«George Orwell non ha capito che la dittatura del pensiero sarebbe arrivata non dallo Stato, ma dai privati. E che per questo è tanto più difficile combatterla»
“Il male predica la tolleranza finché non arriva a posizioni di comando, poi cerca di mettere a tacere il bene” (Mons. Charles J. Chaput, Arcivescovo emerito di Philadelphia).
Al mondo di oggi il compito più difficile è capire la differenza tra il bene e il male, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, sapere chi sono gli amici e chi i nemici. Capire questo è il primo passo per la libertà, alla luce degli ultimi tempi un passo sempre più fondamentale per l’integrità e il futuro dell’umanità.
“I malvagi, essendo figli delle tenebre sono molto astuti. Citano la Bibbia, parlano di amore, incantano con le emozioni, desiderano la pace e la prosperità universale, sono convinti spiritualisti, filantropi e difensori dell’ambiente. Con una fede socializzata senza croce” (Don Salvatore Lazzara).
“La democrazia, in questa società polarizzata è soltanto un concetto che racchiude i parametri stabiliti dalla ideologia dominante. Chi non si allinea, è nazista, fascista, razzista, ignorante. La libertà di parola, ha il crisma della verità solo se appoggia il loro pensiero” (Don Salvatore Lazzara – Twitter, 7 gennaio 2021).
Il discernimento più difficile rimane distinguere il bene dal male, stare in isolamento senza isolarsi, aprire il cuore senza esporsi al contagio infetto dell’egoismo, cercare la libertà senza diventare delle tartarughe della libertà di espressione. Essere veramente liberi cittadini o credersi liberi come gli schiavi del panem et circensis è il dilemma, per dirlo con le parole del poeta latino Giovenale, che sintetizza le aspirazioni della plebe nell’antica Roma, o in epoca contemporanea in riferimento a strategie politiche demagogiche di governi (o, peggio, di società di comunicazione private): il popolo due sole cose ansiosamente desidera: pane e giochi circensi (“[…] [populus] duas tantum res anxius optat panem et circenses“, Satira X).
Su quello che è successi il 6 gennaio 2021 a Capitol Hill, Washington, DC, è già stato scritto tanto (anche a sproposito e in modo deviato) e molte parole verranno ancora spese (a torto o a ragione, anche a vanvera, da persone che sanno bene cosa vogliano e molte di più da persone che non sanno niente e blaterano). Ma tante domande senza risposta rimarranno. Le domande in gran parte avranno risposte da depistaggio dal mondo delle menti raffinanatissime. Però, per alcune domande arrivano già delle risposte chiare e precise.
Anche il Papa commenta i fatti del 6 gennaio a Capitol Hill, in una intervista rilasciata a Canale 5, che andrà in onda domani sera. Per comprendere “e per non ripetere”, dice, bisogna “imparare dalla storia”. I fatti al Congresso degli Stati Uniti furono una sorpresa pure per lui, anche se nessuna società in fondo può ritenersi immune al suo interno da spinte sovversive, dice. “Io sono rimasto stupito perché è un popolo così disciplinato nella democrazia”, è il commento del Papa. Tuttavia, osserva, anche “nelle realtà più mature sempre c’è qualche cosa che non va”, c’è gente “che prende una strada contro la comunità, contro la democrazia, contro il bene comune”. La violenza è certamente da condannare, prosegue il Papa, “va condannato questo movimento così, prescindendo dalle persone”. Nessun popolo, prosegue, “può vantarsi di non avere un giorno, un caso di violenza” e dunque si tratta di “capire bene per non ripetere, e imparare dalla storia”. In ogni caso, chiosa, comprendere è fondamentale “perché così si può mettere il rimedio”.
