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Cei ed Aiuto alla Chiesa che Soffre stanziano € 2.000.000 per il supporto in Libano
La Presidenza della CEI, ha stanziato € 1.000.000 dai fondi dell’8xmille, che i cittadini destinano alla Chiesa cattolica, per far fronte alle necessità della popolazione del Libano. L’erogazione, attraverso il Servizio per gli interventi caritativi per lo sviluppo dei popoli, servirà a fornire accoglienza e assistenza umanitaria alle centinaia di migliaia di profughi e sfollati, assicurando aiuti d’urgenza in ambito alimentare e socio-sanitario, supporto psicosociale e accompagnamento.
In questo modo sarà possibile rispondere alle numerose richieste della Caritas e di altri enti e soggetti ecclesiali locali, già impegnati sul territorio, con i quali negli ultimi 30 anni sono stati realizzati 143 progetti di sviluppo in diversi settori per quasi € 34.000.000, sempre con il sostegno della CEI, come ha affermato l’arcivescovo di Bologna, card. Matteo Zuppi, presidente della CEI:
“Le Chiese in Italia si uniscono al grido del Santo Padre per esprimere ai fratelli e alle sorelle del Libano e di tutto il Medio Oriente vicinanza e solidarietà: siamo con voi! Mentre continuiamo a invocare il dono della pace, ci rivolgiamo a quanti hanno responsabilità politiche affinché tacciano le armi e si imbocchi la via del dialogo e della diplomazia. Al contempo, ci facciamo prossimi concretamente a quanti vivono sulla propria pelle il dramma della guerra e della violenza”.
Infatti la Chiesa italiana è accanto alla popolazione locale, come racconta il dossier ‘Libano: nel buio della notte’ che, con dati e testimonianze, fa il punto sui 143 progetti finanziati dal 1991 attraverso il Servizio per gli interventi caritativi per lo sviluppo dei popoli. Con quasi € 34.000.000 provenienti dai fondi 8xmille sono state sostenute iniziative in diversi settori, in particolare istruzione e accompagnamento di bambini e ragazzi, formazione e sensibilizzazione per educare alla pace e alla convivenza, inclusione, sanità, attività per lo sviluppo integrato economico e sociale.
Significativo l’impegno per percorsi di uscita dalla tossicodipendenza e di sostegno e inclusione comunitaria delle persone con disabilità. Pronte anche le risposte a situazioni di emergenza come l’assistenza umanitaria ai profughi e agli sfollati e aiuti d’urgenza, supporto psicosociale, formazione, accompagnamento.
Il dossier traccia un quadro economico e politico, che ha colpito il Libano negli ultimi 5 anni: “Duramente provato da cinque anni di crisi finanziaria e dalla paralisi istituzionale, il Libano è ancora una volta teatro di guerra. Dopo il conflitto del 1982 e quello del 2006, da cui è uscito in ginocchio, il Paese si trova di nuovo al centro di bombardamenti e operazioni militari che hanno causato finora più di 1200 morti e centinaia di migliaia di sfollati.
Gli scontri (intensificatisi a seguito dell’uccisione del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah) hanno provocato morte e distruzione che vanno ad aggravare le condizioni socioeconomiche già precarie. In un Rapporto di maggio 2024 la Banca Mondiale ha rilevato che negli ultimi dieci anni la popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà è passata dal 12 al 44%, con sproporzioni a livello geografico e punte del 70% (come nel distretto settentrionale di Akkar, al confine con la Siria).
Già prima del recente inasprimento del conflitto, gli scontri tra Hezbollah e l’esercito israeliano nel sud del Paese avevano causato 95.000 sfollati e, secondo il Ministero dell’Agricoltura, i bombardamenti avevano distrutto quasi 2.000 ettari di terra, con danni a proprietà e infrastrutture che si aggirano attorno a $ 1.500.000.000.
Da due anni il Libano si trova con un governo dimissionario e senza un Capo di Stato. La paralisi politica ha impedito l’elezione del successore di Michel Aoun, il cui mandato da Presidente della Repubblica è scaduto a ottobre 2022. Gli scontri tra Hezbollah e l’esercito israeliano hanno cristallizzato una polarizzazione tra il partito-milizia ed i suoi rivali politici locali. A ciò si aggiunge la decisione di rinviare, per la terza volta in tre anni, le elezioni municipali.
Oltre ai campi con rifugiati palestinesi, il Libano ospita inoltre circa 2.000.000 di siriani. Nei confronti di questi ultimi, in un clima di crescente tensione, a maggio 2024 si sono inserite nuove misure restrittive. Più di 50.000 libanesi e siriani che vivono in Libano sono già entrati in Siria a causa dell’acuirsi del conflitto”.
Nell’introduzione, riprendendo gli appelli dei papi per il Libano, il dossier chiede un deciso impegno della diplomazia internazionale: “In un Medio Oriente sempre più in fiamme, c’è bisogno dell’impegno deciso della diplomazia e della comunità internazionale, ma anche di un lavoro educativo e solidale nella quotidianità con iniziative concrete nel segno del dialogo, per aiutare la popolazione libanese a rialzarsi e a mantenere sempre accesa la speranza di tornare ad essere un progetto di pace.
Il futuro sarà pacifico solo se comune. Lo sanno bene quanti ogni giorno danno concretezza alla cultura dell’incontro, del vivere insieme nella pace e nella fratellanza tra tutte le tradizioni religiose. In queste pagine vogliamo dar voce a loro, operatori di concordia e di rinnovamento. Occorre attraversare la notte per giungere all’alba, ma attingendo alle radici del vivere insieme nel rispetto e nel pluralismo: il popolo libanese, come il cedro, saprà resistere anche a questa tempesta e ritornare a seminare pace”.
Anche Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs) ha annunciato una campagna di emergenza per raccogliere almeno € 1.000.000 per aiutare la Chiesa in Libano, avendo già contattato le sette diocesi e le cinque congregazioni religiose più direttamente coinvolte nelle operazioni di soccorso e sta raccogliendo i fondi necessari per soddisfare i loro bisogni, che nella maggior parte dei casi includono cibo, prodotti sanitari, materassi e coperte, farmaci e altri beni di prima necessità.
Molti dei cristiani nel sud del Libano sono agricoltori rimasti senza reddito a causa della distruzione dei loro campi e delle loro piantagioni. Anche le scuole cattoliche, la maggior parte delle quali ha aperto le lezioni online, avranno bisogno di assistenza poiché i genitori, nelle regioni più colpite dalla guerra, a causa della mancanza di reddito faranno fatica a pagare le tasse scolastiche.
Sebbene la crisi stia colpendo l’intero Paese, le aree più minacciate si trovano nelle regioni di confine tra Israele e Libano. I cristiani costituiscono una parte significativa della popolazione di quest’area e ne sono direttamente colpiti. Per migliaia di loro salvarsi significa rompere i legami familiari, poiché le madri e i figli cercano rifugio nelle strutture della Chiesa o nelle case dei parenti in zone più sicure, mentre i padri restano nella casa di famiglia per prevenire il furto di proprietà.
Per non dimenticare il naufragio di Lampedusa
Dal 2014, i morti e dispersi nel Mediterraneo sono stati in media circa 8 al giorno, pari a oltre 30.300 (secondo i dati di ‘Mediterranean/Missing Migrants Project’), molti dei quali bambini, bambine e adolescenti. In un contesto mondiale sempre più incerto, caratterizzato da guerre, persecuzioni, violenze, povertà estrema, crisi umanitarie, chi fugge per raggiungere un futuro possibile in Europa continua a rischiare la propria vita e quella dei propri figli, in mancanza di vie legali e sicure.
E per l’ong Save the Children, che ricorda oggi il naufragio avvenuto al largo di Lampedusa nel 2013, non è cambiato nulla: “Undici anni dopo il drammatico naufragio del 3 ottobre 2013 davanti alle coste di Lampedusa, in cui morirono 368 persone, purtroppo poche cose sono cambiate. In questi anni si sono susseguite le notizie di imbarcazioni affondate e di persone annegate, tra le quali troppo spesso vi erano bambini e bambine”.
