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Il Consiglio Generale Internazionale della Società di San Vincenzo De Paoli premia un secolo di impegno a servizio degli ultimi
Nella suggestiva cornice di Palazzo del Vicariato Maffei Marescotti, sede della Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV, si è svolta la cerimonia di consegna della medaglia ‘Charity in Hope’. Questo prestigioso riconoscimento, istituito nel 2017 dal Consiglio Generale Internazionale della Società di San Vincenzo De Paoli, celebra l’’impegno di persone e organizzazioni che si distinguono per il loro servizio verso i più deboli.
Protagonista di questa edizione è stato il Lions Clubs International, rappresentato dal Presidente internazionale, il brasiliano Fabrício Oliveira, che ha ricevuto la medaglia dalle mani del Presidente Generale della Società di San Vincenzo De Paoli, lo spagnolo Juan Manuel Buergo Gomez.
“Sento una grande emozione in questo momento, consapevole di come la giornata di oggi sia una pietra miliare non solo per i Lions e la Società di San Vincenzo De Paoli, ma anche per tutti coloro che credono nella solidarietà e nella speranza come via di progresso”, ha affermato la Presidente della Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV, Paola Da Ros.
“Ciò che viviamo oggi è un’opportunità straordinaria per rafforzare la nostra relazione, consolidare i nostri progetti e sognare insieme un futuro migliore per le popolazioni di tutto il mondo” ha dichiarato la Presidente Paola Da Ros. “La speranza è una parola che accompagna e sostiene il nostro operato, insieme all’amore per il servizio. È impressa nel nostro motto ‘serviens in spe’, proprio come il ‘We Serve’ dei Lions e racchiude quel senso di responsabilità che guida i volontari della Società di San Vincenzo De Paoli così come i soci dei Lions nel cammino di cura e aiuto verso le persone svantaggiate.
“Mi vengono in mente, ha aggiunto la Da Ros, le parole del Beato Federico Ozanam: “La nostra epoca ha bisogno di grandi cose: ha bisogno di una speranza che non deluda, di una carità che abbracci tutti” (Lettera a Léonce Curnier, 1834).
La cerimonia è stata anche l’occasione per riflettere su un percorso condiviso, sancito ufficialmente il 5 gennaio 2023 con una Dichiarazione di Intenti tra la Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV e il Multidistretto Lions 108 Italy. Grazie a questo accordo, le due realtà hanno unito le forze per realizzare progetti concreti a favore delle persone più fragili in tutta Italia: “fare rete è indispensabile per generare un impatto reale e profondo, per portare il nostro messaggio e le nostre azioni a un pubblico più vasto, a un numero crescente di persone e comunità”, ha spiegato la presidente Paola Da Ros.
Nel segno della solidarietà, del servizio e della speranza la Società di San Vincenzo De Paoli e i Lions Club operano rispettivamente da 191 e 107 anni per il bene comune. Oggi, grazie a una sinergia di intenti volta al bene comune, possono crescere e svilupparsi numerose “azioni coraggiose nei confronti dei più deboli per sconfiggere la povertà e il disagio”, ha sottolineato il Presidente Internazionale del Lions, Fabrício Oliveira.
Nell’ottica di un mondo e futuro migliore, “Abbiamo ampliato le opportunità di agire per il bene delle persone in difficoltà, ha ricordato il Presidente del Consiglio dei Governatori del Multidistretto 108 Italy Leonardo Potenza.
Attraverso “la collaborazione e lo sviluppo di esperienze comuni”, ha spiegato il Consigliere di Amministrazione della Fondazione Internazionale Lions LCIF, Sandro Castellana, “abbiamo già prodotto benefici in diverse aree geografiche di tutto il mondo”.
Si propaga così il bene senza spegnere la vocazione che da sempre accompagna le due realtà e i suoi membri: il contrasto alla povertà e all’emarginazione. Il Governatore del Distretto Lions 108L, Salvatore Iannì, ha ricordato che sin da piccolo ha imparato ad amare l’altro nelle sue innumerevoli necessità anche portando “pacchi di viveri e altri aiuti” accompagnando il padre, che era iscritto alla Società di San Vincenzo De Paoli e gli ha sempre trasmesso i valori dell’aiuto, della vicinanza e dell’amicizia.
Il Presidente del Consiglio Generale Internazionale della Società di San Vincenzo De Paoli, Juan Manuel Buergo Gomez, ha concluso la cerimonia evidenziando chela scelta di premiare il Lions Clubs International è frutto “dell’impegno, della dedizione e della passione che la realtà ha dimostrato in tutta la sua storia. I Lions Club sono stati un esempio di perseveranza e impegno nella società con 1.400.000 soci e quasi 50.000 club presenti in 200 paesi al servizio dei bisognosi”.
La Società di San Vincenzo De Paoli, con i suoi 2.300.000 volontari distribuiti in 155 Paesi, e i Lions Club dimostrano che unendo le forze è possibile rispondere alle necessità di milioni di persone in tutto il mondo. Un impegno che non si ferma, ma continua a crescere, come ricorda la Presidente Paola Da Ros, che vede nella Medaglia Charity in Hope: “l’emblema di una speranza che non si ferma mai, di un servizio che ogni giorno si rinnova e di un’umanità che non smette di sognare e di costruire”.
Papa Francesco: i martiri sono i testimoni della bellezza di Dio
Sono state tante le storie di martiri emerse nel convegno organizzato dal Dicastero delle Cause dei Santi sul tema ‘Non c’è amore più grande. Martirio e offerta della vita’, che, iniziato lunedì 11 novembre, all’Istituto Patristico Augustinianum a Roma, si è concluso oggi con l’udienza da papa Francesco. Le conclusioni, ieri pomeriggio, del prefetto del dicastero, il card. Marcello Semeraro, hanno evidenziato che ‘i martiri non sono stati e non sono degli eroi insensibili alla paura, all’angoscia, al panico, al terrore, al dolore fisico e psichico’. Infine il cardinale ha sottolineato che dalle relazioni è emerso che “il numero dei martiri cristiani non corrisponde affatto a quelli beatificati o canonizzati, ma c’è, al contrario, un intero, grande popolo di martiri”.
Nell’udienza papa Francesco ha evidenziato il tema del seminario di studio: “Esso aveva come Parola-guida quella di Gesù nel Vangelo di Giovanni: ‘Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici’. E per beatificare un martire non ci vuole il miracolo. Il martirio è sufficiente… così risparmiamo un po’ tempo… e carte e soldi. E questo dare la vita per i propri amici, è una Parola che infonde sempre conforto e speranza. Infatti, nella sera dell’Ultima Cena il Signore parla del dono di sé che si sarebbe consumato sulla croce. Soltanto l’amore può dare ragione della croce: un amore così grande che si è fatto carico di ogni peccato e lo perdona, entra nella nostra sofferenza e ci dà la forza di sopportarla, entra anche nella morte per vincerla e salvarci. Nella Croce di Cristo c’è tutto l’amore di Dio, c’è la sua immensa misericordia”.
Quindi la santità ha bisogno dell’amore di Dio, come è sottolineato nella Costituzione dogmatica ‘Lumen gentium): “Per essere santi non occorre soltanto lo sforzo umano o l’impegno personale di sacrificio e di rinuncia. Prima di tutto bisogna lasciarsi trasformare dalla potenza dell’amore di Dio, che è più grande di noi e ci rende capaci di amare anche al di là di quanto pensavamo di essere capaci di fare.
Non a caso il Vaticano II, a proposito della vocazione universale alla santità, parla di ‘pienezza della vita cristiana’ e di ‘perfezione della carità’, in grado di promuovere ‘nella stessa società terrena un tenore di vita più umano’. Questa prospettiva illumina anche il vostro lavoro per le cause dei santi, un servizio prezioso che offre la Chiesa, affinché non le venga mai meno il segno della santità vissuta e sempre attuale”.
Ed ha sottolineato alcuni temi emersi dal convegno: “Durante il Convegno avete riflettuto su due forme della santità canonizzata: quella del martirio e quella dell’offerta della vita. Fin dall’antichità i credenti in Gesù hanno tenuto in grande considerazione coloro che avevano pagato di persona, con la vita stessa, il loro amore a Cristo e alla Chiesa. Facevano dei loro sepolcri dei luoghi di culto e di preghiera. Si trovavano insieme, nel giorno della loro nascita al cielo, per rinsaldare i legami di una fraternità che in Cristo Risorto oltrepassa i limiti della morte, per quanto cruenta e sofferta”.