Senza alcun dubbio, comprendere è fondamentale per mettere il rimedio. Però, la prima e ultima domanda rimarrà: fino a quando sarà ancora possibile e permesso di comunicare, prima di essere bannati, per non essere (o non del tutto) allineati? Ormai in un mondo di fake news e di depistaggi a getto continuo, dove è sempre più difficile distinguere il vero dal falso, il bene dal male, la mente libera dalla tartaruga della libertà di espressione, lo spazio di manovra per la libertà di pensiero viene sempre più ridotto. Parola d’ordine: #restiamoliberi.
La natura di uno strumento privato di comunicazione è gestire la libertà di espressione del singolo e delle masse attraverso le proprie regole o le proprie prerogative. La chiusura di un profilo Facebook o un account Twitter va oltre la libertà di espressione. Il punto è il “contesto” nel quale si esprime la libertà, nella fattispecie quella di espressione.
Cervelli in libertà condizionata come tartarughe della libertà di espressione
“Giornalisti: quelli bravi non hanno una vita; quelli cattivi non hanno un lavoro” (Wim Kan). “Quello che bisogna dire ai giornalisti giovani è proprio questo: fare il mestiere senza avere nessuna intenzione di uscirne, allora il mestiere è una cosa seria, altrimenti diventa un veicolo, uno strumento per altre cose” (Ugo Stille).
Al giorno d’oggi, un servizio giornalistico nella maggior parte dei casi viene confezionato prendendo spunto, non soltanto e non in primo luogo dalle veline istituzionali, ma soprattutto dai social network, in particolare dai profili e account delle varie personalità politiche. Quindi, chi controlla i social network, controlla cosa sappiamo e cosa pensiamo. Tutto ciò non permette al giornalista o al comunicatore di accertare il reale contesto ambientale nel quale una dichiarazione viene fatta dai personaggi di turno, dai personaggi a cui viene permesso di comunicare. Ne viene meno la realtà dei fatti, ne viene meno la verità. Il peccato in questo senso è consegnare la libertà di espressione a strumenti di comunicazione soggettiva, dai quali estrapolare una verità che si fa diventare oggettiva.
Perciò, diventa peccato mortale invocare, applicare e giustificare la censura. La censura in senso lato appartiene a regimi autoritari e totalitari, non fa parte di una società democratica. La censura è particolarmente pericolosa se viene applicato da soggetti privati, per esempio con il Presidente della Nazione tra i più potenti del mondo di oggi. Non è che Trump ci è particolarmente simpatico e anche se fosse, non si tratta di Trump. Continuando a ridurre la questione ad una “censura” a Trump e considerarla “giustificabile”, non solo per il contenuto di molto dei suoi post e tweet, e soprattutto per gli ultimissimi ed in particolare attribuendolo la sponsorizzazione (discutibilissima l’attribuzione in senso specifico) dell’intrusione di un manipolo di scalmanati da carnevale a Capitol Hill, si sbaglia il mirino. Ed è particolarmente sbagliato impostare la carnevalata guidato dal cornuto del 6 dicembre a Capitol Hill come l’ha fatto a caldo il Presidente eletto degli Stati Uniti Joe Biden, parlando in Tv al Paese, commentando l’irruzione in Capitol Hill di alcuni manifestanti sedicenti pro-Trump: “Questa non è una protesta, è un’insurrezione. Le scene di caos non riflettono l’America vera, non rappresentano chi siamo“.
Gli USA spendono 750 miliardi di dollari all’anno in “difesa” e il centro del governo americano è caduto in due ore alla dinastia dei paperi e allo sciamano cornuto in bikini chewbacca? Ma dai! La domanda vera è: quali sono gli interessi di questo patetico e imbarezzante spettacolo? “Non si capisce più se è la finzione a prende spunto dalla realtà o la realtà che si plasma a immagine di un brutto film hollywoodiano” (Silvina Pérez). Ci sono video dove si vedono i poliziotti che tolgono le transenne e fanno entrare i manifestanti apposta… quindi di cosa stiamo parlando? Veramente pensano che la gente sia così ingenua da credere che una folla “armata” solamente di bandiere e cappellini possa aver conquistato uno dei posti più sorvegliati al mondo?