Per scongiurare il ripetersi di tali tragedie, l’Organizzazione non Governativa continua a chiedere l’apertura di canali regolari e sicuri per raggiungere l’Europa e un’assunzione di responsabilità condivisa dell’Italia, degli altri Stati membri dell’Unione Europea e delle istituzioni europee affinché attivino un sistema coordinato e strutturato di ricerca e soccorso in mare per salvare le persone in pericolo, agendo nel rispetto dei principi internazionali e dando prova di quella solidarietà che è valore fondante dell’Unione Europea:
“Con guerre e conflitti che avanzano in maniera estremamente rapida, quella a cui assistiamo con profondo rammarico è una mancanza di impegno nei confronti dei trattati internazionali e del sistema globale di protezione dei rifugiati, richiedenti asilo da parte delle istituzioni europee e degli Stati Membri. L’approccio securitario e l’irrigidimento dei confini non fanno che rendere le condizioni di bambini e adolescenti, e tra loro dei minori stranieri non accompagnati, più precarie e pericolose”.
Infatti nella scorsa primavera il Parlamento ed il Consiglio europeo hanno approvato il pacchetto di riforme del Patto europeo Asilo e Migrazione, norme che minano il diritto di asilo di minori e famiglie, come ha dichiarato Antonella Inverno, responsabile ‘Ricerca, Analisi e Formazione’ di Save the Children: “L’Unione e gli Stati membri dovrebbero ora concentrarsi sulla sua attuazione con un approccio incentrato sul rispetto dei diritti umani e dei diritti dei minori. Al contrario assistiamo alla stipula di accordi, come quello con l’Albania, che mettono le persone a rischio di detenzione prolungata e automatica, di mancato accesso a procedure di asilo eque e di ritardato sbarco. Le frontiere interne ed esterne dell’Unione Europea sono diventate luoghi di transito pericolosi, dove violenze, soprusi e violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno, così come accade sulle rotte che conducono in Europa”.
Quindi i dati: in quest’anno sono giunte in Italia via mare 48.646 persone rifugiate e migranti, di cui 5.542 minori stranieri non accompagnati; e nel sistema di accoglienza italiano al 31 agosto 2024 risultano presenti 20.039 minori stranieri non accompagnati-Msna, in calo rispetto al 31 agosto 2023, quando ce n’erano 22.599, ma in aumento rispetto allo stesso periodo di rilevazione del 2022 (17.668), secondo il secondo il ‘Cruscotto’ del Ministero dell’Interno aggiornato al 28 settembre.
Così nell’isola è stato realizzato, all’interno dell’hotspot di Contrada Imbriacola, in accordo con il Dipartimento ‘Libertà Civili’ del Ministero dell’Interno e la Prefettura di Agrigento, uno Spazio Sicuro a misura di minori, giovani donne e madri gestito da Save the Children, in partnership con Unicef e in collaborazione con Unhcr e con ‘D.i.Re’, nell’ambito del progetto Leaving Violence. Le attività sono realizzate in cooperazione con la Croce Rossa Italiana, ente gestore dell’hotspot.
Anche il ‘Safe Space’ è uno spazio a misura di minori, adolescenti e donne, volto a fornire supporto anche psicosociale a persone in situazioni di vulnerabilità. Rappresenta un luogo sicuro dove bambini e bambine possono giocare, partecipare alle attività, conoscere i loro diritti, interagire, socializzare, esprimere le loro opinioni, ma anche un luogo focalizzato sul supporto al ruolo genitoriale, sull’identificazione dei minori vulnerabili e delle famiglie che hanno bisogno di ulteriore sostegno.
Il papa ai professori: la cultura non è settaria
“Sono lieto di trovarmi qui in mezzo a voi e ringrazio il Rettore per le sue parole di benvenuto, con le quali ha ricordato la storia e la tradizione in cui questa Università è radicata, come pure alcune delle principali sfide odierne da cui siamo tutti interpellati. E’ questo il primo compito dell’Università: offrire una formazione integrale perché le persone ricevano gli strumenti necessari a interpretare il presente e a progettare il futuro”:
nel pomeriggio il papa ha incontrato i professori dell’Università ‘Katholieke Universiteit Leuven’ rispondendo alle questioni sollevate nel saluto di benvenuto dal rettore Luc Sels, avendo prima visitato le Piccole Sorelle dei Poveri nella Casa Saint-Joseph, che dal 1856 accoglie anziani poveri e di modesto reddito.
Il papa ha incentrato l’intervento sulla formazione culturale: “La formazione culturale, infatti, non è mai fine a sé stessa e le Università non devono correre il rischio di diventare delle ‘cattedrali nel deserto’; esse sono, per loro natura, luoghi propulsori di idee e di stimoli nuovi per la vita e il pensiero dell’uomo e per le sfide della società, cioè spazi generativi”.
Compito dell’Università è quello di promuovere la cultura: “E’ bello pensare che l’Università genera cultura, genera idee, ma soprattutto promuove la passione per la ricerca della verità, al servizio del progresso umano. In particolare, gli Atenei cattolici, come questo, sono chiamati a ‘portare il decisivo contributo del lievito, del sale e della luce del Vangelo di Gesù Cristo e della Tradizione viva della Chiesa sempre aperta a nuovi scenari e a nuove proposte’.
Desidero allora rivolgervi un semplice invito: allargare i confini della conoscenza! Non si tratta di moltiplicare le nozioni e le teorie, ma di fare della formazione accademica e culturale uno spazio vitale, che comprende la vita e parla alla vita”.
Prendendo spunto dall storia del Libro delle Cronache il papa ha sottolineato la necessità di aprire gli orizzonti culturali: “Allargare i confini e diventare uno spazio aperto per l’uomo e per la società è la grande missione dell’Università. Nel nostro contesto, infatti, ci troviamo davanti a una situazione ambivalente, in cui i confini sono ristretti. Da una parte, siamo immersi in una cultura segnata dalla rinuncia alla ricerca della verità”.
E’ un invito alla ricerca: “Abbiamo perduto l’inquieta passione del cercare, per rifugiarci nella comodità di un pensiero debole (il dramma del pensiero debole!), per rifugiarci nella convinzione che tutto sia uguale, che una cosa valga l’altra, che tutto sia relativo. Dall’altra parte, quando nei contesti universitari e anche in altri ambiti si parla della verità, si scade spesso in un atteggiamento razionalista, secondo cui può essere considerato vero soltanto ciò che possiamo misurare, sperimentare, toccare, come se la vita fosse ridotta unicamente alla materia e a ciò che è visibile. In tutti e due i casi i confini sono ristretti”.
Ed ha parlato di ‘stanchezza dello spirito’, citando Kafka: “Questo sentimento emerge spesso in alcuni personaggi delle opere di Franz Kafka, che ha descritto la condizione tragica e angosciante dell’uomo del Novecento. In un dialogo tra due personaggi di un suo racconto, troviamo questa affermazione: ‘Credo che lei non si occupi della verità soltanto perché è troppo faticosa’.
Cercare la verità è faticoso, perché ci costringe a uscire da noi stessi, a rischiare, a farci delle domande. E quindi ci affascina di più, nella stanchezza dello spirito, una vita superficiale che non si pone troppi interrogativi; così come allo stesso modo ci attira di più una ‘fede’ facile, leggera, confortevole, che non mette mai nulla in discussione”.
L’altro aspetto riguarda un ‘razionalismo senz’anima’, citando Romano Guardini: “Quando si riduce l’uomo alla sola materia, quando la realtà viene costretta dentro i limiti di ciò che è visibile; quando la ragione è soltanto quella matematica, quando la ragione è quella ‘da laboratorio’, allora viene meno lo stupore (e quando manca lo stupore non si può pensare; lo stupore è l’inizio della filosofia, è l’inizio del pensiero), viene meno quella meraviglia interiore che ci spinge a cercare oltre, a guardare il cielo, a scovare nella verità nascosta che affronta le domande fondamentali”.