Il martire è colui che segue Gesù, che va bel aldilà della propria confessione religiosa: “Nel martire si trovano i lineamenti del perfetto discepolo, che ha imitato Cristo nel rinnegare sé stesso e prendere la propria croce e, trasformato dalla sua carità, ha mostrato a tutti la potenza salvifica della sua Croce. Mi viene in mente il martirio di quei bravi libici ortodossi: morivano dicendo: ‘Gesù’. ‘Ma padre, erano ortodossi!’ Erano cristiani. Sono martiri e la Chiesa li venera come propri martire… Con il martirio c’è uguaglianza. Lo stesso succede in Uganda con i martiri anglicani. Sono martiri! E la Chiesa li prende come martiri”.
Ed ecco gli elementi che determinano il martirio: “Nell’ambito delle cause dei santi, il sentire comune della Chiesa ha definito tre elementi fondamentali del martirio, che restano sempre validi. Il martire è un cristiano che (primo) pur di non rinnegare la propria fede, subisce consapevolmente una morte violenta e prematura. Anche un cristiano non battezzato, che è cristiano nel cuore, confessa Gesù Cristo con il Battesimo del sangue. Secondo: l’uccisione è perpetrata da un persecutore, mosso dall’odio contro la fede o un’altra virtù ad essa connessa; e terzo: la vittima assume un atteggiamento inatteso di carità, pazienza, mitezza, a imitazione di Gesù crocifisso. Ciò che cambia, nelle diverse epoche, non è il concetto di martirio, ma le modalità concrete con cui, in un determinato contesto storico, esso avviene”.
Infine ha ribadito della commissione ‘Nuovi Martiri – Testimoni della Fede’ in occasione dell’anno giubilare: “Poiché si trattava di definire una nuova via per le cause di beatificazione e canonizzazione, stabilivo che dovesse esserci un nesso fra l’offerta della vita e la morte prematura, che il Servo di Dio avesse esercitato almeno in grado ordinario le virtù cristiane e che, soprattutto dopo la sua morte, fosse circondato da fama di santità e fama di segni.
Ciò che contraddistingue l’offerta della vita, nella quale manca la figura del persecutore, è l’esistenza di una condizione esterna, oggettivamente valutabile, nella quale il discepolo di Cristo si è posto liberamente e che porta alla morte. Anche nella straordinaria testimonianza di questa tipologia di santità risplende la bellezza della vita cristiana, che sa farsi dono senza misura, come Gesù sulla croce”.
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco: Chiesa sia accogliente
“Sono contento di stare qui, in questa bella chiesa salesiana: i salesiani sanno fare bene le cose. Complimenti. Questo è un Santuario diocesano dedicato a Maria Aiuto dei Cristiani: Maria Ausiliatrice (io sono stato battezzato nella parrocchia di Maria Ausiliatrice a Buenos Aires) un titolo tanto caro a san Giovanni Bosco; Maria Helpim, come con affetto la invocate qui. Quando, nel 1844, la Madonna ispirò a don Bosco di costruire a Torino una chiesa in suo onore, gli fece questa promessa: ‘Qui è la mia casa, da qui la mia gloria’.
Maria gli promise che, se avesse avuto il coraggio di cominciare la costruzione di quel Santuario, grandi grazie ne sarebbero seguite. E così è successo: la chiesa è stata costruita, ed è meravigliosa (ma è più bella quella di Buenos Aires!) ed è diventata centro di irradiazione del Vangelo, di formazione dei giovani e di carità, è diventata punto di riferimento per tanta gente”.
Nel santuario di Maria Ausiliatrice, a Port Moresby, oggi papa Francesco ha incontrato, dopo il saluto alle autorità civili, i vescovi della Papua Nuova Guinea e delle Isole Salomone, con i sacerdoti, i diaconi, i consacrati e le consacrate, i seminaristi ed i catechisti, con una riflessione sulla bellezza dell trasmissione della fede con speranza, prendendo spunto dalla costruzione del Santuario:
“I costruttori di questa chiesa hanno iniziato l’impresa facendo un grande atto di fede, che ha portato i suoi frutti, e che però è stato possibile solo grazie a tanti altri inizi coraggiosi, di chi li ha preceduti. I missionari sono arrivati in questo Paese alla metà del XIX secolo e i primi passi del loro lavoro non sono stati facili, anzi alcuni tentativi sono falliti. Ma loro non si sono arresi: con grande fede e con zelo apostolico hanno continuato a predicare il Vangelo e a servire i fratelli, ricominciando molte volte dove non avevano avuto successo, con tanti sacrifici”.
Questa bellezza è avvenuta grazie ai santi: “Ce lo ricordano queste vetrate, attraverso le quali la luce del sole ci sorride nei volti dei Santi e Beati: donne e uomini di ogni provenienza, legati alla storia della vostra comunità: Pietro Chanel, protomartire dell’Oceania, Giovanni Mazzucconi e Pietro To Rot, martiri della Nuova Guinea, e poi Teresa di Calcutta, Giovanni Paolo II, Mary McKillop, Maria Goretti, Laura Vicuña, Zeffirino Namuncurà, Francesco di Sales, Giovanni Bosco, Maria Domenica Mazzarello.
Tutti fratelli e sorelle che, in modi e tempi diversi, cominciando e ricominciando tante volte opere e cammini, hanno contribuito a portare il Vangelo tra voi, con una variopinta ricchezza di carismi, animati dallo stesso Spirito e dalla stessa carità di Cristo… Questa è la nostra vocazione: essere strumenti”.
E’ stato un invito a ‘ripartire’ dalle persone emarginate: “E ancora penso a quelle emarginate e ferite, sia moralmente che fisicamente, dal pregiudizio e dalla superstizione, a volte fino a rischio della vita, come ci hanno ricordato James e suor Lorena. A questi fratelli e sorelle la Chiesa desidera essere particolarmente vicina, perché in loro Gesù è presente in modo speciale, e dove c’è Lui, il nostro capo, ci siamo anche noi, sue membra, appartenenti allo stesso corpo, ‘ben collegato e ben connesso mediante l’aiuto fornito da tutte le giunture’. E per favore, non dimenticatevi: vicinanza, vicinanza!”
Ecco il motivo per cui occorre esserci: “Possiamo vederla simboleggiata nelle conchiglie kina, con cui è ornato il presbiterio di questa chiesa, e che sono segno di prosperità. Esse ci ricordano che qui il tesoro più bello agli occhi del Padre siamo noi, stretti attorno a Gesù, sotto il manto di Maria, spiritualmente uniti a tutti i fratelli e le sorelle che il Signore ci ha affidato e che non possono essere qui, accesi dal desiderio che il mondo intero possa conoscere il Vangelo e condividerne con noi la forza e la luce… La bellezza di esserci, allora, non si sperimenta tanto in occasione dei grandi eventi e nei momenti di successo, quanto piuttosto nella fedeltà e nell’amore con cui ogni giorno ci si impegna a crescere insieme”.
Inoltre ha ribadito l’importanza di crescere nell’evangelizzazione: “In questa Chiesa c’è un’interessante ‘catechesi in immagini’ del passaggio del Mar Rosso, con le figure di Abramo, Isacco e Mosè: i Patriarchi resi fecondi dalla fede, che per aver creduto hanno ricevuto in dono una numerosa discendenza. E questo è un segno importante, perché incoraggia anche noi, oggi, ad avere fiducia nella fecondità del nostro apostolato, continuando a gettare piccoli semi di bene nei solchi del mondo.
Sembrano minuscoli, come un granello di senape, ma se ci fidiamo e non smettiamo di spargerli, per grazia di Dio germoglieranno, daranno un raccolto abbondante e produrranno alberi capaci di accogliere gli uccelli del cielo… Perciò noi continuiamo ad evangelizzare, pazientemente, senza lasciarci scoraggiare da difficoltà e incomprensioni, nemmeno quando queste si presentano là dove meno vorremmo incontrarle: in famiglia, ad esempio, come abbiamo sentito”.
Prima di questo ultimo incontro il papa ha visitato i bambini di ‘Street Ministry’ e di ‘Callan Services’, assistiti dalla ‘Comunità delle Caritas Sisters of Jesus’: “E’ vero, tutti abbiamo dei limiti, delle cose che sappiamo fare meglio, e altre che invece facciamo fatica o non possiamo fare mai, ma non è questo che determina la nostra felicità: piuttosto è l’amore che mettiamo in qualsiasi cosa facciamo, doniamo e riceviamo.