“Perché lo abbiamo creato noi. Abbiamo dato noi tutto questo potere a dei ragazzini californiani e alle loro start up e abbiamo consentito diventassero un monopolio, (…) e ora passano all’incasso, cacciando chi è ideologicamente avverso, facendo gli editori. Hanno creato un meccanismo geniale e infernale: censura in nome della libertà, esclusione in nome dell’inclusione, discriminazione in nome della lotta alla discriminazione, odio in nome della lotta all’odio, intolleranza in nome della tolleranza” (Giulio Meotti). E tutto questo “per nostro bene”, peggio di quanto fanno dei governi e addirittura peggio dei peggiori regimi autoritari e totalitari.
“Al di là dell’esito disastroso delle rivendicazioni elettorali di Trump, quello che è successo a Capitol Hill segna la polarizzazione tra una compatta super-élite transnazionale e un “popolo” di ceti medi e operai sempre più emarginato dai processi di globalizzazione. La leadership di Trump si avvia (forse) al tramonto, ma in tutto l’Occidente la contrapposizione tra élite e forgotten people sta montando, e promette di divampare ovunque, come una vera e propria guerra civile globale” (“LEGGERE CAPITOL HILL. Elite contro dimenticati: il dopo Trump è già guerra civile” di Eugenio Capozzi – La Nuova Bussola Quotidiana, 9 gennaio 2021).
Commenta l’amico e collega Marco Tosatti sul suo blog Stilum Curiae di ieri: “Gli attacchi alla libertà di informazione e lo sforzo di propalare menzogne da parte dei mass media collegati al gruppo di potere progressista, negli USA e nel nostro Paese, sono in un crescendo pauroso”.
“Se in questi anni avessero avuto la stessa velocità di sospensione utilizzata per l’account di Trump e di alcuni suoi sostenitori, nella lotta al terrorismo, alla violenza, alla pedofilia, sicuramente avremmo avuto effetti diversi, e tante vite umane sarebbero in salvo” (Don Salvatore Lazzara – Twitter, 9 gennaio 2021).
C’è chi avrebbe voluto che la riflessione di Don Lazzara – sempre attento osservatore, acuto e sintetico – avesse avuto una premessa, che è questa: “Bene ha fatto Twitter, ma … In realtà, così così com’è sembra quasi un rimprovero a quel prezioso server”. Questo vuol dire di non aver capito niente, dicendo che “l’osservazione è condivisibile; tuttavia, bisogna pure frenare chi può essere artefice, con la sua disinformazione, di devianze e, addirittura, di violenze (come s’è dimostrato)”.
A parte delle discutibilità delle affermazioni – in particolare l’essere “artefice di violenze” – riportate prima, confrontandele con la realtà, il punto è un’altro. Il punto è, che se censura deve esserci, comunque non può essere applicata preventivamente, altrimenti ci troveremmo già in un regime autoritario, se non direttamente totalitario. Ma tutti possono dire tutto? Certamente no, ma disciplinarlo è una questione delicata e complicata. Si potrebbe intervenire a posteriori, ma in ogni caso questo non può essere lasciato – come oggi è – nelle mani di società di comunicazione private in assenza di regolamentazione oggettiva. Potrebbe essere un’Autorità di fact-checking veramente super partes a procedere in questo senso. Ammettendo che questo sia possibile perché: “Con i giornali, a volte c’è disordine; senza di loro, c’è sempre schiavitù” (Benjamin Constant). Quello che osserviamo che sta invece succedendo oggi, è il modo più tremendo per uccidere la democrazia. Facebook/Instagram e Twitter che bloccano Trump, per quanto riguardo l’approccio al diritto di libertà di espressione e di libertà in generale, è una sconfitta e che delle società private abbiano il potere di decidere cos’è attentato alla democrazia e cosa no è letale. La foto di copertina che abbiamo scelto è emblematica.