Infine ha ringraziato l’università per l’accoglienza dei rifugiati: “Grazie perché, allargando i confini, vi siete fatti spazio accogliente per tutti i rifugiati che sono costretti a fuggire dalle loro terre, tra mille insicurezze, enormi disagi e sofferenze a volte atroci. Grazie.
Abbiamo visto poco fa, nel video, una testimonianza molto toccante. E mentre alcuni invocano il rafforzamento dei confini, voi, in quanto comunità universitaria, i confini li avete allargati. Grazie. Avete aperto le braccia per accogliere queste persone segnate dal dolore, per aiutarle a studiare e a crescere. Grazie”.
L’appello del papa è stato un invito a non essere ‘settari’: “Ci serve questo: una cultura che allarga i confini, che non è ‘settaria’ (e voi non siete settari, grazie!) né si pone al di sopra degli altri ma, al contrario, sta nella pasta del mondo portandovi dentro un lievito buono, che contribuisce al bene dell’umanità. Questo compito, questa ‘speranza più grande’, è affidata a voi!”
(Foto: Santa Sede)
Il presidente di Athletica Vaticana: le Olimpiadi per costruire ponti di pace
Aperti i Giochi Olimpici che si svolgono a Parigi fino a domenica 11 agosto, papa Francesco ha scritto un messaggio all’arcivescovo di Parigi, mons. Laurent Ulrich, invitando le comunità cristiane all’accoglienza: “So, infatti, che le comunità cristiane si preparano ad aprire ampiamente le porte delle loro chiese, delle loro scuole, delle loro case. Soprattutto aprano le porte del loro cuore, testimoniando, con la gratuità e la generosità dell’accoglienza verso tutti, il Cristo che li abita e che comunica loro la sua gioia”.
Nel messaggio la speranza di superare le contrapposizioni attraverso lo sport: “I Giochi Olimpici, se restano davvero ‘giochi’, possono quindi essere un luogo eccezionale di incontro tra le persone, anche le più ostili. I cinque anelli intrecciati rappresentano questo spirito di fraternità che deve caratterizzare l’evento olimpico e la competizione sportiva in generale”.
Infine il papa aveva sottolineato la necessità di una tregua olimpica: “E’ con questo spirito che l’Antichità stabilì saggiamente una tregua durante i Giochi e che l’età moderna tenta regolarmente di riprendere questa felice tradizione. In questo periodo travagliato in cui la pace nel mondo è seriamente minacciata, auspico vivamente che tutti siano desiderosi di rispettare questa tregua nella speranza di una risoluzione dei conflitti e di un ritorno all’armonia”.
Per comprendere veramente lo spirito olimpico abbiamo chiesto al presidente di Athletica Vaticana, dott. Giampaolo Mattei, di illustrarci l’anima delle Olimpiadi e delle Paralimpiadi, che inizieranno lunedì 12 agosto: “Ai Giochi di Tokyo, nel 2021, il Comitato olimpico internazionale ha aggiunto la parola ‘Communiter’ (‘Insieme’) al celebre motto olimpico (‘Più veloce, più in alto, più forte’), coniato per Pierre de Coubertin dal domenicano francese Henri Didon. Oggi più che mai l’anima delle Olimpiadi e delle Paralimpiadi è proprio l’esperienza di fare sport ‘communiter’.
Del resto, scrive papa Francesco nella prefazione del libro ‘Giochi di pace’, pubblicato su iniziativa di Athletica Vaticana, ‘la Carta olimpica indica il principio della centralità della persona nella sua dignità e si impegna a contribuire alla costruzione di un mondo migliore, senza guerre, educando i giovani attraverso lo sport praticato senza discriminazioni, in uno spirito di amicizia e solidarietà.
E’ nell’anima dell’attività sportiva unire e non dividere e i cinque anelli intrecciati, simbolo e bandiera dei Giochi olimpici, stanno proprio a rappresentare lo spirito di fratellanza che deve caratterizzare la manifestazione olimpica e la competizione sportiva in generale’”.
Veramente le Olimpiadi sono giochi di pace?
“Lo sport è, senza dubbio, l’espressione culturale più popolare e diffusa nel mondo. Nella sua essenza è esperienza di fraternità e di pace. I Giochi però sono legati a sangue (Monaco 1972) ed a boicottaggi che hanno impedito la partecipazione di tutti. Con questa consapevolezza, è opportuno rilanciare la proposta di vivere le Olimpiadi e le Paralimpiadi con lo stile ‘communiter’. E così la parola-chiave per lo sport, oggi più che mai, è ‘vicinanza’. Nella prefazione di ‘Giochi di pace’ il papa scrive che ‘vicinanza’ è ‘il primo suggerimento che, come allenatore del cuore’, propongo sempre ad Athletica Vaticana per delineare l’essenza della sua presenza di condivisione: correndo o pedalando o giocando insieme con tutti gli sportivi’”.
‘Ripensando al valore della tregua olimpica, la mia speranza è che lo sport possa concretamente costruire ponti, abbattere barriere, favorire relazioni di pace’: ha scritto papa Francesco. Lo sport può veramente costruire ponti?
“Non c’è dubbio che lo sport olimpico e paralimpico (con le sue appassionanti storie umane di riscatto e di fraternità, di sacrificio e di lealtà, di spirito di gruppo e di inclusione) possa essere anche un originale canale diplomatico per saltare ostacoli apparentemente insormontabili, ‘mettendo insieme talenti diversi anche per costruire una società migliore, più giusta’ rilancia Francesco: ‘Quando si fa sport insieme non importa la provenienza, la lingua o la cultura o la religione di una persona. Questo è anche un insegnamento per la nostra vita e ci richiama alla fraternità tra le persone, aldilà delle loro abilità fisiche, economiche o sociali’. E questa è una proposta di pace, proprio attraverso l’esperienza sportiva che ha nelle Olimpiadi e nelle Paralimpiadi la sua massima espressione”.
Anche quest’anno alle Olimpiadi c’è una squadra di rifugiati: quale è il significato per il mondo?
“La partecipazione (per la terza edizioni dei Giochi) di un Team olimpico e paralimpico composto da rifugiati è un progetto di pace ed un’esperienza di inclusione, non solo simbolica. Ed è anche motivo di speranza per tutte le persone rifugiate, sfollate. E’ un po’ ‘la squadra di tutti’. Le storie delle atlete e degli atleti che ne fanno parte sono impressionanti: molti vivono nei campi profughi e lo sport è motivo di riscatto non solo personale: dalla nuotatrice olimpionica siriana che spinge il gommone in mare aperto fino all’isola di Lesbo mettendo in salvo 18 persone, al nuotatore afghano nato senza braccia che diventa campione paralimpico”.
Dal 1960 dopo le Olimpiadi si svolgono sempre le Paralimpiadi: con quale visibilità?
“L’obiettivo del movimento paralimpico non è soltanto celebrare un grande evento, ma dimostrare quello che persone, pur fortemente ferite nella vita, riescono a raggiungere quando sono messe nelle condizioni di poterlo fare. E se vale per lo sport, tanto più deve valere per la vita. Con una significativa nota: all’inizio del secolo scorso le prime gare sportive con la partecipazione di atleti con disabilità si sono svolte in Vaticano, davanti a papa Pio X. L’Osservatore Romano ha documentato fin nei dettagli quelle straordinarie esperienze di inclusione, con atleti non vedenti e amputati, mezzo secolo prima delle Paralimpiadi a Roma”.
Per quale motivo una squadra di atleti vaticani?
“Athletica Vaticana è l’associazione polisportiva ufficiale della Santa Sede. Ha detto papa Francesco, lo scorso 13 gennaio, ricevendo la ‘sua’ squadra: ‘Con uno stile improntato alla semplicità, Athletica Vaticana si impegna a promuovere la fraternità, l’inclusione e la solidarietà, testimoniando la fede cristiana tra le donne e gli uomini di sport, amatori e professionisti’. Non si tratta, quindi, di ‘fare sport e basta’ ma di costruire insieme un’esperienza di comunità tra persone negli stadi, nei campi, nelle piste e nelle palestre”.