Donare amore, sempre, e accogliere a braccia aperte l’amore che riceviamo dalle persone che ci vogliono bene: è questa la cosa più bella e più importante della nostra vita, in qualsiasi condizione e per qualsiasi persona… anche per il papa, sapete? La nostra gioia non dipende da altro: la nostra gioia dipende dall’amore!”
Nel saluto finale il papa ha invitato i bambini a non perdere di vista i propri obiettivi: “Avete mai visto come si prepara un gatto quando deve fare un bel salto? Prima si concentra e punta tutte le sue forze e i suoi muscoli nella direzione giusta. Magari lo fa in un momento veloce, e non lo notiamo nemmeno, ma lo fa. E così anche noi: concentrare tutte le nostre forze sulla meta, che è l’amore di per Gesù e in Lui per tutti i fratelli e le sorelle che incontriamo sulla nostra strada, e poi con slancio riempire tutto e tutti con il nostro affetto! In questo senso, nessuno di noi è ‘di peso’, come avete detto: tutti siamo doni bellissimi di Dio, un tesoro gli uni per gli altri!”
(Foto: Santa Sede)
Il card. Cantoni invita Como a riscoprire la sua anima
“Anche quest’anno, come è ormai tradizione, alla vigilia della festa del nostro Patrono ci raduniamo per riflettere sul nostro vivere insieme come cittadini. Vorrei condividervi qualche pensiero che nasce in me dall’ascolto della realtà e dal confronto con alcune persone, a vario modo qualificate a proporre letture e soluzioni per una Comunità più umana e fraterna. Mi auguro che queste mie riflessioni, orientate quest’anno a scoprire la dimensione turistica della Città, con tutto ciò che implica circa l’accoglienza, possano suscitare un sano dibattito e ulteriori confronti”.
Così è iniziato il discorso alla città del vescovo della diocesi di Como, card. Oscar Cantoni, in occasione dei Primi Vespri nella vigilia della memoria liturgica del patrono sant’Abbondio sul tema ‘Como, città di chi? – Comunità, turismo e accoglienza’, ricordando alcuni cittadini illustri, da Plinio il Vecchio ad Alessandro Volta, dal papa e beato Innocenzo XI fino ai due sacerdoti (don Renzo Beretta e don Roberto Malgesini) che hanno donato la vita per i poveri ‘onorando Como con la loro morte’.
Riportando un pensiero di Giorgio La Pira, il card. Cantoni ha chiesto alla città di riscoprire la propria vocazione: “Sei Città di confine e di scambi, via di commerci vicini e lontani, terra di imprese e di incontri, luogo desiderato e tanto visitato, ricca di bellezze, di storia e di natura. Circondata da un incanto che dalle tue verdi montagne si riflette nelle mille sfumature di blu del tuo lago.
Secoli di storia e di cultura si possono ravvisare nei tuoi monumenti e nelle tue chiese, nella tua grande e artistica Cattedrale. Città di imprese e di lavoro, di studio e di ricerca. Oggi anche sede di una università giovane e vivace, di tante scuole, del Conservatorio, di Accademie. Città di musei, di teatri e di cinema, luoghi di incontro e di socialità. Città ricca, anche molto ricca, ma non senza le sue contraddizioni”.
Nel ricordo di illustri concittadini il vescovo della città ha evidenziato il valore di ‘cittadino’: “Una Città non è di pochi che la possiedono o la governano, ma non è neppure di nessuno. E’ invece di tutti, perché tutti, come cittadini e cittadine, siamo chiamati a partecipare. Tutti, insieme, a prendercene cura nell’ascolto reciproco e nella collaborazione. Non spazio anonimo, ‘cumulo di pietre’ appunto, ma relazioni, luogo di vita, intreccio di persone. Ecco cos’è una Città, ecco cosa non può rinunciare ad essere”.
Innanzitutto la città ha una vocazione turistica: “Tra le vocazioni di Como vi è, non ultima, anche e soprattutto questa: essere Città turistica. E’ la consapevolezza di vivere in luoghi belli che ci sono dati e affidati come dono e che desideriamo condividere, perché molti altri, insieme a noi, li possano ammirare e contemplare.
E’ la capacità di ogni autentica Comunità di non chiudersi in sé stessa, facendosi capace di accogliere e di allargarsi nell’incontro con chi non è solo ‘dei nostri’. Ciascun uomo scopre gradualmente la vocazione che gli è propria quando si rende conto di non averla ricevuta in esclusiva, perché gli è stata donata affinché la condivida. E questo vale anche per la vocazione propria della nostra Città”.
Però anche il turismo ha risvolti negativi: “Questo flusso turistico porta tra noi benessere e ricchezza, occasioni di incontro e di scambi, ma insieme anche il rischio di alcune storture e di vari limiti. Per molti aspetti un tale aumento del turismo si sta rivelando insostenibile dal punto di vista sociale e ambientale. Non è qualcosa che accade solo qui. In molte altre Città e territori sta accadendo lo stesso fenomeno (si parla ormai di over-tourism o di ‘turistificazione’). ..
Appare, immediatamente, il rischio di un turismo consumistico, ‘mordi e fuggi’, che veloce consuma spazi e territorio. Senza tempo, tutto è di fretta e ciò che conta è scattarsi un selfie da pubblicare sui social. Ciò che ci circonda è utile solo come sfondo di una fotografia. Tutto diventa veloce ed effimero come un clic. A questa cultura consumistica ed effimera si contrappone, invece, un’altra idea di turismo: più lento, più consapevole e più rispettoso delle persone, dei luoghi e dell’ambiente”.
Infatti il turismo porta aumenti di prezzi anche per i cittadini: “L’afflusso di questa ondata turistica nella nostra Città comporta un forte aumento dei prezzi delle merci e delle case, fino a rendere il centro Città un luogo a tratti inospitale per i cittadini. Sempre più famiglie abbandonano il centro, dove i prezzi delle case sono inaccessibili e molte abitazioni sono ormai trasformate in B&B per ospitalità brevi dei turisti di passaggio.
Molti, attratti ormai da un più facile guadagno, scelgono di destinare così le proprietà del centro. Si pensi che dal 2016 al 2023 il numero delle case vacanze è passato da 600 ad oltre 4.600. La Città, però, così facendo, si svuota e, in qualche modo, si sfalda anche la Comunità: più alloggi per i turisti, meno case per i residenti. Questo comporta, non solo nel centro storico, una urgente emergenza abitativa”.
Insomma il cardinale ha invitato a riscoprire una cultura cristiana: “La cultura cristiana ha sempre promosso bellezza, ma insieme ha offerto anche ospitalità. Nella storia e così anche oggi, non è banale il contributo di riflessione e di valore che la Comunità cristiana può partecipare alla convivenza pubblica. C’è, anche in molte altre tradizioni religiose, così come nella cultura umanistica, una visione sacra dell’ospitalità, che considera l’ospite nel suo valore di persona e non sulla base del profitto che può portare”.
Però la città non è sempre coerente con il pensiero cristiano: “Registriamo, invece, oggi una contraddizione che è un autentico scandalo: se hai soldi e porti soldi sei il benvenuto e ti metto il ‘tappeto rosso’ anche se sei straniero. I muri crollano e il dio denaro apre ogni porta. Se invece sei, allo stesso modo, straniero, ma senza soldi: torna a casa tua! Cosa offriamo? Ai turisti facoltosi il lusso, ai poveri il minimo e, a volte, anche meno. Sotteso a questo atteggiamento c’è qualcosa di poco umano: non mi interessa chi sei, ma ciò che possiedi o che non hai”.
Ed infine un monito anche per i cristiani: “A nessuno, più che ai cristiani, preoccupa il vento cattivo delle parole arroganti, la logica tribale dell’amico-nemico, l’incapacità di accoglienza e di dialogo. Non può non inquietarci una società e un mondo che vede crescere conflittualità e tensioni ad ogni livello. A questo vento cattivo si contrappone l’aria buona dello Spirito che implora ai nostri cuori di custodire e promuovere il dono della pace, a partire dai nostri rapporti interpersonali, dalle nostre famiglie e dalla nostra Città.
Una Città è bella quando rende belli i suoi abitanti e chi vi è accolto. Como è bella quando noi tutti mostriamo il nostro vero volto, ossia quando siamo buoni, belli e veri noi stessi! Quando ci mostriamo profondamente umani, quando diffondiamo tra noi e con tutti il buon profumo dell’amicizia e della fraternità”.
(Foto: Diocesi di Como)
Al Meeting di Rimini il cristianesimo è incarnazione
Il Meeting, giunto alla sua 45^ edizione, offre anche quest’anno il proprio contributo di cultura, dialogo e umanità… Il tema di questa edizione esprime le radici culturali del Meeting proponendo uno sguardo aperto alle straordinarie trasformazioni che stiamo vivendo.