Non va dimenticato che ad ogni azione corrisponde una reazione, uguale e contraria. Se pensiamo ad un bambino, quale è la prima cosa che fa quando il genitore gli impone l’obbligo di non fare una azione, gli impone un divieto? Il bambino per prima cosa vuole rompere l’obbligo del “non fare” e quindi fare proprio quello che gli viene vietato. Le masse da social network vengono gestite facendo leva sui primordiali istinti umani. Per far capire cosa intendiamo, poniamo una domanda ad adsurdum: e se Trump, Twitter e Facebook fossero d’accordo? Non nel senso che si sono messo ad un tavolo e hanno siglato un accordo, anche se chi siamo noi per sapere cosa succede a questi livelli? Ma nel senso che le masse da social network vengono gestite facendo leva sui primordiali istinti umani. Vi siete chiesti quante persone siano andate a cercare il profilo o l’account di Trump cancellati e ancora quante visite o follower ha avuto il profilo o l’account di Trump dopo lo scandalo delle cancellazioni e dei blocchi parziali. E di quante visite e di quanti follower verrà incrementato il profilo o l’account di Trump dopo l’operazione di disattivazione/riattivazione?
Vale il principio: parlatene bene, parlatene male ma l’importante è che ne parliate… ma non in completa libertà di espressione. È importante che ne parliate sempre e solo nel contesto creato in modo artefatto. Un mondo nel quale si pensa di essere liberi di esprimerci in un contesto creato ad arte da altri, nel quale si pensa di avere la libertà, ma è “libertà” di una mente che è quella di cui “gode” una tartaruga rinchiusa dentro uno zoo, che pensa di essere libera solo perché non riesce ad essere sufficientemente “svelta” da riuscire a capire che si trova in una gabbia invisibile. Nel caso dei social network, la tartaruga umana si trova in una gabbia costruita con delle fibre ottiche, che la pone in isolamento mediatico virtuale e la isola dalla realtà, facendola credere di essere in piena libertà, che non è condizionata.
Le imprese private e la libera concorrenza sono valori da difendere (come la proprietà privata, sempre più sotto attacco, anche il alto loco), soprattutto nel mondo dell’informazione #restiamoliberi. Forse, suggerisce qualcuno, la cancellazione delle licenze e degli accessi alla rete di queste imprese private che abusano del loro potere, sarebbe un giusto segnale, a patto che ciò non si riveli una perdita del controllo e della democrazia. Twitter, per esempio, è certamente uno strumento prezioso, ma visto che è una società privata, può decidere cosa censurare e cosa no, può decidere cosa considerare un attacco alla democrazia e cosa no? No, questo non va bene e qui siamo alla presenza di un buco legislativo mastodontico. È fondamentale riconoscere il problema è di fondo, che è scisso dalla questione Trump: si fonda su una considerazione che dal particolare si sposta in generale. Da un lato è inconcepibile tale “abuso” e dal’altro è letale non considerare che siamo ridotti a cervelli in libertà condizionata, come delle tartarughe della libertà di espressione.
“Chi crede che il problema dell’America sia rappresentato da Donald Trump e che eliminato questo Presidente tutto tornerà come prima, tranquillo, luccicante e moderato, beh, penso proprio che non abbia capito niente” (Maurizio Belpietro @Belpietro – Twitter, 8 gennaio 2021).
Ed ecco, ancora l’osservazione di un altro giornalista, corrispondente di Repubblica a New York, dopo Pechino e San Francisco, uno scrittore, autore de “I cantieri della storia” e “Oriente e Occidente”: “Attenzione ad abbracciare senza riserve la decisione di Twitter Facebook Instagram di censurare Donald Trump. Oltre che molto tardiva, è problematica nel paese del Primo Emendamento. L’America ha leggi sulla libertà di espressione molto diverse dall’Europa. #TrumpBanned #USA” (Federico Rampini @FedericoRampini – Twitter, 9 gennaio 2021). Detto da un corrispondente di Repubblica e con questa esperienza, oltrettutto uno che non è esattamente un trumpiano, vorrà pur dire qualcosa.