(Tratto da Aci Stampa)
Henri, in esilio senza fine a Niamey
La terza guerra mondiale in realtà c’è già stata e non accenna a terminare. Solo che i riflettori erano puntati altrove, su mondi e morti più importanti. Morire nel Congo della Repubblica Democratica, l’ex. Zaire di Mobutu Sese Seko, non è la stessa cosa che altrove dove la statua al milite ignoto glorifica gli eroi e i martiri della libertà. Nulla di tutto ciò per gli stimati 10.000.000 di morti e delle 500.000 donne violentate strada facendo nel Congo.
Lo ‘scandalo geologico’ della RDC, che possiede i migliori giacimenti delle terre ‘rare’ per l’elettronica e l’informatica, ha solo facilitato il protrarsi delle guerre telecomandate dall’esterno e pagate a caro prezzo all’interno. Le coalizioni di vari Paesi africani e appoggi, in soldi, armi e logistica delle Grandi Potenze con interessi sul campo, hanno creato in questi anni una lunga guerra senza fine.
Per questo motivo, come tanti altri, Henri ha abbandonato una delle regioni più sfortunatamente ricche del suo Paese, la Repubblica Democratica del Congo, all’età 22 anni e. da allora, non vi è più tornato. Ha visto massacrare chi scappava dal martoriato Ruanda e poi, strada facendo, la nascita e lo sviluppo di gruppi armati al soldo di ditte e potenze straniere ‘affamate’ di risorse minerarie. Henri si trova a Niamey, col doppio degli anni dal giorno del suo esodo dal Paese natale e non è neppure riconosciuto dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.
Ha smesso di esistere dal punto di vista giuridico. Non è ‘rifugiato’, non è ‘migrante’, non è ‘sfollato’, non ha lavoro, non ha famiglia, non ha identità e solo gli rimane ciò che si ostina a chiamare un futuro. Per arrivare nel Benin, dove ha soggiornato per 11 anni con lo statuto di rifugiato, aveva attraversato il Centrafrica, il Cameroun e la Nigeria. Alla fine le autorità, per ragioni politiche, hanno ritenuto che il suo statuto non era più sostenibile e allora Henri è partito in Ghana pensando di avere migliore fortuna con l’Alto Commissariato per i Rifugiati basato a Ginevra, in Svizzera.
Pensa dunque di prendere il proprio destino in mano per tentare di attraversare il mare di Mezzo che osserva con timore coloro che hanno l’ardire sfidarne il mistero. Abbandona dunque il Ghana e, con un lungo viaggio, raggiunge l’Algeria, una delle sponde del Mediterraneo. Ivi Henri è arrestato, detenuto e infine deportato alla frontiera col Niger e, nel 2019, è accolto dall’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni.
Siccome Henri non vuole tornare nella sua regione di origine ancora in guerra, per motivi umanitari è affidato all’Alto Commissariato per i Rifugiati. Passa altri 4 anni come richiedente asilo in un campo-villaggio non lontano da Niamey chiamato Hamdallay, per vedere, infine, la sua domanda di asilo definitivamente respinta. L’istituzione gli offre una modica somma di denaro come ‘liquidazione’e Henri trova una camera da affittare in uno dei nuovi quartieri alla periferia della capitale, Niamey 2000.
La vita di Henri, nel suo cercare invano una terra d’asilo a causa della guerra permanente nel suo paese appare come una delle metafore del nostro tempo. Entrambi, lui, il suo Paese e milioni di persone celebrano nel complice e assordante silenzio del mondo che conta, un esilio senza fine. Henri abita in uno dei quartieri del futuro di Niamey perché, in quella zona, gli affitti sono meno cari.
Accanto ai migranti e ai rifugiati
Fino a lunedì 17 giugno sono sbarcate sulle coste italiane 23.725 persone migranti; mentre nello stesso periodo dello scorso anno furono 55.902 e nel 2022 furono 23.920, secondo i dati del Ministero degli Interni. Degli oltre 23.700 migranti sbarcati in Italia nel 2024, 4.839 sono di nazionalità bengalese (20%), sulla base di quanto dichiarato al momento dello sbarco; gli altri provengono da Siria (3.427, 14%), Tunisia (3.135, 13%), Guinea (1.897, 8%), Egitto (1.503, 6%), Pakistan (939, 4%), Mali (837, 4%), Gambia (823, 4%), Costa d’Avorio (679, 3%), Sudan (636, 3%) a cui si aggiungono 5.010 persone (21%) provenienti da altri Stati o per le quali è ancora in corso la procedura di identificazione.
Inoltre sono stati 3.197 i minori stranieri non accompagnati ad aver raggiunto l’Italia: i minori stranieri non accompagnati sbarcati sulle coste italiane nel 2023 sono stati 18.820, 14.044 nel 2022, 10.053 nel 2021, 4.687 nel 2020, 1.680 nel 2019, 3.536 nel 2018 e 15.779 nel 2017.
Nel mondo nello scorso anno 117.300.000 persone sono state costrette a fuggire dal proprio Paese a causa di persecuzioni, conflitti, violenze e violazioni dei diritti umani, 1 persona su 69 a livello globale, secondo il Rapporto Global Trends dell’UNHCR, l’Agenzia ONU per i Rifugiati.
Negli ultimi dieci anni il numero di persone in fuga è più che raddoppiato; rispetto al 2022 si è registrato un aumento dell’8%, ossia 8.800.000 persone in più; un trend in salita confermato dai dati registrati nei primi quattro mesi del 2024, in cui la popolazione mondiale in fuga ha raggiunto il drammatico record di 120.000.000, secondo quanto calcolato dal Centro Astalli dei Gesuiti.
Alla fine del 2023 è di 43.400.000 il numero complessivo di rifugiati e di altre persone bisognose di protezione internazionale, di cui 31.600.000 sotto il mandato dell’UNHCR e 6.000 sotto il mandato dell’UNRWA (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente). La maggior parte della popolazione rifugiata (69%) vive nei Paesi limitrofi a quelli di origine e oltre il 75% risiede in Paesi a basso e medio reddito.
Oltre il 73% dei rifugiati proviene da soli cinque Paesi: Siria (6.400.000), Afghanistan (6.400.000), Venezuela (6.100.000), Ucraina (6.000.000) e Sudan (1.500.000). La popolazione di rifugiati più numerosa al mondo è quella afghana e risiede principalmente nella Repubblica Islamica dell’Iran (3.800.000) e nel Pakistan (2.000.000).
La Repubblica Islamica dell’Iran è il Paese che ospita il maggior numero di persone rifugiate al mondo (3.800.000), seguito da Turchia (3.300.000), Colombia (2.900.000), Germania (2.600.000) e Pakistan (2.000.000).
Alla fine del 2023 il numero di persone titolari di protezione internazionale in Italia era 138.000, mentre 147.000 quello dei richiedenti asilo ed oltre 161.000 quello dei cittadini ucraini titolari di protezione temporanea. Circa 3.000 erano le persone apolidi presenti sul territorio italiano.
A livello globale il numero di persone sfollate internamente è aumentato di oltre il 50% in soli 5 anni: 68.300.000 persone sono state costrette ad abbandonare la propria casa. Tra le principali cause di questo notevole incremento del numero di sfollati interni è il conflitto in Sudan, esploso nell’aprile dello scorso anno, che ha causato oltre 7.100.000 di nuovi sfollati all’interno del Paese ed 1.900.000 di rifugiati sudanesi in fuga nei Paesi limitrofi come Ciad (923.300) e Sud Sudan (359.600).
