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Mamme coraggiose: è nata Kabira

Dalla Federazione Regionale Lombarda della Società di San Vincenzo De Paoli un aiuto alle mamme più vulnerabili. E’ nata la piccola Kabira (nome di fantasia). Della sua mamma, Narjis (il nome è di fantasia, ma il racconto è vero) avevamo parlato nel corso della presentazione del progetto ‘Doti Speranza’, iniziativa promossa dalla Federazione Regionale Lombarda della Società di San Vincenzo De Paoli in collaborazione con Federvita Lombardia e rivolta alle donne in gravidanza che vivono in condizioni di grave vulnerabilità affinché scelgano la vita.

Narjis ha solo vent’anni, ma ha già attraversato l’inferno: fuggita dall’Africa, imprigionata in Libia, è riuscita a raggiungere l’Italia dopo un lungo e pericoloso viaggio. A Lampedusa conosce il padre del suo bambino, che però la abbandona poco dopo. Rimasta sola, trova finalmente qualcuno che la ascolta: i volontari della Società di San Vincenzo De Paoli, l’hanno accompagnata con amore verso la nascita della sua piccola, che era prevista per il 28 maggio. E Kabira non si è fatta attendere…Ora accanto a Narjis è nata una rete che le continuerà a garantire non solo aiuto, ma anche relazioni, fiducia e prospettive di integrazione.

Un sostegno reale, umano e personalizzato: “Il dono di questa nuova vita ci fa gioire e ci commuove allo stesso tempo. È germogliato un fiore tra le rocce, custodiamolo insieme con cura e amore”, afferma Nelly Minardi, Presidente del Consiglio Centrale di Rho Magenta della Società di San Vincenzo De Paoli.

Un momento di gioia condiviso anche da Licia Latino, Presidente della Federazione Regionale Lombarda della Società di San Vincenzo De Paoli: «Siamo contenti di accogliere la nascita di Kabira. Narjis è stata una mamma coraggiosa. Come Federazione, insieme a Federvita Lombardia, continueremo a starle accanto. È giusto che lei e la sua bambina abbiano una vita dignitosa» dichiara la Presidente Latino e aggiunge: «Noi dobbiamo portare speranza a queste madri e ai loro figli, perché non si sentano costrette ad abortire solo per povertà o solitudine».

“Doti Speranza” vuole essere un progetto che agisce proprio nei momenti decisivi, quando una donna – spesso giovane, sola e impaurita – si trova davanti a una scelta difficile. A lei viene offerta la possibilità concreta di affrontare la gravidanza con maggiore serenità, grazie al contributo economico e a un lavoro di accompagnamento su misura, costruito attorno alla sua storia, con rispetto e delicatezza.

L’obiettivo del progetto, presentato lo scorso 6 maggio a Milano, è semplice ma ambizioso: accompagnare le mamme più fragili lungo il percorso della maternità, offrendo ascolto, comprensione e un sostegno economico fino a 3.000 euro. Un gesto concreto, che non è solo assistenza, ma una vera e propria alleanza di fiducia. Un cammino condiviso finalizzato alla fuoriuscita dalla condizione di povertà.

L’iniziativa si rivolge in particolare alle donne incinte che si trovano in situazioni di forte marginalità, anche prive di documenti, presenti sul territorio lombardo. Spesso si tratta di storie segnate dal dolore, da solitudine, da speranze infrante.

Spesso chi vive senza casa, senza lavoro e in forte emarginazione non è a conoscenza dei servizi. A volte, anche se li conosce, ha paura di rivolgersi alle istituzioni per timore che le venga tolto il bambino o perché si trova in condizioni di irregolarità. Ecco che diventa importante una rete di prossimità, che intercetti i bisogni nascosti e porti la carità là dove spesso non arriva nessuno.

Nel segno di una “Chiesain uscita”, “Doti Speranza” rappresenta una risposta concreta e preziosa per tante donne che, nonostante tutto, scelgono di diventare madri. Un piccolo seme, che puòfar sbocciare la vita. Una speranza che si fa dote, per ogni donna che scegliedi non arrendersi.

‘Doti di speranza’: un aiuto concreto per scegliere la vita

Un aiuto reale, umano e personalizzato per aiutare le donne in gravidanza che vivono in condizioni di grave vulnerabilità a scegliere la vita. È questo il significato profondo di ‘Doti Speranza’, il nuovo progetto promosso dalla Federazione Regionale Lombarda della Società di San Vincenzo De Paoli in collaborazione con Federvita Lombardia. L’iniziativa, presentata lo scorso maggio a Milano nel corso di una Conferenza Stampa con i vertici delle due associazioni.

L’obiettivo è semplice ma ambizioso: accompagnare le mamme più fragili lungo il percorso della maternità, offrendo ascolto, comprensione e un sostegno economico fino a 3.000 euro. Un gesto concreto, che non è solo assistenza, ma una vera e propria alleanza di fiducia. Un cammino condiviso finalizzato alla fuoriuscita dalla condizione di povertà.

Il progetto si rivolge in particolare alle donne incinte che si trovano in situazioni di forte marginalità, anche prive di documenti, presenti sul territorio lombardo. Spesso si tratta di storie segnate dal dolore, da solitudine, da speranze infrante. Come quella di Narjis (il nome è di fantasia, ma il racconto è vero), oggi al nono mese di gravidanza. Ha solo vent’anni, ma ha già attraversato l’inferno: fuggita dall’Africa, imprigionata in Libia, è riuscita a raggiungere l’Italia dopo un lungo e pericoloso viaggio.

A Lampedusa conosce il padre del suo bambino, che però la abbandona poco dopo. Rimasta sola, trova finalmente qualcuno che la ascolta: i volontari della Società di San Vincenzo De Paoli, che oggi la accompagnano con amore verso la nascita del suo piccolo, il 28 maggio. Ora accanto a Narjis c’è una rete che garantisce non solo aiuto materiale, ma anche relazioni, fiducia e prospettive di integrazione, come ha affermato Licia Latino, presidente della Federazione Regionale Lombarda della Società di San Vincenzo De Paoli:

“Noi dobbiamo portare speranza a queste madri e ai loro figli, perché non si sentano costrette ad abortire solo per povertà o solitudine”. ‘Doti Speranza’ agisce proprio nei momenti decisivi, quando una donna (spesso giovane, sola e impaurita) si trova davanti a una scelta difficile. A lei viene offerta la possibilità concreta di affrontare la gravidanza con maggiore serenità, grazie al contributo economico e a un progetto di accompagnamento su misura, costruito attorno alla sua storia, con rispetto e delicatezza.

“Non possiamo dare per scontato, ha annotato Marco Delvecchio, responsabile scientifico del progetto, che chi vive senza casa, senza lavoro e in forte emarginazione sia a conoscenza dei servizi. Spesso, anche se li conosce, ha paura di rivolgersi alle istituzioni per timore che le venga tolto il bambino o perché si trova in condizioni di irregolarità”. Ecco allora l’importanza di una rete di prossimità, che intercetti i bisogni nascosti e porti la carità là dove spesso non arriva nessuno”.

