Iraq: 30 anni di guerra

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Nella notte tra il 16 e il 17 gennaio del 1991 una coalizione a guida statunitense lanciava i bombardamenti su Baghdad. Iniziava una guerra di cui restano ancora tangibili le conseguenze, da cui nasceva l’Ong ‘Un Ponte Per’.

In quello che sarebbe stato il primo conflitto della storia trasmesso in diretta televisiva sarebbero state sganciate 90.000 tonnellate di bombe, segnando un nuovo punto di non ritorno rispetto a cosa era ritenuto accettabile dall’opinione pubblica globale. L’immaginario che quella guerra contribuì a creare avrebbe gettato le basi per la lunga serie di interventi militari occidentali in Medio Oriente negli anni che seguirono.

In quei giorni terribili nasceva l’associazione pacifista italiana ‘Un Ponte Per’, divenuta poi anche Ong, grazie all’iniziativa volontaria di donne e uomini che scelsero di non cedere al silenzio complice di fronte allo scempio che si stava commettendo, anche a causa del contributo militare italiano.

Avviata come campagna di solidarietà verso la popolazione colpita, con alcune iniziative di disobbedienza civile (come l’importazione illegale di datteri iracheni in violazione dell’embargo dichiarato sull’Iraq) l’associazione si sarebbe in seguito strutturata come Organizzazione non governativa, continuando ad operare e restare a fianco del popolo iracheno per i successivi 30 anni.

Oggi essa continua a lavorare nella solidarietà, nella cooperazione, nello sviluppo e nella costruzione della pace in un paese che ancora porta sulla pelle le cicatrici di quella guerra.

Di questo si è parlato in alcuni  eventi che ‘Un Ponte Per’ ha organizzato per ricordare il trentennale della sua nascita, ma soprattutto per celebrare la forza e il coraggio di quei popoli provati dalle guerre a fianco dei quali ha camminato in questi decenni, iniziato con un appuntamento in streaming intitolato ‘Lo spartiacque. Riflessioni su una guerra che ha rifondato il mondo’, in cui è stata ripercorsa la stagione di opposizione a quella guerra con alcuni protagonisti del movimento pacifista di allora, come hanno sottolineato Fabio Alberti e Alfio Nicotra:

“Il cielo di Baghdad squarciato e illuminato a giorno dai bombardamenti nella notte fra il 16 e il 17 gennaio 1991 è una di quelle immagini-simbolo che rappresentano la storia fotografica del secolo scorso.

Una breve guerra – quella del Golfo – che devastò nuovamente l’Iraq, subito dopo la fine del lungo conflitto con l’Iran, iniziato nel settembre del 1980 e conclusosi solo nel 1988. Due guerre sanguinose e distruttrici, provocate entrambe dall’arroganza e dalla mancanza di capacità di analisi del feroce rais di Baghdad, Saddam Hussein. Uno dei dittatori più spregevoli fra i tanti autocrati del Medio Oriente.

Una guerra combattuta da una coalizione capeggiata dagli Stati Uniti, sotto egida delle Nazioni Unite per liberare il Kuwait invaso nell’agosto 1990, che Saddam si era rifiutato di abbandonare nonostante le pressioni e gli ultimatum”.

Il conflitto decretò la supremazia degli Stati Uniti e lo sgretolamento dell’Urss: “… inaugurò il decennio della supremazia unipolare degli Stati Uniti, dato che proprio in quell’anno l’Unione Sovietica, già sconfitta nella Guerra Fredda, implose, sgretolandosi in quindici stati diversi. Per molti analisti dell’epoca, proprio quell’intervento militare avrebbe dovuto sancire la vittoria del modello occidentale, basato sul liberalismo politico e sul liberismo economico.

Si apriva un’epoca in cui il ‘benevolo gendarme’ americano avrebbe promosso i nostri valori e difeso le libertà, grazie al suo strapotere economico e militare. Del resto, chi poteva mai opporvisi? La Russia era solo l’ombra del vecchio rivale sovietico, la Cina ancora debole e povera, nessun avversario da temere veramente.

Illusioni, appunto, smentite dalle durezze del nuovo secolo. A dimostrazione che niente può essere costruito di solido, se le fondamenta sono solo quelle dell’azione militare. Perché anche un conflitto ‘per liberare’ qualcuno (il Kuwait, in questo caso) e non già per conquistare, se privo di un vero disegno politico che punti a costruire una pace positiva è destinato a lasciare irrisolti i problemi. O ad aggravarli”.

Infine il conflitto del Golfo inaugurò la stagione della ‘coalizione internazionale’: “Ma l’intervento della coalizione internazionale nel Golfo è significativo dato che ha inaugurato la lunga stagione delle missioni internazionali, degli ‘interventi umanitari’, della ‘responsabilità di proteggere’ da parte della comunità internazionale: dalla Somalia, alla Bosnia, al Kosovo, al Darfur… e poi, dopo la ferita degli attentati dell’11 settembre, la stagione della rabbia statunitense: la guerra al Terrore, gli interventi in Afghanistan, la sciagurata invasione anglo-americana proprio dell’Iraq nel 2003, per ‘finire il lavoro’ lasciato a metà con Saddam Hussein nel 1991”.

Una stagione che ancora continua a mietere vittime: “Con gli occhi di oggi, in questa stagione del disincanto, stretti fra crisi economica, pandemia, un senso di confusione sulle strategie dell’Occidente a livello globale, quelle illusioni ci appaiono nella loro nitida fragilità.

Abbiamo ormai capito, in questi ultimi due decenni, che la superiorità tecnologica militare permette sì di annichilire un nemico ma mai di controllare veramente un territorio, se non si riesce a coinvolgere positivamente la popolazione locale e se non si rimuovono le cause profonde che lacerano tanti paesi e spingono allo scontro le comunità religiose, etniche e culturali che abitano in quelle zone”.

La riflessione si conclude con un netto giudizio negativo di questa guerra, che a distanza di anni ancora è causa di morte: “L’idea che il modello liberale fosse destinato a diffondersi inevitabilmente a livello globale ha lasciato il posto alla consapevolezza della forza e capacità di resilienza dei sistemi autocratici. E, allo stesso tempo, a un senso di fragilità delle nostre stesse democrazie, come evidenziato dalle spinte populiste che attraversano Europa e Stati Uniti…

Siamo passati in pochi decenni dalla voglia di trasformare in meglio il mondo alla riluttanza ad agire anche dinanzi alla peggior ferocia… Perché ricostruire è uno sforzo generazionale che deve coinvolgere tutte le parti in gioco: vincere tutti assieme o perdere tutti”.

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