non esserci più. Si rimpiangono i numeri di una volta, la partecipazione di una volta: quello che c’era una volta, insomma. Dimenticando però di vivere con serenità cristiana il presente.

Dall’altro lato le giovani generazioni non si sentono di vivere di nostalgia e desiderano cambiare anche quello che forse non ha bisogno di essere cambiato. Si vuole aria fresca, nuovo spirito, guardare avanti… vi è spesso il desiderio di cambiare per cambiare, senza avere coscienza chiara delle radici, del significato di gesti e celebrazioni. Insomma, o si guarda al passato nostalgicamente o si è proiettati solo verso il futuro.”

Un altro divario è costituito dalla contrapposizione tra ‘locali’ e ‘stranieri’: “La Chiesa di Gerusalemme ha sempre avuto e sempre avrà queste due dimensioni, quella locale e quella universale. La Chiesa di Gerusalemme è nata a Pentecoste, quando tutte le nazioni erano già presenti e tutte hanno ricevuto lo Spirito.

E’ la bellezza della nostra Chiesa, che raccoglie in sé diverse lingue, molti carismi religiosi, pellegrini da tutto il mondo, aperta a tante prospettive diverse, immersa in tante attività diverse. Tutti, a prescindere dalla loro provenienza, sono parte della Chiesa e hanno uguale diritto di cittadinanza.

Non ci sono stranieri nella nostra Chiesa, ma tutti e solo figli della stessa Chiesa Madre… Le due anime della Chiesa devono sostenersi l’un l’altra, entrambe necessarie, entrambe costitutive dell’identità e della storia della nostra Chiesa. Fanno parte del passato e lo saranno anche del futuro”.

Questa contrapposizione ha portato il patriarca di Gerusalemme a ragionare sulle identità nazionali: “La nostra è una diocesi che copre quattro paesi, con quattro storie che si intersecano tra loro, mai facilmente, ma che allo stesso tempo sono sempre più indipendenti le une dalle altre. Le identità nazionali, inoltre, sono spesso costruite contro, o in antitesi a.

Difficile parlare di coesistenza di identità diverse in un contesto di conflitto come quello che si sta vivendo, in particolare tra Israele e Palestina e a Cipro. Questo fenomeno influisce anche nella vita della Chiesa… Tutte le diverse identità concorrono a costruire una Chiesa con una sua identità specifica, e cioè plurale, multiforme, aperta, e non monocolore né assorbita dai conflitti identitari”.

L’identità nazionale pone una riflessione sulla lingua: “Le lingue sono il veicolo principale delle rispettive culture e identità. Una ricchezza incredibile, ma anche un ostacolo non minore per l’incontro e la condivisione. Difficile sapere in quale lingua parlare nei nostri incontri. Seppure non voluta, la lingua è oggettivamente una barriera all’incontro e alla condivisione. Ne facciamo tutti esperienza personale”.

Queste difficoltà possono essere superate se si cambia la ‘mentalità’ del pensiero, secondo l’insegnamento dell’evangelista Luca: “Come Chiesa, siamo invece chiamati a interrogarci su come essere un dono l’uno per l’altro; anziché chiederci cosa l’altro deve fare per me, chiediamoci come essere prossimo l’uno per l’altro”.

(Foto: Patriarcato di Gerusalemme)

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