Nel segno di una ‘Chiesa in uscita’, ‘Doti Speranza’ rappresenta una risposta concreta e preziosa per tante donne che, nonostante tutto, scelgono di diventare madri, ha raccontato Paolo Picco, tra i fondatori: “In 43 anni di storia di Federvita Lombardia questo è uno dei progetti più significativi che abbiamo realizzato”; mentre Elisabetta Pittino, presidente di Federvita Lombardia, ha definito l’iniziativa ‘un guizzo geniale’, augurandosi “che sia solo l’inizio di una lunga collaborazione”.

Nelly Minardi, Presidente del Consiglio Centrale di Rho Magenta della Società di San Vincenzo De Paoli, ha coinvolto tutti gli spettatori raccontando la storia di Narjis, mentre Marina Cavallin, membro del Comitato Direttivo della Federazione Regionale Lombarda della Società di San Vincenzo De Paoli, ha sottolineato il valore della sinergia con i Centri di Aiuto alla Vita. Anna Taliente, Segretaria nazionale, ha ricordato che tutto è nato da una sollecitazione di Padre Francesco Gonella CM, Consigliere spirituale della Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV.

Un piccolo seme, che può far sbocciare la vita. Una speranza che si fa dote, per ogni donna che sceglie di non arrendersi.

(Foto: Società San Vincenzo De Paoli)

In Italia preoccupazione per il calo delle nascite

In Italia lo scorso anno ha evidenziato una dinamica demografica per molti versi in continuità con quella dei recenti anni post-pandemici. Insieme ad un calo contenuto della popolazione residente, che peraltro continua a invecchiare, alla conferma di una dinamica naturale fortemente negativa, i cui effetti vengono attenuati da una dinamica migratoria più che positiva, e alla progressiva contrazione della dimensione media delle famiglie, il 2024 ha aggiunto elementi la cui portata va sottolineata, tra cui il minimo storico di fecondità, la speranza di vita che supera i livelli pre-pandemici, l’aumento degli espatri di cittadini italiani, il nuovo massimo di acquisizioni della cittadinanza italiana a cui si affianca comunque l’importante crescita della popolazione straniera residente.

Il calo di popolazione non coinvolge in modo generalizzato tutte le aree del Paese: mentre nel Nord la popolazione aumenta dell’1,6 per mille, il Centro e il Mezzogiorno registrano variazioni negative rispettivamente pari a -0,6 per mille e a -3,8 per mille. Nelle Aree interne del Paese l’Istat osserva una perdita di popolazione più intensa rispetto ai Centri (-2,4 per mille, contro -0,1 per mille), con un picco negativo per le Aree interne del Mezzogiorno (-4,7 per mille). A livello regionale, la popolazione risulta in aumento soprattutto in Trentino-Alto Adige (+3,1 per mille), in Emilia-Romagna (+3,1 per mille) e in Lombardia (+2,3 per mille). Le regioni in cui si riscontrano le maggiori perdite sono invece la Basilicata (-6,3 per mille) e la Sardegna (-5,8 per mille). Nel 2024 le nascite si attestano a quota 370mila, registrando una diminuzione sul 2023 del 2,6%.

Nel 2024, secondo i dati provvisori, i nati residenti in Italia sono 370.000, in diminuzione di circa 10.000 unità (-2,6%) rispetto all’anno precedente. Il tasso di natalità si attesta al 6,3 per mille, contro il 6,4 per mille del 2023 . I nati di cittadinanza straniera, il 13,5% del totale, sono quasi 50.000, circa 1.500 in meno rispetto all’anno precedente e la fecondità è stimata in 1,18 figli per donna, sotto quindi il valore osservato nel 2023 (1,20) ed inferiore al precedente minimo storico di 1,19 figli per donna registrato nel 1995. La contrazione della fecondità riguarda in particolar modo il Nord e il Mezzogiorno. Infatti, mentre nel Centro il numero medio di figli per donna si mantiene stabile (pari a 1,12), nel Nord scende a 1,19 (da 1,21 del 2023) e nel Mezzogiorno a 1,20 (da 1,24).

Il calo delle nascite, oltre ad essere determinato dall’ulteriore calo della fecondità, è causato dalla riduzione nel numero dei potenziali genitori, a sua volta risultato del calo del numero medio di figli per donna registrato nei loro anni di nascita. La rilevanza dell’aspetto strutturale è ben evidente: considerando che la popolazione femminile nelle età convenzionalmente considerate riproduttive (15-49 anni) è passata da 14.300.000 di unità al 1° gennaio 1995 a 11.400.000 al 1° gennaio 2025.

Adriano Bordignon, presidente del Forum nazionale delle associazioni familiari, ha espresso preoccupazione per il saldo negativo delle nascite: “Stiamo sprofondando nelle sabbie mobili ed è evidente che quanto stiamo mettendo in campo, come sistema-Italia, è del tutto insufficiente per garantire un minimo equilibrio demografico…

Da anni chiediamo una rivoluzione che il nostro Paese non è ancora disposto ad assumere, vittima di priorità che sono sempre altre, di mancate convergenze transpartitiche, di fragilità di alleanze tra politica, amministrazione locale, lavoro associazionismo e scuola. Ma anche politiche asfittiche e vincolate a patti di bilancio stringenti che invece si fanno flessibili per altre urgenze”.

Inoltre Adriano Bordignon ha evidenziato anche l’aspetto migratorio per mancanza di politiche di sostegno alla famiglia: “L’anno della famiglia sembra sempre essere il prossimo in agende ormai attanagliate da crisi mondiali che oggi ci portano anche a parlare di guerra, militare o di dazi, come una possibilità di scenario ordinario. Cresce anche il numero di italiani che lasciano il Belpaese.

Nel 2024 sono stati 156.000, un +36,5% con un impatto ancora più significativo per il Mezzogiorno, gravato anche dal fenomeno delle migrazioni interne: -52.000, mentre il Nord guadagna 47.000 residenti grazie ai trasferimenti da altre aree del Paese. L’Istat ci dice che il numero medio di componenti per famiglia è sceso a 2,2, rispetto ai 2,6 di 20 anni fa”.

L’ultima sottolineatura è riservata alle famiglie monogenitoriali: “ Stiamo consumando il futuro in un’epoca che si fa vanto di cercare sempre la sostenibilità. Urgono politiche strutturali, generose ed universali orientate a famiglia e giovani. Serve il coraggio, l’unità e la capacità di programmare per fare, da subito, le scelte operative conseguenti, considerando la spesa per far crescere il figlio, non come un costo individuale ma come investimento per il futuro dell’intera comunità. Occorre cambiare cultura e supportare la famiglia come soggetto sociale che, se messo nelle condizioni, è capace di generare benessere per tutto il Paese”.

Mentre il presidente della Fondazione per la natalità, Gigi De Palo, ha evidenziato la mancanza di politiche serie per la famiglia: “Purtroppo i dati Istat odierni non fanno che confermare quello che stiamo dicendo ormai da parecchi anni: o iniziamo seriamente a fare delle politiche impattanti, concrete e durature nel tempo oppure la partita della natalità e quindi della crescita economica, della coesione sociale, della solidarietà intergenerazionale, del mantenimento del sistema sanitario, del mantenimento del sistema pensionistico sarà persa”.