Nella Repubblica Democratica del Congo i continui scontri nella provincia del Nord Kivu nel nord-est del Paese hanno causato oltre 2.800.000 di sfollati interni. In Myanmar la violenza diffusa e la continua violazione dei diritti umani hanno provocato lo sfollamento di 1.300.000 persone; inoltre, secondo le stime dell’UNRWA, alla fine del 2023 nella Striscia di Gaza la popolazione sfollata ammontava a più di 1.700.000 persone (oltre il 75% della popolazione).
Infine, oltre ai conflitti e alla violazione dei diritti umani, tra le cause che costringono alla fuga un numero sempre più alto di persone in fuga c’è la crisi climatica: sono 7.700.000 le persone messe in fuga dall’avvento di eventi metereologici estremi sempre più frequenti, dovuti agli effetti devastanti del cambiamento climatico.
Per questo dal 1991, attraverso il servizio per gli interventi caritativi per lo sviluppo dei popoli, la Chiesa cattolica italiana, grazie ai fondi dell’8xmille, ha cercato di accompagnarle e dare loro conforto finanziando 166 progetti specificamente a favore di migranti e rifugiati in 31 Paesi per un totale di oltre € 31.500.000.
Nell’ultimo Rapporto del ‘Norwegian Refugee Council’ (NRC), pubblicato lo scorso 3 giugno sono elencate le dieci crisi di sfollati più dimenticate al mondo, con numeri in aumento e bisogni crescenti. Si tratta sempre di emergenze croniche, con migrazioni, violenza, fame e mancanza di servizi essenziali: 9 riguardano Paesi africani e una l’Honduras dove (a causa della violenza diffusa, del crimine organizzato e degli shock climatici) ben 3.200.000 persone necessitano di aiuti umanitari. La Chiesa locale da oltre 30 anni sostiene i migranti, gli sfollati, i rifugiati e le famiglie nei loro bisogni fondamentali e nel richiedere il rispetto dei loro diritti.
Per la Cei spesso i rifugiati sono costretti a vivere per anni, decenni, in campi profughi in condizioni precarie, come a Kakuma, nel nord del Kenya, vicino al confine con l’Uganda e il Sud Sudan, che ha raccolto il racconto di Mary, fuggita dal Sud Sudan: Mio marito è morto durante gli scontri. Una notte hanno attaccato il nostro villaggio. Allora ho preso tutti i miei figli con me, abbiamo raccolto quel poco che ci era rimasto e siamo scappati. Ho avvolto in fasce intorno al mio corpo il più piccolo che aveva pochi mesi e quello poco più grande di lui l’ho caricato sulle spalle. I cinque figli più grandi camminavano con me, cercando di rimanermi il più vicino possibile. Abbiamo camminato per mesi; ogni tanto siamo riusciti a fermarci per qualche settimana cercando di recuperare le forze, qualcosa da mangiare e soprattutto qualche soldo per continuare il viaggio. Siamo arrivati al campo di Kakuma dopo circa quattro mesi”.
Nel dolore e nella sofferenza fiorisce comunque la solidarietà e la Chiesa cattolica cerca di mantenere accesa la speranza nella storia di tante persone, come ad Ankawa, l’unico quartiere cristiano alla periferia di Erbil, nel Kurdistan iracheno. Nell’estate del 2014 la zona è stata al centro dell’attenzione internazionale: circa 75.000 sfollati sono arrivati lì per scappare dall’Isis. Nonostante la drammaticità della situazione l’arcivescovo cattolico caldeo, Bashar Warda, è riuscito a far crescere un grande seme di speranza, realizzando, grazie anche al sostegno della Chiesa italiana, l’Università di Erbil. Dopo 10 anni l’Università ha 11 corsi di laurea altamente correlati al mercato del lavoro, 590 studenti (24% musulmani, 14% yazidi), il 59% donne.
La Chiesa italiana sostiene la popolazione del Myanmar
Restare accanto a quanti soffrono, sostenere le comunità locali, incoraggiare i giovani con iniziative nel campo educativo e professionale, promuovere un processo di riconciliazione. Sono queste le principali sfide che la Chiesa si trova ad affrontare in Myanmar, un Paese alle prese con una crisi politica prolungata, con scontri e violenze tra le truppe del governo militare e gruppi etnici armati, con milioni di sfollati e ingenti danni provocati dalle calamità naturali. A questo si aggiunge la drammatica situazione dei Rohingya, i musulmani del Rakhine, rifugiati nei campi profughi in Bangladesh da dove molti cercano di fuggire, spesso perdendo la vita.
Quindi dopo quello su Haiti, il Servizio per gli interventi caritativi per lo sviluppo dei popoli, in collaborazione con l’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, presenta il dossier ‘Myanmar, abbracciare l’alba della pace’ che racconta, attraverso dati e testimonianze, l’impegno della Chiesa in Italia. Sul campo operano religiose, sacerdoti e volontari che, con i vescovi, cercano ogni giorno di ravvivare la speranza e lo spirito di solidarietà tra la popolazione cattolica ed appartenente ad altre religioni.
Dal 1991, la Chiesa italiana ha sostenuto interventi in Myanmar per circa € 23.000.000, inclusi € 4.500.000 provenienti direttamente da Caritas Italiana per attività in vari settori: sono stati 238 i progetti approvati dalla CEI attraverso il Servizio per gli interventi caritativi per lo sviluppo dei popoli. Grazie ai fondi 8xmille che i cittadini destinano alla Chiesa cattolica, “con quasi € 18.500.000 si è potuto intervenire in diversi settori, in particolare accoglienza, istruzione e accompagnamento principalmente di bambini e ragazzi, assistenza, formazione e sensibilizzazione in ambito sanitario, sviluppo integrato economico e sociale a favore delle comunità rurali, promozione della microimprenditorialità, agricoltura, riforestazione.
Significativo l’impegno per percorsi di uscita dalla tossicodipendenza e per attività di sostegno e inclusione comunitaria dei disabili. Così come le risposte a situazioni di emergenza quali l’assistenza umanitaria ai più vulnerabili, interventi di aiuti d’urgenza per calamità naturali e di riduzione del rischio da fenomeni alluvionali”.
Nel dossier Patrizia Caiffa ha chiesto al card. Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon e presidente della Conferenza episcopale del Myanmar e della Federazione della Conferenza episcopale asiatica (Fabc), ha chiesto di raccontare il cammino sinodale: “Il nostro viaggio sinodale in Myanmar riguarda la guarigione e la riconciliazione del mondo nella giustizia e nella pace. Il nostro cammino di fede è piuttosto messo alla prova dall’attuale crisi politica. Stiamo dunque vivendo una nuova esperienza di esodo dentro e fuori il Paese.
Molte case e chiese vengono bruciate, e tutti noi incontriamo una crudeltà continua. Il recente attacco al prete cattolico p. Paul Khwi Shane Aung da parte di uomini armati non identificati mostra quanto siamo vulnerabili: viviamo una Via Crucis permanente, una realtà dolorosa e ferita in diverse zone del Myanmar. E’ qui che abbiamo bisogno della riconciliazione con Dio, con la natura e con gli altri. E’ qui che dobbiamo diventare una Chiesa in ascolto, come Gesù, degli sfollati e delle persone ferite. Conoscendo il Myanmar con i suoi vari gruppi etnici, dobbiamo continuare ad essere una Chiesa missionaria con una cultura del rispetto reciproco e di una convivenza pacifica con tutti, con una chiara azione profetica collettiva”.
Nella conclusione mons. Andrea Ferrante, incaricato della Nunziatura della Santa Sede, ha sottolineato il lavoro della ‘sinodalità’: “La sinodalità qui è visibile e tangibile nel vissuto quotidiano. Lasciandosi guidare dall’ispirazione dello Spirito Santo, vescovi, sacerdoti, religiose, religiosi, catechisti, volontari e comunità parrocchiali sono all’opera per non lasciare soli i fratelli più in difficoltà, donando loro la speranza e creando occasioni di incontro e di crescita.
