Daniele Mencarelli: tutto chiede salvezza

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“Daniele Mencarelli ha cominciato come poeta, quando nel 2018 ha scritto il suo primo romanzo, ‘La casa degli sguardi’, ha portato nella narrativa la densità e la plasticità della parola poetica. Una parola che diventa discorso umano, sorretto dalle vibrazioni di una scrittura potente e creaturale. Con ‘Tutto chiede salvezza’ Mencarelli conferma di essere uno scrittore unico e maturo. Partendo da un’esperienza personale scandaglia il buio della malattia mentale alla conquista di un’umanità profonda e autentica, la sua e quella dei suoi compagni. La cura profonda non può che essere affidata alla parola, unico e salvifico ‘pharmakon’”: così Maria Pia Ammirati ha presentato il libro finalista al Premio Strega di questo anno, già vincitore del Premio Strega – giovani.

Il racconto si intreccia con l’autobiografia: l’autore, che ha conosciuto una giovinezza irrequieta e fatta di eccessi, parla di sé e di una fase della sua vita. Nel romanzo narra gli incontri, i pensieri, le vicende di una settimana di Tso (Trattamento sanitario obbligatorio) ambientata negli anni ’90, quando vi fu costretto, dopo alcune intemperanze in casa.

Quello che emerge è il dramma della sofferenza umana, però sorretta dalla parola, come scrive nel libro: “Una parola per dire quello che voglio veramente, questa cosa che mi porto dalla nascita, prima della nascita, che mi segue come un’ombra, stesa sempre al mio fianco. Salvezza. Questa parola non la dico a nessuno oltre me. Ma la parola eccola, e con lei il suo significato più grande della morte. Salvezza. Per me. Per mia madre all’altro capo del telefono. Per tutti i figli e tutte le madri. E i padri. E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri. La mia malattia si chiama salvezza, ma come? A chi dirlo?”

A Daniele Mencarelli, che si occupa anche di fiction a Rai Uno, chiediamo di spiegarci perché tutto chiede salvezza: “Perché non posso vivere accettando il nulla, perché me lo urla da sempre tutto quello che amo. Salvare ciò che si ama, scontiamo questa impotenza in vita, ma a questa impotenza mi ribello, cercando in tutta la realtà, nel prossimo, ciò che mi avvicini a una salvezza possibile. Che mi avvicini al Salvatore. A chi ha generato tutto. La fede è un gesto di profonda disubbidienza, al nulla che preme da dentro e che  vorrebbe continuamente essere affermato”.

Cosa è salvezza?

“Salvezza dai mali del mondo, in primis, ma poi, dal mondo stesso, oltre il mondo. Salvezza a cui affidare i miei amori. Mantenendo vivo uno dei cardini del cristianesimo che troppo spesso si dimentica. Noi saremo noi, per sempre. Non un eden anonimo, ma un luogo in cui ritrovarsi, senza tempo né spazio, con i nostri volti, i nostri corpi. Un sempre infantile. Così lo spero”.

Allora in cosa consiste il desiderio di salvezza?

“Il mio desiderio di salvezza viaggia in due direzioni. Orizzontale, nel senso che cerca una possibilità di salvezza rispetto a tutto ciò che di ingiusto accade nel mondo, spesso causato da uomini nei confronti di altri uomini. Verticale, che punta all’altrove. Una salvezza oltre il mondo, oltre questo tempo e questo spazio. Per quanto ci provi non riesco a consegnare al nulla ciò che amo. Da questa ribellione a ciò che pare evidente nasce il mio grido di salvezza. La speranza che possa esistere un Salvatore”.

Quanto è importante lo sguardo nel romanzo?

“Io vivo per guardare. Per stare a guardia. Vivo uno stato di perenne allerta nei confronti della realtà, come una sentinella che veglia. In fondo è normale, se si intende la realtà per quel che dicevo nella prima domanda: la grande, meravigliosa arena dove cercare senza sosta chi possa salvare”.

Cosa significa ‘prendersi cura’?

“La cura è riconoscere nell’altro la nostra medesima natura. Curo chi ho di fronte perché alimento quello che nel profondo anima me stesso. Nel curare l’altro medico anche la mia ferita. Ma la prima, imprescindibile, cura è ritrovarsi attorno a una natura in cui riconoscersi. Una natura che chiede salvezza, che vuole in tutto affermare il significato di tutto”.

Quanto è ancora lungo il cammino per aiutare chi è in difficoltà?

“Io ringrazio Dio di essere nato nella seconda metà del novecento, quando i manicomi, grazie alla legge Basaglia, erano già chiusi. Fossi nato nel secolo precedente sarei finito in manicomio, bastava veramente poco, il famoso reato di pubblico scandalo, per finirci. I manicomi erano peggio delle carceri, perché alla base non c’era una pena da scontare, un tempo preciso di reclusione. Alcuni entravano per non uscire mai più. Oggi, la sfida vera è concepire la cura come gesto di relazione complessiva, dove alla base di tutto c’è l’empatia, anche se io preferisco un’altra parola. Compassione”.

Quale ruolo ha la poesia in questo tempo post pandemia?

“Il ruolo della poesia, nella post pandemia come in qualsiasi altro momento da tanti decenni a questa parte, è purtroppo marginalizzato, mentre la valenza di questa parola, sorella della preghiera, dovrebbe avere ben altra centralità. Le guerre dell’umano non possono essere tradotte in prosa, ma solo in poesia. E l’uomo, anche quando non sa di esserlo, anche quando fa finta di non accorgersene, vive in un territorio di guerra perenne. Tutto è in bilico, lo è la nostra condizione. Con o senza pandemia”.

(Foto: Daniele Mencarelli)

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