La statistica evidenzia due dati negativi, che chiedono coesione: “Colpiscono due dati in particolare: il tasso di natalità ai minimi storici e il fatto che i nostri giovani preferiscono andare all’estero per realizzare i loro sogni lavorativi e familiari. Fino a quando la nascita di un figlio sarà una delle prime cause di povertà, non cambierà nulla a livello demografico nel nostro Paese.

Qui non si tratta di trovare un colpevole, non si tratta di dare la responsabilità a questo Governo o al precedente, qui si tratta di fare squadra tutti insieme perché stiamo giocando la partita più importante del nostro Paese. Servono urgentemente politiche capaci di impattare drasticamente e in maniera concreta sul tema della natalità, non bastano più bonus o parcellizzazione di bilanci nazionali. Serve dedicare i prossimi 10 bilanci del Paese a questa tematica perché altrimenti viene giù tutto”.

Ed ecco la proposta: “Occorre lavorare contemporaneamente su due filoni: politiche familiari che facilitino le scelte dei giovani di fare famiglia e una via italiana all’immigrazione. L’una non può e non deve escludere l’altra. Facciamo lo ius familiae, rendiamo il nostro Paese ambito non solo per gli stranieri che cercano lavoro, ma anche per chi desidera stabilità. In questo modo diamo un segnale di sicurezza e di futuro. Non è più il tempo di giocare in difesa, ma di fare proposte innovative che vadano oltre la gestione del presente. Il futuro possiamo ancora scriverlo, ma dobbiamo farlo tutti insieme”.

A colloquio con Giulia Merelli, che ha sviluppato un monologo teatrale sulla Madre di Dio

“Così sono nato; così sono stato fatto figlio. Allora io, e non solo io, ma tutti, i giovani che incontro, con cui medito o meditiamo sul dolore, perché il dolore non sia più isolante come dicevi tu prima, perché non sia più un fatto sul quale si può anche essere tentati di compiacimento ma diventi un fatto liberante, credo e crediamo d’aver capito che il dolore deve portarti, deve condurti sempre, non una volta, magari una volta per tutte, ma quando si dice una volta per tutte, vuol dire per tutti i giorni, per tutte le ore; deve portarti, dicevo, a sentirti figlio del Padre che è Dio e figlio del padre terreno che è il padre carnale d’ognuno di noi”.

Iniziamo dal dialogo tra il drammaturgo Giovanni Testori e mons. Luigi Giussani, ‘Il senso della nascita’ per iniziare un dialogo con Giulia Merelli, insegnante ed attrice, che ha sviluppato un monologo teatrale, scritto e diretto, in cinque atti/clip sulla Madre di Dio, ‘Maria’, quando ha scoperto di essere la Madre di Dio che presto verrà alla luce, come un uomo:

“La realtà è drammatica. Dramma significa azione, quindi la realtà è fatta di azione, non di teoria. Per questo amo il teatro, luogo dove la parola agisce. Con questo, il teatro è necessario alla vita. C’è forse un’esigenza radicale nell’uomo del farsi spettatore di se stesso: vedendo in scena l’azione, comprende che può agire in vista di un orizzonte di senso. E tutto questo è drammatico, non tragico. Se fosse tragico, avremmo un fato che non ci considera, che non si apre alla bellezza delle nostre azioni. Le azioni belle non sono semplici affermazioni esistenziali (soliloqui) ma sono risposte ad altre azioni (dialoghi), ad incontri che hanno in sé la caratteristica del possibile”.

Perché un monologo su Maria?

“Ho scritto un monologo su ‘Maria’ qualche anno fa, o meglio otto anni fa. Come vedi, il tempo cronologico diventa relativo quando tocchiamo temi spirituali che riguardano il cuore, un luogo senza orologi dove alcune riflessioni valgono continuamente. Ho scritto il monologo mentre ero in una tournée teatrale e sentivo la necessità di prendermi momenti di quiete, occasioni di creatività come dimora per il mio sentire profondo.

In quel periodo leggevo gli scritti teatrali e i saggi di Giovanni Testori, drammaturgo milanese convertitosi al cattolicesimo. ‘Il senso della nascita’, dialogo tra Testori e Giussani, mi ha particolarmente toccata, rivelando l’importanza della nostra presenza nel mondo come evento voluto, non casuale. Poi, ho preso i suoi monologhi sulla nascita, da ‘Factum est’ ad ‘Interrogatorio a Maria’. Quest’ultimo scritto rivela la bellezza semplice di una donna che si apre alla realtà.

Penso che il fatto di cercare Maria, in un momento per me estraniante dove ero chiamata a relazioni continue, quindi ad affacciarmi continuamente verso richiami esterni, mi abbia permesso di rintracciare, in me stessa, quella semplice disposizione d’animo con la quale lei stessa si è disposta di fronte agli avvenimenti della sua esistenza. Maria è una donna che avrebbe potuto dire no e ha detto sì, avanzando con un sentimento intimo e senza sprecare parole, senza disperdersi, senza cercare rassicurazioni o condizionamenti altrove. In sostanza, penso che instaurare un dialogo con questa donna significhi dare fiducia alla propria autocoscienza”.

Quale significato ha il fatto che il ‘Verbo si è fatto carne’?

“Se ci pensiamo, il nostro modo di conoscere in alcuni casi procede attraverso le dimostrazioni scientifiche. E più diventiamo adulti più rischiamo di affidarci esclusivamente al procedimento razionale pensando che sia solo la dimostrazione immediata garante di conoscenza. Tuttavia, se volgiamo lo sguardo verso un bambino, scopriremo che la sua intuizione precede persino l’abilità di nominare il mondo circostante.

Un esempio lampante è quando un bambino riesce a discernere se l’adulto che lo guarda lo fa con sincera lealtà o con banale superficialità. Chi ha illuminato la mente del bambino riguardo l’esistenza di rapporti autentici? Cosa permette a un bambino di comprendere la serietà con cui l’adulto si rapporta a lui? Non di certo lo studio, né tantomeno l’esperienza che è ancora iniziale.

Ecco allora che risulta sensato soffermarci a considerare la maternità di Maria non solo come un evento biologico, ma come manifestazione di un’intuitiva capacità di conoscenza. Maria, nel momento in cui accoglie il mistero di Dio che le si propone, sta accogliendo la possibilità di amare la realtà cioè di accogliere la realtà anche quando sfugge al controllo. Esistono interpretazioni dell’arte sacra che riconoscono nella forma dell’orecchio una versione in miniatura dell’utero: l’ascolto può diventare un atto generativo di vita”.

Quindi l’ascolto apre all’incontro?

“Di fatto, ogni volta che ci disponiamo di fronte all’altro in un sincero ascolto e non anteponiamo all’ascolto le nostre affermazioni o certezze, scopriamo sempre e in ogni volta che accade un fatto non previsto prima. Se anche l’altro che si consegna al nostro ascolto, apre sé stesso con sincerità sta permettendo che avvenga l’incontro.

Ho menzionato i bambini perché essi, non ancora difesi dalla razionalità con cui, spesso, gli adulti stabiliscono che il mondo è il colpevole delle loro offese subite, sono sinceramente aperti e disposti all’incontro. Vorrebbero semplicemente essere amati, guardati, insomma essere accompagnati come esseri umani pieni di valore nella realtà, per diventare grandi (capaci di aiutare sé stessi e gli altri).