Si vuole ricercare l’essenziale proprio mentre i flussi globali delle informazioni diventano fiumi in piena, mentre le tecnoscienze ci mostrano soluzioni fino a ieri inimmaginabili, mentre le opportunità offerte ai singoli ripropongono la fallace lusinga dell’onnipotenza dell’uomo. Eppure, a fronte di tante nuove chances per l’umanità, tocchiamo con mano l’orrore, le atrocità e l’escalation delle guerre, le volontà di dominio, con un drammatico ritorno al passato. Sentimenti di paura, sfiducia, talvolta indifferenza, non di rado rancore e odio, si riaffacciano”.
“Proprio mentre attraversiamo tempi complessi, la ricerca di ciò che costituisce il centro del mistero della vita e della realtà è di cruciale importanza. La nostra epoca, infatti, è segnata da problematiche varie e notevoli sfide, dinanzi alle quali riscontriamo talvolta un senso di impotenza, un atteggiamento rinunciatario e passivo che possono condurre a ‘trascinare la vita’ e a lasciarsi travolgere dallo stordimento dell’effimero, fino a perdere il significato dell’esistenza. In questo scenario, perciò, è quanto mai pertinente la scelta di mettersi sulle tracce di ciò che è essenziale”.
Con la lettura dei messaggi del presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, e di papa Francesco si è aperto, martedì 20 agosto, alla fiera di Rimini, il meeting dell’Amicizia tra i Popoli dal titolo ‘Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?’, inaugurato dal dialogo con il patriarca di Gerusalemme dei Latini, card. Pierbattista Pizzaballa, introdotto da Bernhard Scholz, presidente della Fondazione stessa, che ha sottolineato il ‘punto nevralgico’ che questa edizione affronta:
“Mai nella storia della nostra umanità i cambiamenti culturali, sociali, tecnologici e politici sono stati così pervasivi, interconnessi e accelerati come in questo momento storico… Da dove può nascere la possibilità di vivere pienamente la nostra umanità in mezzo a queste condizioni piene di incognite e come è possibile costruire la pace in mezzo a guerre così atroci e perduranti?.
L’intervento del card. Pizzaballa, sviluppatosi in un colloquio con il presidente Scholz, ha toccato molti temi importanti, condividendo inizialmente il suo percorso di fede: “La vocazione francescana, come ogni vocazione cristiana, è incentrata sulla persona di Gesù Cristo”, iniziato proprio a Rimini quando era ragazzo, parlando della sfida di vivere e trasmettere questa esperienza in una realtà complessa come quella di Gerusalemme, una città segnata da divisioni e conflitti, perché “essere francescano significa incontrare Cristo e fare esperienza di Lui secondo uno stile e un modo che Francesco ha mostrato”.
Quindi il patriarca ha affrontato il tema del conflitto del 7 ottobre, descrivendo l’impatto devastante che ha avuto su entrambe le popolazioni, israeliana e palestinese: “Quello che è successo il 7 ottobre è stato uno shock incredibile per Israele… Il rifiuto reciproco dell’esistenza altrui si respira nell’aria… I negoziati in corso sono ormai l’ultimo treno. Io ho miei dubbi ma non bisogna perderlo, questo treno. Per questo ho chiesto di pregare incessantemente… Ricostruire sarà una fatica immane che dovrà impegnare tutti”
E sul dialogo interreligioso in Medio Oriente il card. Pizzaballa ha dato un giudizio molto critico. “Il dialogo è in crisi; ebrei, cristiani e mussulmani non riescono ad incontrarsi. Oggi non riusciamo a parlarci a livello istituzionale… In passato ci sono stati incontri ufficiali che hanno prodotto documenti bellissimi, come ad Abu Dhabi, ma questo non basta più.
Il dialogo interreligioso non può limitarsi alle élite; i leader religiosi devono aiutare le loro comunità a non chiudersi in sè stesse… Il vero dialogo interreligioso è l’incontro tra persone che hanno un’esperienza di fede diversa, ma che, una volta condivisa, ti aiuta a illuminare in maniera più completa quello che sei tu”.
Un altro tema affrontato dal Patriarca di Gerusalemme è stato quello della comunione cristiana in un contesto di divisioni politiche e culturali, in quanto la sua ‘diocesi’ si estende in quattro nazioni (Giordania, Israele, Palestina e Cipro) con cristiani sotto le bombe a Gaza e cristiani che fanno il servizio militare nell’esercito israeliano:
“Il cristianesimo astratto non esiste, il cristianesimo è sempre incarnato e bisogna fare i conti con le proprie appartenenze… Proprio come oggi: c’è chi non vuol vedere e si rifugia in un devozionismo sofisticato; c’è chi vede ma non vuole fare i conti con la realtà e c’è chi impugna le armi… Non abbiamo risposte, ma un indirizzo: Dio, che dà senso a tutto quello che facciamo”.
Per questo la Chiesa è presente in Terra Santa, sebbene i cristiani siano il 3% della popolazione: “Ma la prima cosa non sono i numeri; la prima cosa è esserci, stare lì e sostenere la comunità, incoraggiare. Va da sé che, poi, negli aiuti materiali sosteniamo tutti. A Gaza la nostra parrocchia si dà da fare per chiunque. Non abbiamo soluzioni politiche, ma una parola di verità perché non cresca la spirale dell’odio fra le nazioni”.
Inoltre, affrontando il tema del perdono in situazioni di ingiustizia, il card. Pizzaballa ha ribadito che il perdono è centrale nella fede cristiana, ma esso “non si può imporre. A livello personale, giustizia e perdono sono quasi sinonimi, se illuminati dalla fede. Ma a livello comunitario le dinamiche sono diverse, perché entrano in gioco fattori come dignità ed uguaglianza; perdonare senza che ci siano dignità ed uguaglianza vuol dire giustificare un male che si sta compiendo. In questo caso il perdono ha dinamiche completamente diverse che richiedono tempo e parole di verità che riconoscano il male e l’ingiustizia commessi. Come pastore ricordo a tutti che la giustizia senza perdono diventa vendetta”.
E, parlando della necessità di una purificazione della memoria, intesa come la consapevolezza del male che facciamo, ha ribadito l’importanza di non restare chiusi nelle proprie narrazioni esclusive, ma di aprirsi a una comprensione più ampia e inclusiva della storia e delle relazioni, con una chiara condanna dell’antisemitismo: “L’antisemitismo è una sorta di cartina di tornasole per capire quali sono i modelli su cui si regge la società… Noi religiosi dobbiamo creare una cultura di relazioni, di accoglienza. La civiltà si costruisce ‘con’ e non contro”.
La prima giornata alla fiera di Rimini si è chiusa con un suggestivo incontro sul Cantico delle Creature di san Francesco tra il poeta Davide Rondoni, presidente del Comitato nazionale per l’ottavo centenario della morte di san Francesco d’Assisi, e p. Guidalberto Bormolini, tanatologo e membro fondatore del Gruppo Nazionale ‘Sala del Silenzio’, autori del libro ‘Vivere il Cantico delle creature. La spiritualità cosmica e cristiana di san Francesco’, in cui è stata approfondita la concretezza della vita spirituale, in quanto per il santo assisate l’umanità è ‘giuntura’ tra il divino e la natura, perché il corpo è il tempio dello Spirito, in quanto la croce portata da Gesù salva, perché indica la direzione; quindi non è possibile ‘dividere’ la carne dallo Spirito.
(Tratto da Aci Stampa)
La Chiesa festeggia san Massimiliano Maria Kolbe
“Da oggi la Chiesa desidera chiamare “santo” un uomo al quale è stato concesso di adempiere in maniera assolutamente letterale le suddette parole del Redentore. Ecco infatti, verso la fine di luglio del 1941, quando per ordine del capo del campo si fecero mettere in fila i prigionieri destinati a morire di fame, quest’uomo, Massimiliano Maria Kolbe, si presentò spontaneamente, dichiarandosi pronto ad andare alla morte in sostituzione di uno di loro. Questa disponibilità fu accolta, e al padre Massimiliano, dopo oltre due settimane di tormenti a causa della fame, fu infine tolta la vita con un’iniezione mortale, il 14 agosto 1941”.
Così iniziava l’omelia di san Giovanni Paolo II per la canonizzazione di p. Massimiliano Kolbe, celebrata in piazza san Pietro il 10 ottobre 1982, che ‘diede la vita… per il fratello’, ricorrenza che si celebra oggi, nel giorno della sua morte, avvenuta il 14 agosto 1941, mentre recitava la preghiera dell’Ave Maria.