Poi il giornalista che lavoro per Il Foglio e il Gatestone Institute, che abbiamo citato nell’incipit e da cui abbiamo preso in prestito il titolo di questo articolo, osserva: “Che i più grandi social al mondo abbiano bannato il Presidente degli Stati Uniti la dice lunga sul problema della libertà di pensiero che abbiamo creato. Perché lo abbiamo creato noi. Abbiamo dato noi tutto questo potere a dei ragazzini californiani e alle loro start up e abbiamo consentito diventassero un monopolio, i “Gafa”, e ora passano all’incasso, cacciando chi è ideologicamente avverso, facendo gli editori. Hanno creato un meccanismo geniale e infernale: censura in nome della libertà, esclusione in nome dell’inclusione, discriminazione in nome della lotta alla discriminazione, odio in nome della lotta all’odio, intolleranza in nome della tolleranza. Presto non si potranno più commettere passi falsi su razza, gender, Islam, clima e molto altro. Controlleranno anche le virgole. E banneranno anche gente di sinistra non del tutto allineata, come già sta succedendo. Qui infatti non c’è destra o sinistra, c’è la salute mentale delle società occidentali in preda al conformismo, alla mancanza di pluralismo, alla omologazione politica, alla crisi di alternative, a una gigantesca Netflix di informazioni e intrattenimento. E la loro risposta è persino insindacabile: “È il mercato, bellezza”. In effetti George Orwell quando scrisse “1984” non aveva capito che la dittatura del pensiero, la neolingua, il ministero dell’Informazione e l’antifrasi sarebbero arrivate non dallo stato, ma dai privati. E che per questo è tanto più difficile combatterle. Stanno facendo e faranno un gran ripulisti di account, libri, articoli, giornalisti, idee e parole “per il nostro bene”» (Giulio Meotti -Facebook, 9 gennaio 2021).
È evidente che le vergognose bugie dei mass media sul 6 gennaio – ripetute pedissequamente dalle tartarughe della libertà di espressione – nei social network non sono state bloccate. L’intervista video diffuso da La Bussola Quotidiana con un testimone oculare, che era presente tra la folla quel giorno a Washington, ci aiuta a capirlo.
Facciamo seguire alcuni brani dell’intervista, trascritte da Marco Tosatti, però questo video andrebbe ascoltato per intero (e coloro che hanno avuto la pazienza di arrivare fino a qui, probabilmente lo faranno): “Non ero mai in una folla così grande come quel giorno là, più che altro famiglie intere, gente normale, molti cinesi americani, terrorizzati da quello che è successo in Cina, e non vogliono vedere aumentare l’influenza cinese in USA. Cattolici, Protestanti, Ebrei ortodossi. Rudy Giuliani e Trump hanno parlato, e Trump ha detto nel suo discorso, la maggior parte l’elenco di tutte le frodi. Alla fine ha detto di andare verso Capitol per fare vedere ai Congressmen che ci sono tanti americani che non hanno più fiducia nelle istituzioni. mai un invito a entrare, ma solo a fare presenza.
Dopo un’esplosione di gas lacrimogeno, ho visto la polizia aprire la barricata, per far entrare la gente. Una folla continua che saliva là. Da quel punto non posso dire esattamente quello che è successo, ma ho sentito i telefoni della gente intorno a me, e visto un video di nostre amiche che cercavano di tirare giù dalle finestre membri di antifa che si erano mischiati alla folla. Persone private hanno messo video sul web.
Antifa: persone hanno scoperto e messo su Internet i messaggi spediti dai loro capi per spiegare che cosa fare per entrare nella folla e sfruttarla ai loro scopi”.
Conclude Marco Tosatti: “Ci sono in questa storia due elementi, almeno, da sottolineare.
Il primo: come afferma il prof. Rao, è evidente l’infiltrazione di provocatori professionali, come appunto gli antifa, che hanno messo a ferro e fuoco le città americane nei mesi scorsi, collegati e protetti dai progressisti americani e non, nell’assalto.