Ecco che, invece crescendo, spesso accadono le offese, i torti, si subiscono oltraggi e se arrecano ad altri, ciascuno usurpa l’altro, si usurpano i figli, i genitori, le  persone amate, gli amici, i troni, i poteri, perché forse ci si vuole rivalere di un rapporto o più rapporti di fiducia spezzati. Quindi la razionalità diventa lo schema che io antepongo alla vita prima ancora che la vita, nel suo procedere, possa davvero sorprendermi, proponendomi incontri che non rientrano minimamente in quanto io avevo già pianificato”.

In quale modo il Verbo diventa esperienza d’amore?

“Il Verbo fatto carne è l’esperienza di amore divino che entra nell’umano per confortarlo delle offese subite, per ravvivare la coscienza che non tutto è perduto ma si può ancora vivere una vita felice. Il cristiano crede che gli incontri fra gli uomini possano generare un fatto d’amore che trascende le loro stesse volontà per cui se ci si dispone ad accogliere la realtà stessa dell’incontro come qualcosa da accudire, non da gestire, e con sincera apertura, è inevitabile che accada qualcosa di bello, fosse anche perché semplicemente di non premeditato.

Il verbo è un’azione, come spiega l’etimo, ma è anche una parola, infatti se io dico: ‘ti amo’, sto penetrando la coscienza dell’altro formando anche la sua identità, contribuendo a lenire le sue ferite di non amore. Il verbo può agire come un balsamo per le ferite dell’anima, ma può anche trasformarsi in un frastuono vacuo, chiacchiere, in cui il sacro mistero si dissolve e la comprensione diventa un’illusione. In questa moderna era, riabbracciare la fedeltà alla propria esperienza, dove la parola pronunciata risuona in perfetta armonia con le azioni intraprese o accolte, diventa un’impresa ardua.

Per questo si cerca spazio nel divino: sorge un bambino, un inizio di vita, che sfida la nostra consapevolezza limitata e la nostra mancanza di sincerità con noi stessi. Egli emerge come un promemoria vivente, un monito che la vera essenza della nostra esistenza risiede nella nostra capacità di accogliere con umiltà e apertura il dono dell’amore incondizionato”.

Il Verbo si fa carne: è possibile raccontarlo in teatro?

“Certamente. L’arte è un modo creativo di conoscere, pertanto quando io creo devo necessariamente aprirmi come una madre si apre alla vita. L’immagine della madre è l’immagine di ogni essere vivente che decide ancora di essere generatore di altro. Il teatro, luogo dove le relazioni umane vengono messe in scena e quindi dove tutti gli inghippi e le soluzioni di queste relazioni sono sottolineate davanti allo sguardo degli spettatori, l’esperienza dell’amore che supera il conflitto e genera nuove possibilità di vita è certamente un orizzonte ideale a cui tendere quando si scrive un testo drammaturgo. Questo non deve diventare una pretesa moralizzante verso chi guarda, ma appunto costituire un orizzonte, un traguardo che potrebbe non essere raggiunto.

Allo stesso modo, nel caso della recitazione è possibile fare l’esperienza del Verbo che si fa carne: talvolta accade che un attore si senta amato e compreso dal personaggio che interpreta, come se la parola scritta prendesse vita attraverso di lui. Questo fenomeno di immedesimazione rende il teatro un mezzo potentissimo per raccontare il mistero dell’incarnazione. Quando un attore riesce a incarnare il Verbo, trasmette al pubblico non solo la storia di un personaggio, ma anche una verità universale che risuona con l’essenza umana.

Questo incontro tra il divino e l’umano sul palcoscenico diventa un momento di rivelazione, che trascende ogni barriera. In questo modo, il teatro non solo rappresenta la vita, ma diventa esso stesso un atto di creazione e di amore, un luogo dove il mistero della vita si svela e si rinnova continuamente”.

Come è possibile vivere il mistero della vita in un grembo?

“Trovo questa domanda molto delicata. Io non ho fatto nessuna esperienza di maternità biologica, non sono una madre però sono una figlia, un’insegnante ed un’attrice che scrive per il teatro. Mi capita, quando tocco la pancia appena gravida di un’amica o, come accaduto di recente, di mia sorella, che pianga istantaneamente. Il pianto è una commozione immediata per la vita che si sta formando nel grembo che, in pochissimi mesi, si sviluppa e ha già un cuore.

Il fatto che si formi dentro a una donna un altro individuo che avrà una sua identità, con un suo carattere, con desideri e aspirazioni proprie, talenti… è un mistero da onorare e guardare senza tentativi manipolatori. Penso che questo mistero possa essere vissuto come quando si sta di fronte a un fiore bellissimo, vorremmo farlo nostro, ma il fiore è un’entità a sé stante e possiamo solo contemplarlo.

Sostare di fronte a una vita che si forma è cominciare a rispettare l’altro come diverso da sé. Nel mio piccolo, provo a fare questa esperienza con gli studenti e con le cose che scrivo. Con gli studenti perché, seppure sia spesso tentata nel definirli secondo schemi preconfezionati, sento nel contempo la necessità di aprirmi al loro peculiare modo di conoscere, come a un fatto nuovo. Nel secondo caso, ricordo una piacevolissima sensazione quando, scrivendo un testo drammaturgo, sospesi il giudizio per lasciare liberi i personaggi di essere loro stessi, seguendoli per vedere dove sarebbero andati…”.

Allora perchè fidarsi di una Voce?

“Nel profondo di noi, risiede un battito cardiaco originario (è lo stesso della prima volta), un sussurro silente che articola la verità ineludibile: non siamo gli autori della nostra esistenza. Chi ha infuso in noi quel primo scintillio vitale? Se siamo disposti ad accettare che la nostra esistenza non è un prodotto auto-generato, se ci concediamo di ascoltare con attenzione, potremmo percepire la nostra unicità. Se tale percezione risulta difficile, si può iniziare esplorando le nostre passioni, quegli ambiti creativi in cui ci sentiamo autenticamente noi stessi.

Se uno non avesse passioni, può cercare questa possibilità nei rapporti autentici, infatti anche gli altri possono aiutarci ad ascoltare noi stessi (se ci vogliono bene). Fidarsi di quei contesti in cui ci sentiamo veramente liberi, è un percorso per iniziare a realizzare il nostro destino. Dare ascolto a questa voce interiore vale la pena, poiché ci permette di raggiungere la nostra felicità senza cadere vittime di costrizioni esterne che possono ostacolare questo processo”.

‘Una particolare espressione di fiducia nel futuro è la trasmissione della vita, senza la quale nessuna forma di organizzazione sociale o comunitaria può avere un domani’: hanno scritto i vescovi in occasione della 47^ Giornata nazionale per la Vita. Cosa significa trasmettere vita?