Grazie alla eredità dei grandi missionari che hanno attraversato il Paese (PIME, MEP, Colombani) ci sono radici profonde di una fede viva e creativa, un vero amore all’adorazione eucaristica e una sincera devozione alla Beata Vergine Maria. Questi sono i pilastri del tessuto ecclesiale e della speranza che anima l’azione pastorale in un clima di forti tensioni e conflitti armati. In un contesto di destrutturazione del tessuto sociale, la sfida più grande è mantenere viva la speranza che ha radici nel passato, nel presente e lascia guardare con fiducia verso il futuro”.
(Foto: CEI)
Sud Sudan, la Chiesa e la riconciliazione possibile per il vescovo di Rumbek
200.000.000 di persone vivono nei 6 Paesi del Corno d’Africa: Gibuti, Etiopia, Eritrea, Somalia, Sud Sudan e Sudan e nei prossimi trent’anni il loro numero raddoppierà, ma nessuno di questi paesi dispone di un’infrastruttura di governance che sia in grado di gestire quest’aumento della popolazione, e ancor meno le sempre maggiori aspettative dei loro giovani, la cui crescita è ancora più rapida. Con la traiettoria attuale, si sta andando verso il collasso dello stato in tutta la regione, a causa delle guerre in Sudan e in Etiopia. Tutte le parti in guerra stanno usando la fame come arma, assediando le città, tagliando le linee di rifornimento e distruggendo le infrastrutture essenziali.
E’ una regione segnata da dittature longeve e instabilità politica, ma anche da importanti svolte politiche, quali, recentemente, la caduta del presidente Omar al-Bashir in Sudan e la storica pace stipulata tra Eritrea ed Etiopia. Tra economie in forte crescita (Kenya, Etiopia) e Paesi che arrancano (Sud Sudan), restano diffusi forti livelli di disuguaglianza. Conflitti, instabilità politica e difficili condizioni socio-economiche alimentano i movimenti migratori, in larga maggioranza costituiti da giovani. Uganda, Etiopia e Sudan sono tra i paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati in Africa.
Da mons. Christian Carlassare, vescovo di Rumbek, ci siamo fatti raccontare la situazione in Sud Sudan: “La situazione del paese sembra abbastanza tranquilla. Il governo è piuttosto forte, e le opposizioni non hanno tanta voce. Ci sono ancora aree del Paese dove c’è insicurezza a causa delle tante armi che ci sono nel territorio, ma non sono conflitti di natura politica ma legati alla natura dei popoli pastori che si spostano in cerca di pascoli e acqua andando a scontrarsi con altri gruppi. È necessario l’impegno del governo e delle amministrazioni locali per prevenire e risolvere questi conflitti intercomunitari.
Ma il vero problema che il paese deve affrontare è la crisi economica dovuta ad una incapacità o impossibilità quasi endemica di usare e produrre risorse o ricchezze. Manca l’imprenditoria locale quasi in tutti i settori. I prodotti vengono quasi tutti importati. L’entrata che viene dal petrolio non viene investita nel promuovere l’economia locale. Buona parte finisce all’estero. E quello che rimane serve per sostenere l’apparato burocratico del Paese.
La quota assegnata all’istruzione e alla sanità pubblica non sembra adeguata a rispondere ai bisogni della popolazione. La moneta perde di valore. Il lavoro non è ben remunerato a meno che si tratti di lavoro per organizzazioni non governative e agenzie per lo sviluppo. La popolazione soffre povertà e miseria”.
Quanto pesa la situazione in Sudan sulla popolazione del Sud Sudan?
“La situazione nella regione dell’Alto Nilo è molto difficile. Il Sud Sudan ha aperto le braccia
a Sud Sudanesi che rientrano scappando dalla guerra del Sudan. Fra i rifugiati ci sono anche sudanesi e gente di altre nazionalità. Ma pur accogliendo, non ha grandi risorse od opportunità da offrire, se un po’ di tranquillità, ma nell’Alto Nilo neanche tanta. Le famiglie che sono arrivate a Rumbek e nella regione dei Laghi trovano le basi per sistemarsi pur nella fatica di trovare una occupazione per vivere. A Khartoum c’erano Sud Sudanesi istruiti e con buone qualifiche e professioni, questi si potranno inserire in Sud Sudan abbastanza rapidamente perché il paese ha comunque bisogno di loro: medici, ingegneri, professori. Ma nel caso di lavoratori non qualificati, non sarà facile, specie per quei Sud Sudanesi nati e cresciuti in Sudan e senza connessioni al Sud”.
Quale futuro oltre la guerra?
“Purtroppo il conflitto in Sudan non sembra voler cessare. Manca la volontà di dialogare e di raggiungere un compromesso. D’altronde non so quale accordo sia possibile trovare quando a combattersi sono gruppi militari senza politica che hanno semplicemente l’intenzione di preservare potere e controllo su risorse. Unica speranza è che ci sia la possibilità di ritornare a un dialogo politico dove i cittadini e gruppi civili abbiamo la parola. Probabilmente c’è bisogno di una mediazione della comunità internazionale e dell’Unione Africana. Riguardo al Sud Sudan, il paese è esausto. Nessuno vuole la guerra. Solo alcuni gruppi quando non sono ascoltati, o quando sperano di alzare la posta in gioco e ottenere qualcosa per sé. C’è bisogno di una politica illuminata che promuova uno spirito nazionale, piuttosto che tribale, lo spirito del bene comune piuttosto che degli interessi di gruppo”.
Come si sta preparando la popolazione per le elezioni del prossimo dicembre?
“E’notizia dei giorni scorsi che il governo ha approvato il preventivo di spesa per le prossime elezioni. C’è quindi un primo passo, quello di garantire fondi perché le elezioni possano essere fatte. Allo stesso tempo, Charles Gituai Tai, interim president di R-JMEC, ha chiesto a governo e rappresentanti dei partiti di chiarificare al più presto come intendono arrivare a elezioni pacifiche, genuine, libere, giuste e credibili. Permangono dei dubbi. Sembra necessario un censimento per determinare il corpo votante.
Non è ancora chiaro se rifugiati e sfollati potranno votare e in quali circoscrizioni. Ancora non c’è chiarezza su partiti e candidati. Un processo democratico richiede tappe precise che ancora non sembrano essere raggiunte. Ma in molti citano il proverbio: povere elezioni, meglio di nessuna elezione (Bad election is better than no election). Anche la Santa Sede, con la visita del card. Czerny, ha incoraggiato il governo di favorire il processo elettivo: questo è un momento critico nella vita politica del vostro Paese.
Preparatevi alle elezioni con la preghiera e l’impegno per garantire che siano non violente, giuste, trasparenti, credibili e pacifiche. Per raggiungere questo obiettivo ci sono delle basi importanti: mettere in atto le strutture necessarie nella sfera politica, disporre cuori e menti a una possibile transizione. Un trasferimento pacifico del potere non è solo un segnale politico di maturità, ma assicura anche il buon governo e lo sviluppo olistico della nazione. Esorto pertanto tutte le parti a rimanere fedeli all’accordo di pace che prevede le elezioni”.
Quale è il ruolo della Chiesa per la riconciliazione del Paese?
“Dall’ultimo Sinodo per l’Africa abbiamo imparato che l’evangelizzazione prende il nome di riconciliazione. In generale c’è bisogno di un cammino verso l’unità sia del genere umano che della casa comune in cui abitiamo. E così anche nel particolare della storia del Sud Sudan. Evangelizzare significa umanizzare in forza dell’incarnazione, il mistero di un Dio fatto uomo perché recuperassimo la nostra somiglianza a Lui. E quindi una Chiesa che si fa prossima ad ogni gruppo umano lo fa sentire parte di una stessa umanità con la stessa dignità e casa ovunque si trovi.
La Chiesa in Sud Sudan ha sempre evangelizzato anche valorizzando l’importanza dell’istruzione come strumento importante verso una piena liberazione da schiavitù legate alla cultura tradizionale, all’appartenenza di sangue e alla posizione economica.