Nell’omelia san Giovanni Paolo II ha ricordato che con quel gesto si rese simile a Gesù: “Dando la sua vita per un fratello, padre Massimiliano, che la Chiesa già sin dal 1971 venera come ‘beato’, in modo particolare si è reso simile a Cristo.
Noi, dunque, che oggi, domenica 10 ottobre, siamo riuniti davanti alla Basilica di san Pietro in Roma, desideriamo esprimere il valore speciale che ha agli occhi di Dio la morte per martirio del padre Massimiliano Kolbe: ‘Preziosa agli occhi del Signore / è la morte dei suoi fedeli’, così abbiamo ripetuto nel Salmo responsoriale.
Veramente è preziosa ed inestimabile! Mediante la morte, che Cristo ha subìto sulla Croce, si è compiuta la redenzione del mondo, poiché questa morte ha il valore dell’amore supremo. Mediante la morte, subìta dal padre Massimiliano Kolbe, un limpido segno di tale amore si è rinnovato nel nostro secolo, che in grado tanto alto e in molteplici modi è minacciato dal peccato e dalla morte”.
Ma quest’imitazione di Gesù fu sempre presente nella sua vita: “A questo definitivo sacrificio Massimiliano si preparò seguendo Cristo sin dai primi anni della sua vita in Polonia. Da quegli anni proviene l’arcano sogno di due corone: una bianca e una rossa, fra le quali il nostro santo non sceglie, ma le accetta entrambe. Sin dagli anni della giovinezza, infatti, lo permeava un grande amore verso Cristo e il desiderio del martirio.
Quest’amore e questo desiderio l’accompagnarono sulla via della vocazione francescana e sacerdotale, alla quale si preparava sia in Polonia che a Roma. Quest’amore e questo desiderio lo seguirono attraverso tutti i luoghi del servizio sacerdotale e francescano in Polonia, ed anche del servizio missionario nel Giappone”.
Ciò avvenne perché si affidò completamente alla Madre di Dio: “L’ispirazione di tutta la sua vita fu l’Immacolata, alla quale affidava il suo amore per Cristo e il suo desiderio di martirio. Nel mistero dell’Immacolata Concezione si svelava davanti agli occhi della sua anima quel mondo meraviglioso e soprannaturale della Grazia di Dio offerta all’uomo.
La fede e le opere di tutta la vita di padre Massimiliano indicano che egli concepiva la sua collaborazione con la Grazia divina come una milizia sotto il segno dell’Immacolata Concezione. La caratteristica mariana è particolarmente espressiva nella vita e nella santità di padre Kolbe. Con questo contrassegno è stato marcato anche tutto il suo apostolato, sia nella patria come nelle missioni. Sia in Polonia come nel Giappone furono centro di quest’apostolato le speciali città dell’Immacolata”.
Spontaneamente p. Kolbe offrì la sua vita per la vita di un altro: “V’era in questa morte, terribile dal punto di vista umano, tutta la definitiva grandezza dell’atto umano e della scelta umana: egli da sé si offrì alla morte per amore. Ed in questa sua morte umana c’era la trasparente testimonianza data a Cristo: la testimonianza data in Cristo alla dignità dell’uomo, alla santità della sua vita e alla forza salvifica della morte, nella quale si manifesta la potenza dell’amore.
Proprio per questo la morte di Massimiliano Kolbe divenne un segno di vittoria. E’ stata questa la vittoria riportata su tutto il sistema del disprezzo e dell’odio verso l’uomo e verso ciò che è divino nell’uomo, vittoria simile a quella che ha riportato il nostro Signore Gesù Cristo sul Calvario”.
Mentre nell’omelia per la sua beatificazione, avvenuta il 17 ottobre 1971, papa san Paolo II ha spiegato il motivo per cui p. Kolbe era beato: “Chi non ricorda l’episodio incomparabile? ‘Sono un sacerdote cattolico’, egli disse offrendo la propria vita alla morte (e quale morte!) per risparmiare alla sopravvivenza uno sconosciuto compagno di sventura, già designato per la cieca vendetta. Fu un momento grande: l’offerta era accettata. Essa nasceva dal cuore allenato al dono di sé, come naturale e spontanea quasi come una conseguenza logica del proprio Sacerdozio.
Non è un Sacerdote un ‘altro Cristo’? Non è stato Cristo Sacerdote la vittima redentrice del genere umano? Quale gloria, quale esempio per noi Sacerdoti ravvisare in questo nuovo Beato un interprete della nostra consacrazione e della nostra missione! Quale ammonimento in quest’ora d’incertezza nella quale la natura umana vorrebbe tal volta far prevalere i suoi diritti sopra la vocazione soprannaturale al dono totale a Cristo in chi è chiamato alla sua sequela!”
Inoltre ha spiegato il suo culto per l’Immacolata Concezione: “Massimiliano Kolbe è stato un apostolo del culto alla Madonna, vista nel suo primo, originario, privilegiato splendore, quello della sua definizione di Lourdes: l’Immacolata Concezione. Impossibile disgiungere il nome, l’attività, la missione del Beato Kolbe da quello di Maria Immacolata. E’ lui che istituì la Milizia dell’Immacolata, qui a Roma, ancora prima d’essere ordinato Sacerdote, il 16 ottobre 1917…
Nessuna competizione. Cristo, nel pensiero del Kolbe, conserva non solo il primo posto, ma l’unico posto necessario e sufficiente, assolutamente parlando, nell’economia della salvezza; né l’amore alla Chiesa e alla sua missione è dimenticato nella concezione dottrinale o nella finalità apostolica del nuovo Beato. Anzi proprio dalla complementarietà subordinata della Madonna, rispetto al disegno cosmologico, antropologico, soteriologico di Cristo, Ella deriva ogni sua prerogativa, ogni sua grandezza”.
Papa Francesco ribadisce la necessità di una formazione per i sacerdoti
Formazione dei sacerdoti, promozione delle vocazioni e diaconato: sono i tre temi che papa Francesco ha evidenziato nell’incontro con i partecipanti della plenaria del Dicastero per il Clero, in cui li ha ringraziati per il servizio con l’invito a non abbandonare la propria formazione: “Anche il prete è un discepolo alla sequela del Signore e, perciò, la sua formazione deve essere un cammino permanente; questo è tanto più vero se consideriamo che, oggi, viviamo in un mondo segnato da rapidi cambiamenti, nel quale emergono sempre nuove domande e sfide complesse a cui rispondere”.
Il papa ha ribadito che la formazione ricevuta in seminario non è più sufficiente: “Perciò, non possiamo illuderci che la formazione in Seminario possa bastare ponendo basi sicure una volta per tutte; piuttosto, siamo chiamati a consolidare, rafforzare e sviluppare quanto abbiamo in Seminario, in un percorso che ci aiuti a maturare nella dimensione umana, a crescere spiritualmente, a trovare i linguaggi adeguati per l’evangelizzazione, ad approfondire quanto ci serve per affrontare adeguatamente le nuove questioni del nostro tempo”.
Riprendendo le Sacre Scritture il papa ha sottolineato la bellezza di una comunità: “Quanto è importante questo per il prete: il cammino non si fa da soli! Eppure, purtroppo, tanti sacerdoti sono troppo soli, senza la grazia di un accompagnamento, senza quel senso di appartenenza che è come un salvagente nel mare spesso burrascoso della vita personale e pastorale”.
Perciò anche i rapporti comunitari sono parte della formazione: “Tessere una forte rete di rapporti fraterni è un compito prioritario della formazione permanente: il vescovo, i sacerdoti tra loro, le comunità nei confronti dei loro pastori, i religiosi e le consacrate, le associazioni, i movimenti: è indispensabile che i sacerdoti si sentano ‘a casa’. Voi come Dicastero avete già iniziato a tessere una rete mondiale: vi raccomando, fate di tutto perché quest’onda continui e porti frutti nel mondo intero. Adoperatevi con creatività perché questa rete si rafforzi e offra sostegno ai sacerdoti”.
E’un invito a curare le relazioni: “Una delle grandi sfide per il Popolo di Dio è il fatto che, in sempre più aree del mondo, sono in forte calo le vocazioni al ministero sacerdotale e alla vita consacrata, e in alcuni Paesi si stanno quasi spegnendo. Ma è in crisi anche la vocazione al matrimonio con quel senso di impegno e di missione che richiede…
Non possiamo rassegnarci al fatto che per tanti giovani è scomparsa dall’orizzonte l’ipotesi di una offerta radicale di vita. Dobbiamo invece riflettere insieme e restare attenti ai segnali dello Spirito e anche questo compito voi potete portarlo avanti grazie alla Pontificia Opera delle vocazioni sacerdotali”.