“Significa rendere felici sé stessi e di conseguenza gli altri. Più prendo sul serio questo mio desiderio e mi gioco nella realtà tenendo questa asticella alta, senza accontentarmi, tanto più posso aiutare chi mi sta intorno. Il desiderio di felicità dovrebbe essere un respiro quotidiano, una molla che ti risveglia come un bambino impaziente di correre lungo il sentiero di campagna alla ricerca di daini. Spesso, al mattino, mi trovo oppressa, afflitta da antiche ferite, ma non scelgo di restare sottomessa al male, non cedo al ricatto del passato, piuttosto mi muovo a fatica e chiedo la speranza… Sono sempre gli incontri che mi fanno sentire accolta, a prevalere. Più si fa spazio a questo, più la vita ha la meglio sulla depressione”.

Quali sono i riferimenti di questo monologo?

“Molteplici sono stati i testi da cui ho attinto per la costruzione del monologo: ‘Il senso della nascita’, un dialogo tra Giovanni Testori e don Luigi Giussani; ‘Interrogatorio a Maria’ di Giovanni Testori; ‘Lettera a un bambino mai nato’ di Oriana Fallaci; ‘Per una nascita senza violenza’ di Frederick Leboyer; ‘L’arte di amare’ di Erich Fromm; la poesia ‘Supplica a mia madre’ ed il film ‘Vangelo secondo Matteo’ di Pier Paolo Pasolini ed il brano musicale ‘Ave Maria’ di Fabrizio De André. Per chi abbia voglia di visionare il monologo ecco i cinque link a disposizione: https://youtu.be/Pz7UMtrto-Y?si=GHoYbYXP0nEwkWMp;

(Tratto da Aci Stampa)

Papa Francesco invita a nascere dall’alto

Papa Francesco guarda

“Con questa catechesi iniziamo a contemplare alcuni incontri raccontati nei Vangeli, per comprendere il modo in cui Gesù dona speranza. In effetti, ci sono incontri che illuminano la vita e portano speranza. Può accadere, per esempio, che qualcuno ci aiuti a vedere da una prospettiva diversa una difficoltà o un problema che stiamo vivendo; oppure può succedere che qualcuno ci regali semplicemente una parola che non ci fa sentire soli nel dolore che stiamo attraversando. Ci possono essere a volte anche incontri silenziosi, in cui non si dice niente, eppure quei momenti ci aiutano a riprendere il cammino”: ancora dal Policlinico Gemelli, in via di ripresa, papa Francesco ha iniziato una nuova catechesi dell’Udienza generale, riguardanti gli incontri di Gesù.

Ed ha iniziato con l’incontro di Gesù con Nicodemo, narrato nel capitolo 3 del vangelo dell’apostolo Giovanni: “Comincio da questo episodio perché Nicodemo è un uomo che, con la sua storia, dimostra che è possibile uscire dal buio e trovare il coraggio di seguire Cristo. Nicodemo va da Gesù di notte: un orario insolito per un incontro.

Nel linguaggio di Giovanni, i riferimenti temporali hanno spesso un valore simbolico: qui la notte è probabilmente quella che c’è nel cuore di Nicodemo. E’ un uomo che si trova nel buio dei dubbi, in quell’oscurità che viviamo quando non capiamo più quello che sta avvenendo nella nostra vita e non vediamo bene la strada da seguire”.

Tale incontro è fondamentale nel vangelo giovanneo, che basa il suo racconto sulla ricerca della luce, anche se non comprende le parole di Gesù: “Nicodemo cerca dunque Gesù perché ha intuito che Lui può illuminare il buio del suo cuore. Tuttavia, il Vangelo ci racconta che Nicodemo non riesce a comprendere subito ciò che Gesù gli dice. E così vediamo che ci sono tanti fraintendimenti in questo dialogo, e anche tanta ironia, che è una caratteristica dell’evangelista Giovanni”.

Non le comprende, perché non riesce ad ‘uscire’ dai suoi pensieri: “Nicodemo non capisce quello che Gesù gli dice perché continua a pensare con la sua logica e le sue categorie. È un uomo con una personalità ben definita, ha un ruolo pubblico, è uno dei capi dei giudei. Ma probabilmente i conti non gli tornano più. Nicodemo sente che qualcosa non funziona più nella sua vita. Avverte il bisogno di cambiare, ma non sa da dove cominciare”.

Questo processo capita a tutti: “Se non accettiamo di cambiare, se ci chiudiamo nella nostra rigidità, nelle abitudini o nei nostri modi di pensare, rischiamo di morire. La vita sta nella capacità di cambiare per trovare un modo nuovo di amare. Gesù parla infatti a Nicodemo di una nuova nascita, che è non solo possibile, ma addirittura necessaria in alcuni momenti del nostro cammino”.

Il cambiamento inizia nel momento in cui Nicodemo capisce il significato della Parola di Gesù: “A dire il vero, l’espressione usata nel testo è già di per sé ambivalente, perché anōthen (ἄνωθεν) può essere tradotto sia ‘dall’alto’ sia ‘di nuovo’. Piano piano, Nicodemo capirà che questi due significati stanno insieme: se lasciamo che lo Spirito Santo generi in noi una vita nuova, nasceremo un’altra volta. Ritroveremo quella vita, che forse in noi si stava spegnendo”.

Ecco il motivo per cui il papa ha scelto questa figura: “Nicodemo ce la farà: alla fine egli sarà tra coloro che vanno da Pilato per chiedere il corpo di Gesù! Nicodemo è finalmente venuto alla luce, è rinato, e non ha più bisogno di stare nella notte”.

E’ un invito a non farsi spaventare dai cambiamenti: “Da una parte ci attraggono, a volte li desideriamo, ma dall’altra preferiremmo rimanere nelle nostre comodità. Per questo lo Spirito ci incoraggia ad affrontare queste paure. Gesù ricorda a Nicodemo (che è un maestro in Israele) che anche gli israeliti ebbero paura mentre camminavano nel deserto… Solo guardando in faccia quello che ci fa paura, possiamo cominciare a essere liberati”.

Quindi la libertà arriva attraverso il Crocifisso, che permette di rinascere: “Nicodemo, come tutti noi, potrà guardare il Crocifisso, Colui che ha sconfitto la morte, la radice di tutte le nostre paure. Alziamo anche noi lo sguardo verso Colui che hanno trafitto, lasciamoci anche noi incontrare da Gesù. In Lui troviamo la speranza per affrontare i cambiamenti della nostra vita e nascere di nuovo”.

Inoltre in questo giorno il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, ha inviato un messaggio al papa in occasione del 12^ anniversario dell’inizio del pontificato: “A tale riguardo, desidero richiamare gli spunti inediti di riflessione che il Suo alto Magistero ha posto al centro del dibattito in seno a importanti consessi multilaterali: alla Conferenza delle parti della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, al Vertice G7 presieduto dall’Italia, al G20, Vostra Santità ha portato un vibrante richiamo alla riscoperta della speranza, all’accantonamento di logiche di forza e di prevaricazione, a quelle istanze di rinnovamento dischiuse da un uso etico delle nuove tecnologie. Mentre al livello internazionale sembrano affievolirsi le ragioni del Diritto e di una corretta articolazione della convivenza tra gli Stati, la Sua voce è e resta più che mai necessaria”.