Nelle scuole cattoliche vediamo una nuova generazione emancipata da narrative di pregiudizio, di paura e di rancore, e pronte a riscrivere una nuova storia di comprensione, di coraggio, e di riconciliazione. La nostra diocesi di Rumbek ha anche valorizzato il ministero di giustizia e pace attraverso un ufficio specifico che propone momenti di dialogo tra comunità che sono state vittima di violenza, corsi di riconoscimento e cura del trauma.
Quest’ufficio ha anche stabilito comitati di giustizia e pace in tutto il territorio formando agenti capaci di promuovere ascolto e dialogo. Ultimamente abbiamo anche stabilito la commissione per la riconciliazione in diocesi per mettere in atto processi che aiutino la diocesi a superare quanto successo negli anni scorsi, sospetti, minacce, paure poi culminate anche nell’agguato di cui sono stato vittima.
La diocesi era vittima di una dinamica nociva che si protraeva da tempo. La diocesi si è trovata ad essere una parabola del paese che si trova vittimizzato da una struttura di peccato. Non c’è pace senza giustizia. Non c’è giustizia senza perdono. Non c’è perdono senza verità. Non c’è verità senza conversione. Non c’è conversione senza fede in Dio”.
Cosa significa vivere la sinodalità in Sud Sudan?
“Sinodalità in Sud Sudan chiede una Chiesa dell’ascolto e del dialogo. Anticipa una Chiesa meno clericale e più attenta e aperta al ruolo delle donne e dei laici. Prevede meccanismi di partecipazione e di responsabilizzazione. Per noi nello specifico, la sinodalità ci sta aiutando nella riorganizzazione della diocesi, forse in una Chiesa meno preoccupata del fare, ma più cosciente di quello che è con la gente. Non una Chiesa che si distingue dalla gente, ma una Chiesa che accoglie e chiede l’aiuto di tutti”.
Quale è opera di Fondazione Cesar in Sud Sudan?
“La Fondazione Cesar è attiva da più di 20 anni nella diocesi di Rumbek come Coordinamento Enti Solidali di Rumbek. Da sempre il nostro impegno principale è quello di dedicarci alla formazione e lo facciamo su più fronti. Per esempio, nel tempo, abbiamo realizzato il Mazzolari Teachers College a Cueibet (Sud Sudan) che ci permette di formare i maestri e di garantire ai bambini che vanno a scuola di avere insegnanti preparati in modo adeguato e di dare, di conseguenza, un impulso al percorso che permetterà di avere una classe dirigente preparata. Oltre a portare avanti percorsi di abilitazione per docenti stiamo sostenendo, sempre per loro, il percorso per il recupero del trauma, ed è stata costruita la biblioteca e siamo pronti per dare il via alla costruzione per il dormitorio per i docenti laici.
Importante è la nostra attenzione alla formazione delle ragazze, perché sono quelle più escluse dall’educazione e con il progetto ‘Education for Life’ per bambini/e e adolescenti e le borse di studio ‘Insieme a Damiana’ vogliamo dare formazione di qualità alle bambine e ragazze del Sud Sudan. Questo è importante in quanto avrà ricadute sul paese, poiché queste studentesse diventeranno le adulte del domani, grazie ad un’adeguata preparazione culturale e professionale.
La malnutrizione è un altro nostro ambito di intervento con azioni di prevenzione della malnutrizione per i bambini tra gli 0 e i 5 anni con visite mediche, individuazioni di cure personalizzate per i piccoli malnutriti e corsi di formazione per le mamme, per aiutarle a capire come aiutare, accudire e crescere al meglio i propri figli.
Accanto a questo, sosteniamo anche il lavoro delle suore missionarie di Madre Teresa operative nella Casa Speranza a Rumbek dove sono ospitati bambini rimasti orfani (molti a causa dei conflitti interni) e con disabilità intellettive ai quali diamo sostegno. Altra attività che svolgiamo è il sostegno di piccoli progetti di micro-attività economiche come la produzione del sapone e la realizzazione di manufatti artigianali realizzati della donne in Sud Sudan e che per loro rappresentano una piccola fonte di guadagno.
In Italia lavoriamo sulla sensibilizzazione, promozione per il Sud Sudan attraverso diverse iniziative come la raccolta fondi, le campagne di Natale e Pasqua, eventi di vario tipo e il concorso dedicato alla scuole. Tutte attività svolte nell’intento di raggiungere e coinvolgere il maggior numero possibile di e fare il bene per il Sud Sudan”.
(Tratto da Aci Stampa)
In Ucraina dopo due anni di guerra
“Esortiamo la comunità internazionale, i leader religiosi e politici dei vari Paesi di continuare nel loro impegno per proteggere l’Ucraina dall’aggressione russa, per assistere coloro che stanno soffrendo per le conseguenze di questa guerra. Questo include il ritorno in Ucraina dei bambini, dei civili e dei prigionieri di guerra ucraini deportati illegalmente dalla Russia. Infine, esortiamo a continuare l’impegno per promuovere la vittoria e l’instaurazione di una pace giusta e duratura in Ucraina”.
Questo ha chiesto il Consiglio panucraino delle Chiese e delle organizzazioni religiose in occasione del secondo anniversario dell’invasione russa in Ucraina, avvenuto il 24 febbraio di due anni fa, che ha provocato molte morti: “La guerra di aggressione che la Russia conduce contro l’Ucraina dal 2014, violando le norme e regolamenti internazionali, ha causato enormi sofferenze al popolo ucraino…
Questa guerra ha provocato la morte di centinaia di migliaia di persone e brutali violazioni dei diritti umani e delle libertà civili nei territori temporaneamente occupati, inclusi la sistematica violazione della libertà religiosa e la distruzione di città e infrastrutture civili. Tale guerra, ha generato la più grande crisi migratoria in Europa dall’epoca della Seconda Guerra mondiale”.
Infatti secondo un rapporto dell’Unhcr, l’Agenzia Onu per i rifugiati, a due anni dall’inizio del conflitto oltre 185.000 persone hanno fatto richiesta di protezione temporanea e circa 4.400 di protezione internazionale in Italia con un tasso di riconoscimento sulle richieste di protezione internazionale esaminate che sfiora il 90%, di cui oltre l’87% dei rifugiati in Italia sono donne e minori. Dalla ricerca emerge che quasi tre su quattro adulti profilati avevano una formazione universitaria e più della metà erano alla ricerca di un impiego in Italia. Nel 39% dei nuclei familiari era presente una persona con vulnerabilità. Inoltre i bambini ucraini non accompagnati registrati al 31 dicembre dello scorso anno sono oltre 4.000.
Ed anche l’ong ‘WeWorld’ ha raccontato attraverso la voce delle rifugiate ucraine questi due anni, sottolineando che in Ucraina la situazione umanitaria rimane grave ed i bisogni della popolazione sono ancora tanti, in quanto: l’accesso ad acqua pulita e potabile e a cure mediche è limitato in alcune zone e mancano vestiti caldi per fronteggiare le rigide temperature dell’inverno.
Per tante bambine, bambini e adolescenti non ci sono più spazi sicuri dove poter studiare e socializzare, come ha spiegato Nataliia Kavetska, che per 8 mesi ha lavorato come mediatrice linguistico-culturale negli ‘Spazi Donna WeWorld’ ed ora di nuovo in Ucraina:
“Se scatta l’allarme dobbiamo correre nei rifugi ed è capitato diverse volte di doverci fermare a lungo e che mio figlio studiasse insieme ad altri bambini in cantina. Nell’aria si sente il pericolo, anche solo durante una passeggiata vediamo le macerie dei palazzi. Eppure ho deciso di tornare in Ucraina, a Kyiv, perché volevo fare qualcosa per il mio Paese anche se la vita quotidiana è molto diversa da prima a causa dei continui bombardamenti”.