D’altronde chi ha esperienza, come chi scrive, delle manifestazioni di piazza degli anni ’60 e ’70 [e visto che siamo coetanei e sono stato leader dei studenti i questi anni, confermo ex professo. V.v.B.] sa benissimo che il rischio di infiltrazioni violente era ben presente. C’era sempre qualche gruppetto particolarmente ‘duro’ che cercava di prendere la testa del corteo per portare allo scontro. E non a caso esisteva, nelle manifestazioni più organizzate, il servizio d’ordine che aveva esattamente il compito di espellere e tenere sotto controllo i provocatori e gli infiltrati. Gli Antifa e i loro burattinai hanno imparato bene la lezione.
Il secondo elemento è il modo vergognoso in cui i media mainstream, negli USA e da noi, che rispondono evidentemente – ma non è novità – a gruppi di potere e di pensiero progressisti-globalisti-Nuovo Ordine Mondiale hanno ingoiato senza neanche un mezzo bicchiere d’acqua e ripompato immediatamente a pieni polmoni la balla di Trump “golpista”, attribuendogli la responsabilità dell’assalto. E prendendo pretesto da questa menzogna, piuttosto infame, per cercare di metterlo a tacere sui social media”.
Da Thegatewaypundit.com arriva questa notizia (e leggendola, ripetiamo, si guarda oltre Trump): “Google ha rimosso Parler dal suo app store poco dopo la notizia che il Presidente Donald Trump aveva creato un account sulla piattaforma.
Prima hanno bandito il Presidente Trump da Twitter, poi hanno bandito la piattaforma su cui stava cercando di trasferirsi.
Secondo Google Play, oltre cinque milioni di persone avevano già installato l’app Parler su Android.
Sia chiaro, Facebook, Twitter, Tik Tok e Instagram sono stati tutti utilizzati per tracciare e realizzare i massicci attacchi terroristici interni di Black Lives Matter contro le città americane dell’anno scorso. Nessuno di loro è stato penalizzato.
Anche i politici democratici hanno appoggiato, scusato e alimentato i disordini – senza alcuna censura da parte delle piattaforme.
Apple ha anche minacciato di vietare l’applicazione se non rispettano le regole di moderazione entro 24 ore.
Big tech sta ufficialmente muovendo guerra al Presidente degli Stati Uniti e ai suoi sostenitori”.
Ma i tentativi di infiltrazione non si limitano alle manifestazioni. Leggiamo il messaggio che segue, del CEO di Gab.com, che è una piattaforma libera, in inglese, che diventerà sempre più importante, in particolare pensando al futuro, per coloro che non intendono essere (o rimanere) delle tartarughe della libertà di espressione: “Nelle ultime settimane ho avvertito apertamente la comunità di Gab di essere alla ricerca di fedposters e di minacce o incoraggiamenti alla violenza su Gab. Questa campagna PSYOP è iniziata all’inizio di dicembre, con i nuovi conti che sono spuntati fuori dal nulla e che fanno minacce di violenza. Abbiamo tolleranza zero per questo comportamento e non si tratta assolutamente di libertà di parola.
Questa è sempre stata la nostra politica. Abbiamo migliaia di volontari, clienti e membri della comunità di lunga data che ci hanno aiutato a calpestare questa campagna PSYOP (Operazioni Psicologiche) nelle ultime settimane e a smascherarla. Dopo questa settimana, è chiaro il motivo per cui è stata avviata questa PSYOP: abbattere le piattaforme alt-tech e inquadrarle per le proteste del 6 gennaio che si sono concluse con l’uccisione di una donna disarmata da parte della polizia.
Quasi subito dopo che la polizia ha permesso ai manifestanti di entrare in Campidoglio, il New York Times ha iniziato a raccontare senza fondamento che questa protesta era stata organizzata su siti alt-tech, e in particolare su Gab, senza offrire alcuna prova, screenshot, nomi utente o prove a sostegno di queste affermazioni senza fondamento. Ho registrato un video che evidenzia come tutto questo si è svolto. Spero che vi prenderete un po’ di tempo per guardarlo e scoprirete come funziona il complesso della CIA Mockingbird Media. Il modo in cui combattiamo è con la verità e dicendo la verità al loro potere, che sta rapidamente svanendo.