Ed ha ricordato il gesto dell’apertura della Porta santa in un carcere: “L’apertura della Porta Santa presso il carcere romano di Rebibbia all’inizio dell’anno giubilare, nonché la decisione di innalzare nei prossimi mesi agli onori degli altari Carlo Acutis e Pier Giorgio Frassati (figure molto amate, anche dalle giovani generazioni) ispirano nei miei concittadini viva gratitudine nei confronti del Vescovo di Roma, di cui tutti avvertiamo la particolare sollecitudine per l’Italia”.

Da Modena mons. Castellucci invita a vivere con speranza la morte

“Dopo il ritorno, il forte paga il debito con la morte. L’asciutta scritta latina dell’ultima scena del bassorilievo di Wiligelmo, nell’architrave della Porta dei Principi del Duomo di Modena, commenta così la morte di San Geminiano, avvenuta il 31 gennaio del 397, al ritorno dal suo viaggio a Costantinopoli, dove ‘il forte’ aveva guarito la figlia dell’imperatore. Il vescovo, secondo la tradizione, aveva 84 anni, all’epoca un’età molto avanzata: di qui deriva quella scritta, che fa pensare ad un passaggio dovuto (‘debito’), ma ormai atteso e naturale, senza la drammaticità da cui spesso è segnato l’ultimo respiro”.

Così inizia la lettera alla città (‘Più forte della morte è l’amore. La speranza non delude’) del vescovo di Modena-Nonantola, mons. Erio Castellucci, in occasione della festa del patrono san Geminiano, diacono del vescovo Antonio al quale successe per scelta dei suoi concittadini. Nel 390 (o, secondo altre datazioni nel 393) fu presente al concilio dei vescovi dell’Italia settentrionale, presieduto da sant’Ambrogio per condannare l’eretico Gioviniano. Per questo fu molto impegnato, insieme con altri vescovi della Romagna (san Mercuriale di Forlì, san Rufillo di Forlimpopoli, san Leo di Montefeltro e san Gaudenzio di Rimini), a combattere l’eresia ariana, molto diffusa in quella zona.

Nella lettera mons. Castellucci ha sottolineato che nel giorno della sua morte i concittadini non avevano un volto ‘triste’, in quanto era considerato come una nascita: “I personaggi che attorniano Geminiano, nella scena, mostrano infatti volti tristi ma non disperati e sono intenti a compiere i riti funebri in modo pacato. D’altronde il giorno della morte di un martire o, come nel caso del nostro patrono, di un cristiano con la fama di santità, veniva chiamato il ‘dies natalis’, il giorno della nascita”.

Appunto, la lettera prende spunto dal significato della morte: “Nella nostra cultura occidentale, piuttosto efficientista, vige una sorta di censura della morte e del morire. Siamo certo convinti della fragilità della condizione umana, così come la dipinge la Bibbia: ‘come l’erba sono i giorni dell’uomo, come il fiore del campo, così egli fiorisce’;

eppure i meccanismi di difesa che si attivano di fronte all’ultima soglia sono parecchi: alcuni reagiscono al pensiero della morte cercando di scacciarlo, di distrarsi e magari anche di stordirsi; c’è chi cade nel cinismo, maturando un’indifferenza di tipo stoico che vorrebbe raggiungere l’insensibilità, così da evitare la sofferenza; e c’è chi rimanda la questione a tempi peggiori, auspicando di doverla affrontare il più tardi possibile, quando sarà purtroppo inevitabile, o affidandosi eventualmente alla scaramanzia o alle pratiche magiche e superstiziose”.

E’ un invito a vivere la morte senza angoscia, come ha fatto san Francesco o sant’Alfonso de’ Liguori: “Pochissimi, è vero, arriverebbero a definire la morte con l’affettuoso appellativo di ‘sorella’, come fece san Francesco d’Assisi otto secoli fa nel ‘Cantico delle creature’; e tuttavia molte persone la sostengono con dignità, senza cadere nella disperazione e, quando possibile, cercando di prepararsi. Uno dei libri più diffusi e letti per due secoli, da quando lo pubblicò nel 1758, è appunto ‘Apparecchio alla morte’ di sant’Alfonso Maria de’ Liguori: un manuale corposo, che offre tanti suggerimenti su come ci si possa avvicinare nella maniera più adeguata a questa soglia”.

Per questo il cristianesimo invita a vivere la morte come segno di speranza: “La fede cristiana, da parte sua, offre una prospettiva di grande speranza: la morte non è un muro contro cui vanno ad infrangersi sogni, sacrifici, desideri, sofferenze e gioie, progetti e speranze; è piuttosto un ponte, alto e vertiginoso, che conduce a un’altra sponda, dove troverà pienezza ciò che è stato costruito giorno per giorno nella vita terrena. Tutti i germi di amore e di bene, tutti i gesti di solidarietà e di giustizia, avranno compimento. Cristo arriva a dire che nemmeno il dono di un bicchiere di acqua fresca resterà senza ricompensa”.

La morte si trasforma nella resurrezione: “Per chi crede nel Signore morto e risorto, la morte è ormai parola penultima: inquietante e tuttavia penultima. L’ultima parola è la vita, la risurrezione, l’amore che vince. La speranza nella vita eterna sostiene i credenti e apre prospettive per tutti, anche per le moltitudini che in questa vicenda terrena sono emarginate e scartate, subiscono angherie e ingiustizie, nascono e vivono in situazioni svantaggiate e degradate. Se la morte fosse davvero la fine di tutto, non ci sarebbe riscatto per loro e trionferebbero per sempre coloro che operano il male. Questa è la ‘grande speranza’ cristiana: non solo per se stessi e per i propri cari, ma per tutti gli esseri umani”.

Anche la diffusione delle cure palliative offre una visione più aperta ed il vescovo ha invitato a potenziare queste esperienze per sconfiggere la cultura di morte: “Queste esperienze devono essere potenziate: oggi il sostegno economico è insufficiente ed è ripartito in modo diseguale sul territorio italiano. Coloro che vi operano, attestano che l’accompagnamento alla morte, sia del malato sia dei familiari, dei volontari e degli stessi operatori sanitari, può assumere una qualità e una profondità impensabili.

Più si creano reti di relazione autentiche ed intense attorno alla persona che si sta avvicinando alla morte e nei suoi cari, meno si creano le condizioni per chiedere l’eutanasia o il suicidio assistito. Senza negare che certe sofferenze siano di per sé devastanti e difficilissime da sopportare (quindi senza mai cadere nei facili giudizi sulle scelte altrui) ciascuno di noi ha sperimentato come un dolore, anche forte, si possa attraversare evitando la disperazione, quando si è sostenuti da una mano amica”.

E’ stato un invito a creare reti di ‘prossimità’ in grado di formare i ‘pellegrini di speranza’: “Il nostro territorio modenese è ricchissimo di esperienze di prossimità, anche nell’ambito dell’accompagnamento di coloro che percorrono l’ultimo tratto di vita e dei loro cari.

Sono migliaia le case nelle quali un familiare è sostenuto premurosamente, sono centinaia le strutture di assistenza e di cura, non si contano le collaboratrici domestiche impegnate nell’aiuto agli anziani e agli ammalati ed è stupefacente la dedizione di tantissimi volontari, anche nelle nostre comunità cristiane, religiose e civili.