Ed infine ha evidenziato la necessità del diaconato permanente: “Come sapete, la Relazione di sintesi della prima Sessione dell’Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, nell’ottobre scorso, ha raccomandato ‘di effettuare una valutazione sull’attuazione del ministero diaconale dopo il Concilio Vaticano II’ e invita pure a puntare, tra i vari compiti dei diaconi, più decisamente alla diaconia della carità e al servizio dei poveri”.
In precedenza alle partecipanti ai Capitoli Generali delle Suore di san Felice da Cantalice e delle Figlie di Nostra Signora di Misericordia aveva ricordato la vita di Sofia Camilla Truszkowska, poi suor Angela Maria, che ha fondato le suore di san Felice da Cantalice, a Varsavia, per aiutare bambini, disabili e giovani a rischio: “In quel tempo Sofia Camilla Truszkowska, poi suor Angela Maria, fondava le Suore di San Felice da Cantalice, a Varsavia, in una Polonia travagliata dalla guerra, a servizio di bambini, disabili e giovani a rischio.
Colpisce, di questi inizi, l’episodio in cui, di fronte all’inasprirsi dei conflitti armati, lei e le sorelle decisero di curare tutti i feriti, a qualunque schieramento appartenessero. Per questo furono incolpate di tradimento e l’opera venne soppressa dalle autorità civili. Ci pensò la Provvidenza, tempo dopo, a farla risorgere, forse anche grazie al loro sacrificio coraggioso, e a diffonderla ancora di più, oltre oceano, in America, sempre sotto l’impulso del servizio, questa volta per l’assistenza ai migranti polacchi”.
Questo è un segno di incoraggiamento per non arrendersi davanti alle difficoltà: “E’ un segno importante questo per voi, specialmente mentre celebrate il Capitolo: un segno che vi invita a non temere di perdere la sicurezza di strutture e istituzioni, pur di rimanere fedeli alla carità! E vi farà bene tenerlo presente, nei vostri incontri, per ricordarvi che le strutture non sono la sostanza: sono solo un mezzo”.
Così avvenne anche in Argentina ed in Italia: “Nello stesso periodo, in Italia, a Savona, un’altra giovane donna, Benedetta Rossello, poi suor Maria Giuseppa, iniziava, sotto la guida del suo Vescovo, un’altra opera, pure a servizio di poveri, bambini e giovani donne: si tratta delle Figlie di Nostra Signora della Misericordia. Anche Benedetta era una giovane decisa che, pur essendo indigente, aveva rinunciato alla prospettiva di una ricca eredità per seguire la chiamata alla consacrazione, scegliendo il motto ‘Cuore a Dio, mani al lavoro!’…
Ed a questo punto permettetemi di condividere con voi un ricordo personale. E’ infatti in una delle vostre scuole, a Buenos Aires, nel quartiere Flores, che molti anni fa ho ricevuto i Sacramenti dell’iniziazione cristiana. Come dimenticare la cara Hermana Dolores, da cui tanto ho imparato e che per tanto tempo ho continuato a visitare? Per questo ringrazio il Signore e tutte voi, perché il mio attuale servizio alla Chiesa è anche frutto del bene che ho ricevuto, in tenera età, dalla vostra famiglia religiosa”.
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco: nell’umiltà Dio si incarna
“Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le Novizie partecipanti al corso promosso dall’Unione Superiore Maggiori d’Italia ed auspico che tale incontro susciti in ciascuna il desiderio di aderire sempre più a Cristo e di servire il prossimo nella carità. Io vedo queste novizie e mi domando: quante sono italiane? Poche. C’è una scarsità di vocazioni in Italia: pensiamo e preghiamo per le vocazioni alla vita consacrata”: così al termine dell’udienza generale di oggi papa Francesco, salutando le novizie partecipanti al corso promosso dall’Unione Superiore Maggiori d’Italia, ha rivolto un pensiero alla mancanza di vocazioni.
Inoltre ha invitato a pregare per la pace nel mondo: “Abbiamo bisogno di pace. Il mondo è in guerra. Non dimentichiamo la martoriata Ucraina che sta soffrendo tanto. Non dimentichiamo la Palestina e Israele: che si fermi, questa guerra. Non dimentichiamo il Myanmar. E non dimentichiamo tanti Paesi in guerra. Fratelli e sorelle, bisogna pregare per la pace in questo tempo di guerra mondiale”.
Mentre nell’udienza generale il papa ha concluso le catechesi Il Papa su ‘I vizi e le virtù’, incentrando la riflessione sull’umiltà, fondamento della vita cristiana: “Essa è la grande antagonista del più mortale tra i vizi, vale a dire la superbia. Mentre l’orgoglio e la superbia gonfiano il cuore umano, facendoci apparire più di quello che siamo, l’umiltà riporta tutto nella giusta dimensione: siamo creature meravigliose ma limitate, con pregi e difetti. La Bibbia dall’inizio ci ricorda che siamo polvere e in polvere ritorneremo, ‘umile’ infatti deriva da humus, cioè terra. Eppure nel cuore umano sorgono spesso deliri di onnipotenza, tanto pericolosi, e questo ci fa tanto male”.
Secondo il papa l’umiltà è base di tutte le virtù: “Per liberarci dalla superbia basterebbe molto poco, basterebbe contemplare un cielo stellato per ritrovare la giusta misura… Beate le persone che custodiscono in cuore questa percezione della propria piccolezza! Queste persone sono preservate da un vizio brutto: l’arroganza.
Nelle sue Beatitudini, Gesù parte proprio da loro: ‘Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli’. E’ la prima Beatitudine perché sta alla base di quelle che seguono: infatti la mitezza, la misericordia, la purezza di cuore nascono da quel senso interiore di piccolezza. L’umiltà è la porta d’ingresso di tutte le virtù”.
E nella piccola Nazaret si incarna il Verbo: “Ma è proprio da lì che il mondo rinasce. L’eroina prescelta non è una reginetta cresciuta nella bambagia, ma una ragazza sconosciuta: Maria. La prima ad essere stupita è lei stessa, quando l’angelo le porta l’annuncio di Dio. E nel suo cantico di lode, risalta proprio questo stupore: ‘L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva’. Dio, per così dire, è attratto dalla piccolezza di Maria, che è soprattutto una piccolezza interiore. Ed è attratto anche dalla nostra piccolezza, quando noi la accettiamo”.
Ecco il motivo per cui dopo l’annuncio dell’arcangelo Gabriele la Madonna si mette in cammino per andare a trovare la sorella: “La sua prima decisione dopo l’annuncio angelico è andare ad aiutare, andare a servire la cugina. Maria si dirige verso i monti di Giuda, per fare visita a Elisabetta: la assiste negli ultimi mesi di gravidanza. Ma chi vede questo gesto? Nessuno, se non Dio. Da questo nascondimento, la Vergine sembra non volere uscire mai…
Nemmeno la verità più sacra della sua vita, l’essere Madre di Dio, diventa per lei motivo di vanto davanti agli uomini. In un mondo che è una rincorsa ad apparire, a dimostrarsi superiori agli altri, Maria cammina decisamente, con la sola forza della grazia di Dio, in direzione contraria”.
E’ stata proprio l’umile fede della Madonna a rendere salda la Chiesa, questa è stata la conclusione della catechesi: “Possiamo immaginare che anche lei abbia conosciuto momenti difficili, giorni in cui la sua fede avanzava nell’oscurità. Ma questo non ha mai fatto vacillare la sua umiltà, che in Maria è stata una virtù granitica. Questo voglio sottolinearlo: l’umiltà è una virtù granitica. Pensiamo a Maria: lei è sempre piccola, sempre spoglia di sé, sempre libera da ambizioni.
Questa sua piccolezza è la sua forza invincibile: è lei che rimane ai piedi della croce, mentre l’illusione di un Messia trionfante va in frantumi. Sarà Maria, nei giorni precedenti la Pentecoste, a raccogliere il gregge dei discepoli, i quali non erano stati capaci di vegliare un’ora soltanto con Gesù, e lo avevano abbandonato al sopraggiungere della tempesta”.
Prima dell’Udienza generale papa Francesco ha ricevuto la Delegazione dell’Hong Kong Christian Council ricordando il martirio dei cristiani: “Il martirio della fede sempre c’è nella storia delle nostre Chiese, sempre, non è vero? Andiamo avanti.