Ed ha raccontato la vita in Ucraina: “Proviamo a vivere al meglio, qualcuno prova a sopravvivere perché c’è anche la crisi economica: io spero di avere un futuro in Ucraina ma al momento non riesco a immaginarmelo. Da quando è iniziata la guerra e da quando sono tornata però ho iniziato ad apprezzare le cose importanti: cos’è l’amicizia, la vicinanza, il sostegno. Apprezzo meglio la vita. Ci sono tanti momenti difficili perché la vita quotidiana è molto faticosa ma nel mio cuore c’è speranza”.
Mentre Guido Manneschi, responsabile Paese in Ucraina per WeWorld, dove in due anni di intervento ha raggiunto 230.000 persone, di cui il 74% sono donne, bambine e bambini, ha detto di non vedere la conclusione del conflitto: “A due anni dall’inizio della guerra la popolazione ucraina continua a vivere l’impatto di un conflitto che, ancora, non vede una possibile fine…
Due anni che avranno ripercussioni sul futuro di un’intera generazione, con bambine e bambini che vivono una quotidianità precaria senza continuità a scuola con la paura dei bombardamenti, uomini che avranno bisogno di aiuto per superare lo stress post traumatico, donne che hanno il peso della cura e della ricostruzione sulle proprie spalle. Il popolo ucraino sta vivendo una crisi collettiva che deve essere fermata, il rischio è che il Paese non riesca più a rialzarsi”.
La Ong precisa che 14.600.000 persone, il 40% dell’intera popolazione, ha bisogno di aiuti umanitari, ma i finanziamenti coprono solo il 13% dei bisogni (Unhcr); 3.300.000 vivono vicino al fronte di guerra, dove arrivano pochi aiuti perché l’accesso umanitario è difficile e non garantito. In due anni 6.000.000 persone sono fuggite all’estero e 4.000.000 sono sfollate all’interno dell’Ucraina.
Per questo anche la Caritas italiana Caritas Italiana ha partecipato all’intervento della rete Caritas internazionale a favore di Caritas Ucraina e Caritas-Spes con servizi di accoglienza e di protezione, assistenza medica, kit igienici e alimentari, contributi in denaro.
Degli € 24.325.914,15 raccolti (al 31 dicembre 2023), tra cui € 1.000.000 da parte della CEI (fondi 8xmille), due terzi sono già stati spesi (€ 15.690.744,38); mentre il rimanente è destinato a progetti da realizzarsi nell’anno in corso e nei prossimi anni: tra i contributi spesi € 4.926.879,91 sono stati stanziati a progetti di sostegno in Ucraina e Paesi limitrofi ed € 10.763.864,47 a progetti di accoglienza in Italia:
“Dallo scoppio del conflitto molte diocesi italiane si sono impegnate per garantire un’accoglienza adeguata alle persone in fuga. Tante le attività organizzate a livello locale: accoglienza, raccolta beni di prima necessità, assistenza sanitaria, accompagnamento psicologico. Le strutture maggiormente utilizzate: appartamenti, parrocchie, famiglie, istituti religiosi, centri di accoglienza.
Migliaia le persone accolte dalla rete ecclesiale italiana, attraverso il progetto ‘Apri Ucraina’ promosso da Caritas Italiana. Il progetto ha coinvolto cento diocesi e ha permesso di accogliere oltre seimila persone. Da segnalare anche le vacanze solidali che hanno permesso a quasi 650 bambini ucraini (e ai loro accompagnatori) di trascorrere alcune settimane serene in Italia”.
Inoltre dall’occupazione della Crimea nel 2014, Amnesty International ha documentato numerose atrocità, tra cui attacchi mirati contro civili e infrastrutture civili, sparizioni forzate, esecuzioni extragiudiziali, torture, privazioni illegittime della libertà, trasferimenti forzati di civili e l’uso della violenza sui prigionieri di guerra, secondo quanto ha affermato Denis Krivosheev, vicedirettore per l’Europa orientale e l’Asia centrale di Amnesty International:
“Mentre la guerra è ancora in corso, è necessario conservare per quanto possibile le prove di ogni singola atrocità. I responsabili dei crimini di diritto internazionale devono essere chiamati a risponderne, indipendentemente da quanto tempo ci vorrà. Questi crimini non cadono in prescrizione”.
Per questo Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum Terzo Settore che rappresenta oltre 100 reti nazionali di Terzo settore, ha aderito alla Giornata di mobilitazione di sabato 24 febbraio nelle città italiane, indetta dalla Rete Italiana Pace e Disarmo per chiedere di fermare la follia criminale di tutte le guerre:
“A due anni dallo scoppio della guerra in Ucraina lo scenario internazionale è sempre più grave, con la drammatica intensificazione del conflitto israelo-palestinese a seguito dell’attacco disumano di Hamas e della sproporzionata risposta militare da parte di Israele.
Assistiamo alla dimostrazione della fragilità degli equilibri internazionali, mentre la via della diplomazia e della soluzione pacifica dei conflitti diventa sempre più difficile da percorrere. In questo quadro è lo stesso principio di autodeterminazione dei popoli a perdere riconoscimento, se non addirittura ad essere negato”.
Quindi la proposta del Forum Terzo Settore ha proposto la promozione della cooperazione: “Mai come ora è imperativo promuovere la cooperazione tra Paesi, schierarsi per la pace e per un modello di sviluppo fondato sulla tutela dei diritti della persona e la giustizia sociale.
Ci uniamo alle tante voci che stanno denunciando in questi mesi il massacro di innocenti e la pericolosissima corsa al riarmo degli Stati. Ci appelliamo inoltre ai Governi, italiano ed europei innanzitutto, affinchè ascoltino le organizzazioni della società civile, che stanno indicando la strada della pace da seguire”.
Mentre la Comunità di Sant’Egidio ha diffuso una nota in cui ripercorre la straordinaria catena di solidarietà messa in atto dalle sue comunità che in questi due anni ha raggiunto circa 330.000 persone: “Tutto ciò è reso possibile da una catena di solidarietà che parte dall’Italia e da altri paesi europei e che non può interrompersi finché dura il conflitto”.
Nel centro di coordinamento delle iniziative umanitarie di Sant’Egidio, realizzato a Leopoli, vicino al confine con la Polonia, sono giunti finora dall’Italia e da diversi Paesi europei 127 carichi di aiuti umanitari, pari a 2.000 tonnellate, per un valore complessivo di oltre € 23.000.000.
Da Leopoli la Comunità di Sant’Egidio ha spedito farmaci, anche salvavita, a 209 strutture sanitarie, 90 amministrazioni locali, 54 istituti per bambini, anziani e disabili e numerosi centri di accoglienza per profughi anche nelle aree più remote del Paese. La stima delle persone che hanno usufruito di questi aiuti sanitari è di circa 2.000.000.
Ed oggi la Comunità di Sant’Egidio tiene una Liturgia per la Pace alle ore 19.30, nella chiesa di San Bernardino (via Lanzone 13, Milano; M2 Sant’Ambrogio), a cui partecipano profughi accolti a Milano.
Nel febbraio 2014 la Russia ha inviato le proprie truppe ad occupare la Crimea. Non ha mai ammesso che, nello stesso anno, erano entrate anche nell’Ucraina orientale. Le prove pubblicate da Amnesty International nel 2014, che includono l’analisi di immagini satellitari e testimonianze oculari, hanno confermato quanto avvenuto, rendendo evidente che siamo effettivamente di fronte a un conflitto armato internazionale della durata di un decennio.
Giornata del Rifugiato: superare l’emergenza
“Circa 100.000.000 uomini, donne e bambini, in tutti i continenti, sono costrette a lasciare le proprie case per trovare protezione contro la persecuzione, gli abusi, le violenze. Il senso di umanità e il rispetto per i più alti valori iscritti nella Costituzione repubblicana impongono di non ignorare il loro dramma. Nel celebrare oggi la Giornata Mondiale del Rifugiato è opportuno ribadire che le iniziative di assistenza a queste persone, e in particolare ai rifugiati che si trovano in condizioni di particolare vulnerabilità, devono essere accompagnate dalla ricerca di un’indispensabile e urgentissima soluzione strutturale di lungo periodo”.