Non sarà mai sufficiente l’espressione della nostra gratitudine. In particolare desidero ricordare un’attività poco conosciuta delle parrocchie: la cura degli ammalati, delle persone sole e dei familiari di chi subisce lutti”.

Papa Francesco: Dio si manifesta nell’umiltà

“E penso a tanti Paesi che sono in guerra. Sorelle, fratelli, preghiamo per la pace. Facciamo di tutto per la pace. Non dimenticatevi che la guerra è una sconfitta. Sempre. Noi non siamo nati per uccidere, ma per far crescere i popoli. Che si trovino cammini di pace. Per favore, nella vostra preghiera quotidiana, chiedete la pace. La martoriata Ucraina … quanto soffre. Poi, pensate alla Palestina, a Israele, al Myanmar, al Nord Kivu, Sud Sudan. Tanti Paesi in guerra. Per favore, preghiamo per la pace. Facciamo penitenza per la pace”: anche oggi al termine dell’udienza generale papa Francesco ha chiesto di pregare per la pace, ribadendo con poca voce, in quanto ancora affetto da bronchite, specificando che occorre ‘ascoltare il grido dei fratelli.

Questo invito riprende le parole scandite ieri nel collegamento con il festival di Sanremo prima del duetto tra la cantante israeliana Noa e la cantante palestinese Mira Awad, in ebraico, arabo e inglese sulle note della canzone ‘Imagine’ di John Lennon: “La musica è bellezza, la musica è strumento di pace. E’ una lingua che tutti i popoli, in diversi modi, parlano e raggiunge il cuore di tutti. La musica può aiutare la convivenza dei popoli… Le guerre distruggono i bambini. Non dimentichiamo mai che la guerra è sempre una sconfitta”.

Ha concluso il messaggio invitando gli spettatore a vivere il festival di Sanremo con uno spirito di pace: “La musica può aprire il cuore all’armonia, alla gioia dello stare insieme, con un linguaggio comune e di comprensione facendoci impegnare per un mondo più giusto e fraterno”.

Ed oggi nell’udienza generale, continuando il ciclo di catechesi per l’Anno Giubilare, ‘Gesù Cristo nostra speranza’, ha affrontato il tema della nascita di Gesù e la visita dei pastori, raccontata dall’evangelista Luca eletta sempre da don Pierluigi Giroli, a causa della bronchite:

“Il Figlio di Dio entra nella storia facendosi nostro compagno di viaggio e inizia a viaggiare quando è ancora nel grembo materno. L’evangelista Luca ci racconta che appena concepito andò da Nazaret fino alla casa di Zaccaria ed Elisabetta; e poi, a gravidanza ormai compiuta, da Nazaret a Betlemme per il censimento. Maria e Giuseppe sono costretti ad andare nella città del re Davide, dove era nato anche Giuseppe. Il Messia tanto atteso, il Figlio del Dio altissimo, si lascia censire, cioè contare e registrare, come un qualunque cittadino. Si sottomette al decreto di un imperatore, Cesare Augusto, che pensa di essere il padrone di tutta la terra”.

Riprendendo il racconto dell’infanzia di Gesù di papa Benedetto XVI, papa Francesco ha sottolineato che Dio si manifesta in un luogo nascosto ma fondamentale: “Dio che viene nella storia non scardina le strutture del mondo, ma vuole illuminarle e ricrearle dal di dentro. Betlemme significa ‘casa del pane’. Lì si compiono per Maria i giorni del parto e lì nasce Gesù, pane disceso dal cielo per saziare la fame del mondo… Tuttavia, Gesù nasce in un modo del tutto inedito per un re… Il Figlio di Dio non nasce in un palazzo reale, ma nel retro di una casa, nello spazio dove stanno gli animali”.

La manifestazione al mondo avviene attraverso i pastori: “Luca ci mostra così che Dio non viene nel mondo con proclami altisonanti, non si manifesta nel clamore, ma inizia il suo viaggio nell’umiltà. E chi sono i primi testimoni di questo avvenimento? Sono alcuni pastori: uomini con poca cultura, maleodoranti a causa del contatto costante con gli animali, vivono ai margini della società. Eppure essi praticano il mestiere con cui Dio stesso si fa conoscere al suo popolo”.

Il ‘mondo’ non ha trovato posto per accogliere Gesù: “I pastori apprendono così che in un luogo umilissimo, riservato agli animali, nasce il Messia tanto atteso e nasce per loro, per essere il loro Salvatore, il loro Pastore. Una notizia che apre i loro cuori alla meraviglia, alla lode e all’annuncio gioioso”.

La catechesi è chiusa dall’appello a comprendere il significato della nascita di Gesù: “Fratelli e sorelle, chiediamo anche noi la grazia di essere, come i pastori, capaci di stupore e di lode dinanzi a Dio, e capaci di custodire ciò che Lui ci ha affidato: i talenti, i carismi, la nostra vocazione e le persone che ci mette accanto. Chiediamo al Signore di saper scorgere nella debolezza la forza straordinaria del Dio Bambino, che viene per rinnovare il mondo e trasformare la nostra vita col suo disegno pieno di speranza per l’umanità intera”.

(Foto: Santa Sede)  

Seconda domenica  di Natale: il Verbo si fece carne!

La liturgia oggi ci invita a meditare il Natale dal prologo del Vangelo  di Giovanni: una descrizione altamente filosofica e teologica che fa gustare la grandezza del mistero della nascita di Gesù, vero Dio e vero uomo. ‘In principio era il Verbo’: il termine ‘Verbo’ traduce in italiano la parola ‘Verbum’, in greco ‘Logos’; questo termine esprime sia la parola così come  esce dalle labbra sia il concetto che esso vuole significare. Ogni termine esprime un ‘concetto od idea’; la grande ‘Parola’ o ‘Verbum’ divino esprime la Sapienza eterna del Padre, che è eterno; il grande poeta Dante nella Divina Commedia sulla porte dell’inferno evidenzia la scritta: ‘Fecimi la Divina potestate (Padre), la Somma Sapienza (Figlio) e il Primo Amore (lo Spirito santo)’.

Gesù  é il Verbum o Sapienza eterna incarnatasi nel seno purissimo della vergine Maria. La creazione del mondo operata da Dio è opera della sapienza eterna: ‘Tutto è stato fatto per mezzo di Lui e senza di Lui nulla è stato fatto di ciò che esiste’. La nascita di Gesù è perciò la luce divina che è venuta per irradiare il cammino  dell’uomo, che, a causa del peccato, viveva nelle tenebre, nell’oscurità più profonda perchè lontano da Dio, fonte della luce vera. Il prologo di questo Vangelo costituisce una sintesi mirabile di tutto il Vangelo di Giovanni.

La nascita od incarnazione del Logos (o sapienza eterna) fu preparata ed annunziata da Giovanni Battista, che non era la luce ma era nato per rendere testimonianza alla Luce vera. Quando qualcuno cominciò a scambiare Giovanni Battista per il Messia, Giovanni evidenziò: ‘Io non sono degno neppure di sciogliere  i legacci dei suoi sandali … io battezzo con acqua ma Gesù, il messia, battezzerà con lo spirito santo e il fuoco!’