Una cosa molto bella è accaduta quando Paolo VI è andato in Uganda. Ha parlato dei martiri cattolici e anglicani. Sono martiri. E io stesso, quando sono stati martirizzate quelle persone copte, ho subito detto che sono martiri anche ‘nostri’, sono martiri di tutti. Ci sono due battesimi: uno, che abbiamo tutti noi (il Battesimo che abbiamo ricevuto), l’altro, quello che il Signore dice ‘il Battesimo del sangue’: il martirio. E tutti noi sappiamo cosa è il martirio di tanti cristiani che hanno dato la vita per la fede”.
(Foto: Santa Sede)
Armida Barelli, la santità per sconfiggere l’ignoranza e promuovere le donne
“La vita di Armida Barelli, la sua esperienza ecclesiale ed associativa è particolarmente intensa e presenta aspetti per certi versi unici, a partire dal ruolo dirigenziale ininterrottamente svolto ai vertici dell’Azione cattolica dal 1918 al 1949, alla collaborazione con tre pontefici, alla fecondità e ai risultati raggiunti con le varie opere che ha contributo a fondare e che ha guidato. Si tratta, senza alcuna esagerazione, di una figura straordinaria sia per l’ampiezza delle sue attività sia per la continuità di un servizio che, sviluppandosi per oltre trent’anni, si configura come una chiara risposta vocazionale.
Al centro della sua azione sta la capacità di porre in essere un metodo formativo che, sostenuto da una forte organizzazione e da strumenti appropriati, raggiunge in pochi anni notevoli risultati in campi come l’eliminazione dell’analfabetismo, il processo di integrazione tra Nord e Sud del Paese, l’emancipazione femminile, la cura di una dimensione internazionale, contribuendo alla maturazione di una consapevolezza nuova in tante giovani donne”.
Dall’introduzione al suo libro ‘Armida Barelli. Il lungo viaggio delle donne verso la partecipazione democratica’ abbiamo chiesto al prof. Ernesto Preziosi, docente di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Urbino ‘Carlo Bo’, di spiegarci il motivo per cui ha scritto ancora un libro su Armida Barelli, educatrice ad un impegno politico: “La storiografia ha un debito verso questa donna avendola a lungo trascurata e in qualche misura ignorata. La sua biografia è molto ricca di aspetti legati all’attualità.
Mi è parso opportuno quindi, accanto al volume biografico (‘La zingara del buon Dio. Armida Barelli, storia di una donna che ha cambiato un’epoca’), aggiungere un ulteriore studio sul fondamentale apporto da lei dato alla maturazione di una coscienza civile nel mondo femminile (‘Armida Barelli. Il lungo viaggio delle donne verso la partecipazione democratica’). Una formazione costante che parte dal sostegno alle campagne per il diritto di voto alle donne, già nei primi anni ’20, fino alla mobilitazione nel 1946 per le elezioni alla Costituente e per quelle politiche del 1948. Una formazione ecclesiale, non direttamente politica, che puntava a rendere responsabili le donne per il bene comune, per il futuro del Paese”.
La sua è stata una lunga storia di impegno civico, in cui ha collaborato con molti politici: quale rapporto aveva con Luigi Sturzo ed Alcide De Gasperi?
“Vi era un rapporto di conoscenza ma non una consuetudine di relazioni in quanto la Barelli agiva con la sua Gioventù Femminile prettamente nel campo ecclesiale. Già negli anni ’20 la Gioventù Femminile proponeva alle giovani di aderire al Partito Popolare di Sturzo ma precisava che le dirigenti nazionali non l’avrebbero fatto per rispetto”.
Quale era il suo metodo formativo?
“Sostiene la formazione con un efficace impianto organizzativo. La Gioventù Femminile in realtà proponeva una formazione organica ‘non totalitaria’, ma integrale, che investiva ogni aspetto della vita e raggiungeva lo scopo di fatto di essere alternativa a quella fascista. Si rivolgeva pertanto alle differenti fasce di età e condizione di vita. Ogni socia veniva raggiunta da una stampa personalizzata (per studenti, operaie, rurali…)”.
Una formazione indirizzata soprattutto verso le donne: una ‘rivoluzionaria’ per il suo tempo?
“Dopo la prima guerra mondiale, quando le donne sostituiscono nel lavoro gli uomini richiamati al fronte, molti sono i cambiamenti che intervengono nel mondo femminile. E’ in questo clima che Armida inizia nel 1918 la Gioventù Femminile a Milano. L’anno seguente papa Benedetto XV la convocherà a Roma per chiederle di estendere la Gioventù femminile in tutte le diocesi: diventerà il ramo più fiorente dell’Azione Cattolica. Un’associazione fatta di donne e guidata da donne. In 10 anni si costituiscono in Italia 7560 Circoli con quasi 500.000 socie che superano largamente la Gioventù maschile di Azione Cattolica.
Il giornale dell’associazione arriverà a stampare altre 200.000 copie in varie edizioni. E’ un’immensa opera che ha effetti sull’emancipazione femminile. Riunisce donne di differente estrazione sociale e culturale, dà loro una formazione integrale che comprende anche la dimensione sociale e, insieme, favorisce attraverso la dimensione unitaria dell’Associazione, il senso di appartenenza ad un’unica nazione. La promozione della donna è per lei qualcosa di ben diverso dal femminismo politicizzato, lei punta sulla dignità battesimale che porta la donna a svolgere il suo compito nella Chiesa e nella società”.
Quali opere di Armida Barelli hanno anticipato il Concilio Vaticano II?
“In primo luogo la Gioventù femminile, da lei vissuta non solo come un semplice fatto organizzativo ma una esigente risposta alla sua personale chiamata a vivere da cristiana nel mondo; ad essere, come le scriverà p. Gemelli ‘laica ma santa’. Estendendo questa dimensione vocazionale a migliaia di giovani donne ha anticipato di fatto la chiamata universale alla santità che il Concilio Vaticano II ha messo di fronte ad ogni credente. Vi sono poi tanti altri aspetti, come l’apostolato liturgico promosso attraverso l’Opera della Regalità, ma sono tutti riconducibili ad idee di fondo: favorire la maturazione del laicato per una più consapevole presenza nella Chiesa e nella società”.
Quindi Armida Barelli è ancora una figura attuale?
“La sua ricerca vocazionale, durata anni, è un primo richiamo a non saltare questo fondamentale passaggio, decisivo per la vita di ciascuno. Chiedere francescanamente al Signore: ‘Cosa vuoi che faccia per la tua Chiesa?’ apre strade inedite, originali in ogni tempo, sollecita la creatività, di ciascuno. Armida chiede alle giovani e ai giovani del nostro tempo di interrogarsi e di scegliere. Ha detto papa Francesco questo ‘è il tempo delle scelte forti, decisive, eterne. Scelte banali portano a una vita banale, scelte grandi rendono grande la vita’. La biografia di Armida Barelli ne è una eloquente testimonianza”.
Quali sono gli aspetti cruciali della sua testimonianza cristiana nella società’?
“La sua è la storia di una giovane che prende sul serio la chiamata del Signore e si pone in ricerca. All’inizio è incerta tra il formare una famiglia numerosa o l’andare missionaria in Cina? Poi viene aiutata a comprendere che è chiamata su una strada nuova: vivere da consacrata nel mondo. La sua missione diviene l’Italia. E questo la apre a una grande responsabilità, a un servizio fecondo nella chiesa e nella società del suo tempo”.
(Tratto da Aci Stampa)
Vocazioni e speranza, la testimonianza di Suor Angelita Guerriero
“Ascoltare la chiamata divina, lungi dall’essere un dovere imposto dall’esterno, magari in nome di un’ideale religioso, è invece il modo più sicuro che abbiamo di alimentare il desiderio di felicità che ci portiamo dentro: la nostra vita si realizza e si compie quando scopriamo chi siamo, quali sono le nostre qualità, in quale campo possiamo metterle a frutto, quale strada possiamo percorrere per diventare segno e strumento di amore, di accoglienza, di bellezza e di pace, nei contesti in cui viviamo”: nel messaggio, intitolato ‘Chiamati a seminare la speranza e costruire la pace’, per la giornata per le vocazioni, che si celebra oggi, papa Francesco invita a creare ambienti adeguati nei quali sperimentare il miracolo di una nuova nascita.
