Con san Francesco il presepe è promessa di pace

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Tommaso da Celano innanzitutto contestualizza l’episodio nella scelta esistenziale di Francesco d’Assisi da lui stesso ricordata e trasmessa ai frati poco prima di morire nel Testamento, ossia ‘vivere secondo la forma del santo Vangelo’ seguendo le orme del Signore nostro Gesù Cristo (cf. 1Pt 2,21).

Quindi non si tratta di una imitazione mediante una osservanza letterale e pedissequa del dettato evangelico, ma come ha ben illustrato André Vauchez, di una ‘osservanza spiritualmente’ del Vangelo; infatti per l’Assisiate la lettera era importante – tanto da avere davanti ad essa un atteggiamento quasi integralista – però non per se stessa, ma in quanto mediante essa è possibile accedere alla Parola che è ‘spirito e vita’. 

Proseguendo il racconto l’autore richiama l’importanza della memoria: infatti, usandone il toponimico, si deve riconoscere che Francesco di Pietro di Bernardone, il figlio del mercante, pur non essendo un acculturato come ad esempio il coevo Antonio di Padova, era alfabetizzato, cioè capace di leggere e scrivere.

Per una persona di una cultura bassa o mediocre, simile alla sua, fondamentale risultava la memoria, luogo mediante cui ritenere le nozioni. A tale condizione, dovuta a un fatto culturale, Francesco darà un valore spirituale affermando che è dovere del credente ritenere a memoria le parole del Signore mentre colui che vuole toglierle dalla memoria facendole dimenticare è nientemeno che il diavolo. 

Il centro dell’affezione di Francesco è il Signore Gesù Cristo e la sua fu una scelta non semplicemente religiosa o spirituale, ma precisamente cristiana nella Chiesa; e per questo volle celebrare solennemente il Natale. Per fare ciò coinvolge uno dei tanti laici che erano affascinati dalla sua proposta di vita, un certo Giovanni; non secondaria l’affermazione che era un nobile. Sappiamo che il giovane Francesco viveva fortemente il desiderio tipico della sua classe ormai arricchitasi, e quindi anche di suo padre, di diventare nobile, cioè cavaliere.

Tanto era forte tale aspettativa che ne fece un vero e proprio stile di vita vivendo una vera e propria ideologia cavalleresca pur non appartenendo a tale ceto che in quei tempi vedeva spesso i proprio beni erosi proprio dai mercanti! Anche dopo il cambiamento di vita per seguire le orme di Gesù tale aspetto non scomparve del tutto, ma rimase assumendo le caratteristiche della cultura cortese.

Quindi non si è lontano dal vero nel dire che frate Francesco non era nobile come Giovanni, ma entrambi erano accomunati da quel’afflato culturale fatto di cortesia e gentilezza che si intravvede anche nel racconto di Tommaso da Celano.

Il Santo d’Assisi desidera ‘fare memoria di quel Bambino che è nato a Betlemme’: l’espressione richiama la liturgia eucaristica in cui appellandosi al dettato del Vangelo è riportato l’invito di Gesù a compiere quanto da lui fatto nell’ultima cena ‘in memoria’ di lui. Quindi molto di più di un semplice ricordare, ma un compiersi di nuovo di quanto compiutosi nel passato, o meglio ancora un rendersi presente e contemporaneo l’atto salvifico di Cristo.

Quanto avvenuto a Betlemme, ossia nella storia, raggiunge la storia di Francesco, ma anche quella dell’agiografo e del lettore, fino a noi oggi che stiamo considerando tale evento.  Accanto a ciò vi è il desiderio di Francesco di ‘in qualche modo intravedere con gli occhi del corpo’. Per l’Assisiate il vedere con gli occhi del corpo è essenziale; come si intravvede nei suoi scritti in lui vi è un’elementare capacità speculativa, ma più importante è l’aspetto plastico del vedere.

Un vedere che come afferma nella prima Ammonizione riferendosi al pane eucaristico può fermarsi a se stesso oppure approfondirsi nel credere che non esclude il vedere – come normalmente si pensa – ma diventa un vedere più profondo. Infatti per Francesco la salvezza sta nell’accompagnarsi del vedere al credere ossia dell’affiancarsi agli occhi del corpo gli occhi dello spirito. 

A Greccio vuole vedere ‘i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato’, cioè l’abbassamento di colui che i cieli e la terra non possono contenere nella condizione umana. Si tratta di quel cammino di abbassamento compiuto da Gesù che affascina Francesco tanto da volerlo seguire in tale via facendosi fratello minore.

Tale discesa è fino ad essere ‘adagiato in una mangiatoia’: l’originale latino è praesepe e tale termine risulta già così caratterizzante che darà il nome a tutto l’avvenimento della natività. Importante ricordare che certe immagini raffigurano tale mangiatoia ben squadrata e in pietra come una piccola tomba, mentre il bambino Gesù, fasciato al modo di un morto, è nell’atto di esservi posto: il tutto risulta un richiamo della Pasqua sia come anticipo della deposizione nel sepolcro, ma anche di uscita da esso nel momento della resurrezione.

A questo punto della narrazione sono menzionati anche ‘il bue e l’asinello’, una presenza sconosciuta nei Vangeli ma ben presente nella letteratura dei Padri della Chiesa; e questo conferma che se l’aspetto evangelico fu uno degli strati culturali e spirituali di frate Francesco d’Assisi, ad esso va affiancato quello patristico-liturgico tanto che lo stesso Vangelo egli lo ascolta e riceve mediato dalla liturgia.