La nascita di Gesù era stata preannunciata dai profeti, che parlavano in nome di Dio; il popolo purtroppo, che viveva spesso nelle tenebre trascurando l’insegnamento dei profeti, aveva con il tempo deformato la figura del Messia trasformandolo in un ‘guerriero’, un re alla maniera umana. Gesù, sapienza eterna, nato dalla vergine Maria a Betlemme, come predetto dai profeti, venne tra i suoi, ma questi non lo riconobbero, non si trovò posto per Lui nella città e fu costretto a nascere in una grotta.

La sua nascita fu annunziata da una luce: ai pastori (gli angeli), ai magi (una stella cometa) e subito vennero ad adorarlo. L’incarnazione del Verbo è perciò un evento, un fatto incontrovertibile d cui si può prendere atto e non scaturisce da una speculazione filosofica e scientifica ma da un intervento particolare di Dio. Questo evento divino non si dimostra ma si accetta con fede viva e profonda, chi lo accetta sarà chiamato ad essere ‘figlio di Dio’ innestandosi a Cristo Gesù con il battesimo.

L’evento dell’incarnazione è avvenuto nel tempo ma non è legato al tempo: è un mistero dell’amore di Dio. Nella sua infinita misericordia Dio ha voluto salvare l’uomo ma nel rispetto della sua libertà: Dio vuole tutti salvi ma non costringe nessuno. Ciascuno di noi deve fare la sua scelta: accogliere o meno l’opera di Cristo Gesù non con le parole ma con i fatti; una persona non si salva perchè è giusta, osserva le leggi, ma si salva solo se accoglie Cristo e il suo messaggio di amore: ‘A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio’.

Accogliere Cristo significa innestarsi a Lui con il battesimo e amare Dio ed i fratelli in nome di Dio; Dio infatti è amore. All’inizio del nuovo anno, amico che leggi o ascolti, ti invito a camminare con il piede giusto: ama e sarai dalla parte di Cristo Gesù. La preghiera, il riflettere sulla parola di Dio, partecipare alla Messa sono mezzi insostituibili per vivere ed accogliere l’evento dell’Incarnazione del Verbo eterno.

Natale del Signore: Alleluia! Oggi è nato il Salvatore!

Oggi è la solennità del Natale, giorno di vera speranza perchè il Bambino che contempliamo adagiato nella mangiatoia è il bambino Gesù, disceso dal cielo per la nostra salvezza. E’ questo il messaggio degli Angeli ai pastori; è il messaggio all’umanità; è autentica la nostra fede se accogliamo con fede il messaggio di Natale. Mentre Maria e Giuseppe erano a Betlemme si compirono per lei i giorni del parto e diede alla luce il figlio primogenito, lo avvolse in fasce, lo depose in una mangiatoria.

Questo Bambino, nato in una grotta, è il Salvatore: Cristo Signore e gli Angeli cantarono: ‘Gloria a Dio nell’altro dei cieli e pace agli uomini, che Egli ama’. Nell’umile e disadorna grotta di Betlemme lo hanno potuto incontrare solo poche persone, ma Egli è nato per tutti giudei e pagani, ricchi e poveri, vicini e lontani, credenti e non credenti. Ciò che è necessario, ciò che conta è dire il nostro ‘sì’, come Maria, perchè la luce divina rischiari il cuore. In quella notte ad accogliere il Verbo incarnato furono solo Maria e Giuseppe, che lo avevano atteso con amore, e i pastori, gente umile, che trascorrevano la notte vegliando accanto al gregge.

Una piccola comunità che accorse alla grotta per adorare il bambino, ma che rappresenta la Chiesa, gli uomini amati dal Signore. Il Natale è proprio la festa della luce, la festa dell’amore; Gesù è la luce viva che si propaga ovunque perchè Egli è venuto per salvare tutti. La liturgia oggi ci parla di una luce diversa, speciale, mirata a richiamare gli uomini di buona volontà. Una luce orientata verso il ‘noi’, quel ‘noi’ che è l’umanità per la quale il Verbo si è incarnato, il Figlio di Dio si è fatto uomo. Il ‘noi’ è la Chiesa, la grande famiglia dei credenti: in essa ‘chi crede e sarà battezzato, sarà salvo’.

Questo ‘noi’ è la Chiesa, la famiglia dei credenti in Cristo, che hanno atteso con speranza la nascita del salvatore ed oggi celebrano nel mistero l’attualità di questo evento salvifico, questa Chiesa chiamata ad essere lievito di riconciliazione e di pace nel mondo intero. Il ‘noi’ della Chiesa oggi sprona a superare la mentalità egoistica, a promuovere il bene comune e rispettare soprattutto i deboli. Il ‘noi’ della Chiesa oggi invita tutti i popoli ad abbandonare ogni logica di violenza e di vendetta e a vivere l’amore distintivo vero del cristiano. 

L’umanità, che aveva atteso con speranza la nascita del salvatore, finalmente ha visto la luce vera: ecco il mistero del Natale. La luce del primo Natale fu come un fuoco acceso nella notte: da questo fuoco inizia la storia millenaria della Chiesa che nel suo cammino attraverso i secoli è chiamata ad essere fonte di luce per l’umanità. I pastori andarono, trovarono il Bambino, fecero i loro doni e tornarono pieni di gioia, di serenità, di amore; lo stesso faranno i Magi, che arrivano dall’Oriente, guidati da una luce, una stella cometa, la luce che porta a Cristo Gesù.

‘Gloria a Dio, pace agli uomini amati dal Signore’ è stato il grido che echeggiò la prima volta nella grotta di Betlemme; questo grido parla proprio di un avvicinamento  singolare, straordinario, unico al mondo di Dio verso l’uomo. Questa notte santa, contrassegnata dalla luce che promana dalla grotta,  segna l’inizio dell’era nuova, della santificazione dell’uomo per mezzo di Cristo Gesù, ed invita la Chiesa, l’uomo di oggi, a guardare ancora una volta verso la Terra santa, dove Gesù è nato, perchè i suoi abitanti, ebrei e musulmani, abbandonino finalmente la logica della violenza e della vendetta e si impegnino in una logica di amore, solidarietà e condivisione.

Il Natale, è il ‘noi’ della Chiesa, che vive oggi guardando questo mare Mediterraneo, divenuto non più mare che unisce ed affratella, ma cimitero per tanta gente affamata che cerca libertà, pace, lavoro e vita serena; il vero credente oggi sente il dovere religioso e umano di elevare a Dio la supplica perchè la pace di Cristo Gesù affratelli tutti i popoli. E’ veramente Natale, se è un Natale di pace e di amore a tutti i livelli. Ecco il mio voto augurale e quello della Chiesa tutta: Buon Natale di pace e di amore.

Papa Francesco: gioia grande per la nascita del Salvatore

Nel messaggio natalizio ‘Urbi et Orbi’ da piazza San Pietro papa Francesco ha ripreso le parole annunciate dall’Angelo ai pastori per un annuncio che ha cambiato il mondo: “Lo sguardo e il cuore dei cristiani di tutto il mondo sono rivolti a Betlemme; lì, dove in questi giorni regnano dolore e silenzio, è risuonato l’annuncio atteso da secoli:

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