Partendo dall’incipit del messaggio papale a suor Angelita Guerriero, madre generale della Congregazione delle Figlie di San Giuseppe di Rivalba, fondata da don Giuseppe Marchisio, abbiamo chiesto di spiegarci in quale modo si può seminare la speranza e costruire la pace: “Prima di tutto mi piace molto questo titolo. Sono colpita dal verbo ‘seminare’. Anche noi due anni fa, dedicando il nostro anno alle Vocazioni abbiamo deciso di utilizzare questo verbo così: seminando il futuro. Il logo che accompagnava questa frase era la figura di Gesù seminatore su un campo che lasciava intravvedere il castello di Rivalba, in provincia di Torino, da dove inizia tutto e parte l’intuizione carismatica del nostro Fondatore, il parroco di questo paese, il Beato Clemente Marchisio. Condivido moltissimo anche i due termini: Speranza e Pace.
Due parole che desidero fortemente scrivere con la lettera maiuscola iniziale, perché mi piace sottolineare che la speranza e la pace sono ispirate da Dio. Tutti noi siamo chiamati in prima linea ad essere seminatori di questo campo molto tormentato, in questo mondo che non sa più far crescere frutti copiosi per il bene dell’umanità. La speranza di pace è un’emergenza prioritaria oggi, in questo 2024 pieno di conflitti, di odio, di bombe e di distruzione. La soluzione a tutto questo è cambiare il nostro atteggiamento quotidiano. Ognuno di noi deve sentirsi investito da grande responsabilità, deve avvertire il ruolo fondamentale di operatore di speranza e di pace.
Non tocca sempre agli altri l’onere di cambiare il mondo. Dobbiamo sentirci protagonisti di questo miracolo di Bene ispirato da Dio. E la conseguenza più bella di questo cambiamento del cuore sta proprio nel far nascere una nuova domanda nelle giovani generazioni, un desiderio di vita ispirata al Vangelo, un’attrazione nei confronti del messaggio di Gesù Cristo. Solo così possiamo contagiare le persone e far nascere nuove vocazioni. I giovani ci seguiranno e doneranno la propria vita solo se saremo credibili e totalmente impegnate a regalare speranza e pace nelle nostre comunità e sulle nostre strade quotidiane”.
Perché la vocazione fa diventare ‘pellegrine di speranza’?
“Questa è una questione fondamentale che deve interrogarci nel profondo. Avverto spesso un po’ di rassegnazione rispetto ai discorsi che si fanno intorno alla pastorale vocazionale. Questo atteggiamento purtroppo non aiuta le tante belle iniziative che possono essere messe sul campo e che possono attrarre l’attenzione dei giovani. Siamo spesso tanto indaffarate nel nostro pellegrinaggio quotidiano.
Gli impegni si moltiplicano e il lavoro a cui siamo chiamate rischia di schiacciarci in un’operatività che travolge completamente i diversi momenti delle nostre giornate. Corriamo tanto e rischiamo di disperdere la Luce che ci guida e che dobbiamo trasmettere alle persone che incontriamo sulla nostra strada.
Questo è il punto nodale: siamo chiamate a rinnovare il nostro pellegrinaggio. Un cammino che, pur restando intenso, deve contenere in sé anche l’attenzione al cuore delle persone che entrano in relazione con noi. Sono convinta che la Speranza si comunica attraverso uno sguardo nuovo, più attento e riflessivo, che inneschi un dialogo personale profondo. Le nostre giovani non ci chiedono di fare tante cose… ma al contrario desiderano essere qualcosa di più. Hanno sete di Dio che si manifesta attraverso un dialogo intenso, frutto di un incontro di cuori e di tempo dedicato. Solo così può nascere una domanda sul senso della propria vita e delle scelte da affrontare.
In questo modo il nostro pellegrinaggio ha le premesse per diventare fecondo. E la Speranza può innescare una scintilla provvidenziale che può cambiare i cuori. Sono convinta che il desiderio di donare sè stesse continui ad esserci ma spesso manca una sintonia, un richiamo efficace che possa smuovere le coscienze tanto distratte e profondamente stordite da una realtà confusa e spesso solo attenta ai bisogni primari”.
Nel messaggio il papa ha parlato di carisma: ed il vostro?
“Il nostro carisma mette al centro di tutto il Mistero Eucaristico. Gesù Sacramentato è il motore della nostra vita che doniamo per darne testimonianza. Il nostro fondatore, il beato Clemente Marchisio, ci ha indicato un comandamento essenziale: amare e far amare, onorare e far onorare, servire e far servire Dio nel Sacramento dell’Altare. La ‘Figlia di San Giuseppe di Rivalba’ dona la sua vita in totale umiltà e disponibilità al Padre per i fratelli. L’impegno quotidiano è richiamare tutti a dirigere lo sguardo verso il Tabernacolo che assume una centralità non teorica ma fattiva, pratica, che deve risuonare in ogni gesto. Da qui parte tutto.
Il nostro lavoro quotidiano nel produrre le particole che diventeranno il Corpo di Cristo. La nostra cura per i paramenti e la mensa eucaristica nella ricerca del bello non come fatto estetico ma come risonanza di una sacralità che si esprime nell’attenzione di ogni dettaglio nelle celebrazioni eucaristiche. La formazione in parrocchia per condividere e far conoscere la nostra missione tesa a servire il sacerdote celebrante. L’attività parrocchiale nella catechesi e nella animazione di momenti di preghiera e di adorazione eucaristica.
L’accoglienza e la formazione di laici e famiglie che si vogliono consacrare come oblati che affiancano il nostro cammino carismatico nella Chiesa. Una lunga storia che ha radici italiane e che ora crescono anche in Africa (Nigeria) e in America Latina (Brasile, Messico e Argentina). Mi piace ancora ricordare il servizio che si svolge nella Città del Vaticano, dove da 100 anni siamo al servizio della sacrestia di san Pietro. Un lavoro silenzioso che non s’interrompe mai e che svolgiamo con tanta cura e amore per la Chiesa”.
Quanto è importante nella quotidianità l’Eucarestia?
“L’Eucarestia è il vero e unico nutrimento che può cambiare il mondo. Vogliamo comunicarlo a tutti, perché ci si renda conto che l’uomo non può salvare questo pianeta senza il sostegno provvidenziale di Dio. E’ inutile preoccuparci, dobbiamo affidarci! Per questa ragione l’Eucarestia è il richiamo fortissimo ad entrare in una nuova visione della vita che non ci veda al centro dell’universo ma ci regali la consapevolezza di essere creature ad immagine e somiglianza del Creatore. In definitiva dobbiamo passare da io a Dio”.
Nel mese scorso si è aperto un anno dedicato al fondatore: perché è l’Anno del Marchisio?
“L’Anno del Marchisio chiude un triennio molto importante per la nostra congregazione. Siamo partiti con l’Anno Vocazionale avente per slogan ‘Seminando il futuro’. Siamo passati all’Anno dedicato all’Eucarestia: ‘Illuminando il presente’. Lo scorso 19 marzo è iniziato l’Anno dedicato al fondatore, il beato Clemente Marchisio, con la frase che completa il triennio: ‘Rivivendo il passato’.
Desideriamo ritornare alle nostre radici, senza inutili nostalgie, ma con l’impegno di recuperare l’ardore carismatico iniziale che sfida il tempo, i secoli e i cambiamenti di costume. Il Vangelo è l’unica vera notizia che non conosce il passare del tempo. E’ sempre nuova per ciò che stiamo vivendo! Tutto questo ci porterà al 2025 in cui ci saranno le celebrazioni per i 150 anni di fondazione della Congregazione”.
Per quale motivo egli fonda la famiglia delle Figlie di san Giuseppe di Rivalba?
“Il Beato Clemente Marchisio è il parroco di Rivalba, un piccolo paese poco lontano da Torino. E’ un pastore di anime che vive nel cuore dell’Ottocento. Si rende conto della condizione delle donne nella sua comunità di Rivalba e nello stesso tempo vuole contribuire a tenere viva la cura della liturgia in tutti i suoi aspetti. Mette insieme queste due esigenze e fonda una nuova famiglia religiosa femminile che possa avere come centro di vita l’Eucarestia, come valore assoluto a cui riferirsi.
La cura quotidiana di tutto ciò che riguarda il tabernacolo e l’altare (produzione di particole, vino, paramenti religiosi ed ogni aspetto della liturgia e della formazione delle persone che desiderano vivere le diverse celebrazioni nella Chiesa) è il centro della vita di questa congregazione. 150 anni fa coinvolge un primo gruppo di donne a cui affida questi servizi, coinvolgendole, formandole per consacrarle ad un nuovo stile di vita che ancora oggi prosegue il cammino nell’Italia e nel mondo”.
(Tratto da Aci Stampa)