L’origine biblica dell’asino e il bue è il passo del profeta Isaia in cui si afferma che ‘il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone; ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende’ (Is 1,3); saranno i commenti successivi a dire che con essi sono raffigurati gli ebrei circoncisi che portano il giogo della legge e i gentili, ossia gli incirconcisi. Tale presenza presso la mangiatoia dell’asino e il bue quindi è un annuncio della redenzione rappacificante compiuta dalla Pasqua, come san Paolo ben sintetizza nella sua lettera agli Efesini:

Perciò ricordatevi che un tempo voi, pagani per nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi perché tali sono nella carne per mano di uomo, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo.

Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia.

Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito. Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio. Quindi l’asino e il bue presso la mangiatoia sono una promessa di pace che si compirà con l’accoglienza della Pasqua!

Tommaso da Celano continua narrando che in quella notte quanti arrivarono per festeggiare il Natale portavano ‘ceri e fiaccole per rischiarare quella notte’, proprio come avveniva nelle chiese per le celebrazioni e quindi il contesto è quello liturgico in cui – come già ricordato – il ‘memoriale’ è incontro tra passato e presente. Infatti Tommaso da Celano afferma semplicemente che ‘Greccio è divenuto come una nuova Betlemme’ in cui gaudio, canti, lodi, cori festosi si intrecciano davanti al ‘rinnovato mistero’. 

Il centro di tutto è la santa Messa celebrata mediante un altare portatile sulla mangiatoia; il Vangelo è cantato da san Francesco e ciò, afferma l’agiografo, perché era diacono. Più precisamente il termine latino usato è levita, evidenziato dal fatto che l’Assisiate ‘si veste da levita’: a questo proposito sorge la domanda circa il fatto che frate Francesco fosse diacono. Certamente non era sacerdote; tuttavia nei suoi scritti distinguendo i laici dai chierici egli si colloca tra quest’ultimi; inoltre scrivendo ai chierici usa la prima persona plurale considerandosi come uno di loro.

Ma questo potrebbe essere usato anche nel caso di chierici minori che avevano ricevuto semplicemente la tonsura, ossia il caratteristico taglio circolare dei capelli che portavano i membri del clero. Ma proprio l’uso che Tommaso da Celano fa del termine levita – che in quel tempo era sinonimo di diacono, tanto che si definiva san Lorenzo levita et martyr, così come si celebrava sanctus Stefanus novi testamenti levita primus et martyr – delucida che la consapevolezza di frate Francesco di essere chierico gli derivava dall’essere diacono.

E come detto sopra Tommaso scrive a pochi anni dalla morte dell’Assisiate e se poteva con una certa libertà narrare la giovinezza o episodi di poco rilievo, un fatto così evidente non poteva essere raccontato senza incorrere nella smentita di coloro che lo conobbero.

Come diacono Francesco percepisce il compito di annunciare il Vangelo e così “parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme”. Questa città di Giuda è ripetuta spesso e al lettore o ascoltatore attento non passava inosservato che proprio in quella erano in atto lotte per la riconquista dei luoghi santi in cui si svolse la vicenda terrena di Gesù.

Ed impossibilitati a raggiungere quei luoghi gradualmente avvenne una vera e propria translatio terrae sanctae mediante la ricostruzione dei luoghi santificati da Gesù in Occidente: così – giusto per fare qualche esempio – la casa di Nazareth fu portata a Loreto, il Calvario alla Basilica di Santa Croce in Roma e il Cenacolo nella Basilica Lateranense.  

La predicazione del Santo è descritta come infervorata, quasi teatrale: la finale di Betlemme diviene come un belato di pecora, il nome di Gesù come una dolcezza per cui ‘passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e deglutire tutta la dolcezza di quella parola’. Ciò corrisponde esattamente alla modalità propria di frate Francesco di predicare: non secondo l’ars praedicandi che si dilettava ad esempio in distinzioni erudite cadendo il predicatore spesso nell’autocompiacimento, ma secondo l’ars concionandi propria di coloro che arringavano il popolo in piazza.

A Greccio Francesco mediante il ‘concione’, ossia un discorso pubblico, cercava di trasmettere agli uditori non solo il contenuto del Natale ma anche un clima emotivo così da suscitare l’affezione della gente al bambino Gesù. 

Il racconto termina con la narrazione di una visione avuta da uno dei presenti, ossia che un bambino privo di vita giacente nella mangiatoia fu risvegliato da san Francesco da un ‘sonno profondo’. L’agiografo fa la sua interpretazione dicendo che ciò ben rappresentò quanto avvenne grazie al Santo, ossia che ‘il fanciullo Gesù fu risuscitato nei cuori di molti, che l’avevano dimenticato, e fu impresso profondamente nella loro memoria amorosa’.

La celebrazione del Natale a Greccio diventa benedizione e così grazie al solo contatto con il fieno che in quella notte fu posto nella mangiatoia diverse donne ‘hanno felicemente partorito’. La celebrazione del natale di Gesù è diventata la grazia di una felice nascita per l’uomo! 

Presto il luogo stesso divenne un memoriale e al posto della mangiatoia con l’asino e il bue fu costruito un altare e edificata una chiesa perché – come scrive frate Francesco nella prima Ammonizione – ogni giorno il Signore nel’Eucaristia possa scendere tra gli uomini così da rimanere sempre in mezzo a loro. 

(Tratto dal sito Il Cattolico)

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