Dio vi benedica e Dio benedica l’America
Andrea Torba
CEO, Gab.com”.
Prosegue Marco Tosatti: “Non c’è niente di straordinario che un giornale come The New York Times, da sempre espressione delle élite finanziarie progressiste, massoni e non, partecipi a una campagna di menzogne e diffamazioni; lo stesso accade in Italia per i maggiori quotidiani. Abbiamo letto su uno di essi che il bando di Trump dai social è massima espressione di democrazia! Neanche ai tempi di Stalin e di Pol Pot si poteva leggere senza ridere spazzatura del genere. Ma questo ci dà la misura dei tempi che ci aspettano. Che non saranno né semplici né facili”.
Postilla
Le scivolate di Mentana e il silenzio dei giornalisti
Lo scivolone di Mentana che ha commentato delle immagini di un film satirico attribuendole agli scontri di Capitol Hill. Una gaffe che ha cercato di minimizzare sui social ma che non è stata condannata dal “giro” dell’informazione mainstream
di Ruben Razzante
La Nuova Bussola Quotidiana, 9 gennaio 2021
Chi di social ferisce di social perisce. Questa volta è toccato a Enrico Mentana, che sere fa, durante la diretta degli scontri a Capitol Hill, ha scambiato per qualche secondo le immagini di un film comico con i fatti statunitensi. La diretta de La 7 è stata davvero imbarazzante [ho visto – e rivisto, perché incredulo – questo spezzone e nonostante ho fatto il callo con questo tipo di “scivoloni” mi sono sentito sconvolto, dire imbarazzato è un understatament. V.v.B.]. Una delle tante maratone televisive notturne di uno dei giornalisti più noti si è trasformata per un attimo in uno spettacolo da circo.
Il direttore è cascato sulle immagini di una commedia statunitense del 2012, arrivata in Italia col titolo Project X – Una festa che spacca, film di Nima Nourizadeh con Thomas Mann, Oliver Cooper, Jonathan Daniel Brown, Dax Flame, Kirby Bliss Blanton che parla delle vicissitudini di tre liceali alle prese con una festa che dovrebbe elevarli dal rango di “loser”, ovvero sfigati, a vip della scuola, festa che sfugge però loro A quanto pare, dietro la clamorosa scivolata c’è la manina incauta di qualcuno della regia che fa uno “scherzetto” a Mentana, come il diretto interessato scrive sul suo profilo Instagram, provando a minimizzare la gaffe [posso testimoniare che i giornalisti talvolta lo fanno tra loro, specialmente verso dei malcapitati predestinati, perché la categoria si comporta come i lupi che non mangiano lupo, ma sono crudeli verso i propri consimili, deboli, come lo sono i lupi tra loro. V.v.B.].
Mentre Mentana commenta le immagini dell’assalto al Campidoglio degli Usa postate da vari profili Twitter, la regia per errore manda in onda un video di un profilo satirico intitolato ‘Live footage da Washington D.C.’ con la scena di quel film del 2012 in cui un personaggio armato di lanciafiamme spara contro alcune automobili.
In studio con il direttore-conduttore c’è anche Gerardo Greco. I due si accorgono che le immagini non si riferivano a Washington e pensano a qualche altra città americana. Poi dagli utenti social arriva la conferma che si trattava di un film, di quel film, pubblicato.
Una gaffe davvero imperdonabile, sulla quale Mentana ha cercato di fare dell’ironia, sempre sui social, senza però riuscire a rimediare più di tanto. “Un altro personaggio evidentemente…” dice a un certo punto in diretta durante la maratona televisiva il direttore, senza minimamente accorgersi di essere incappato nell’account satirico @ProbOffTopic che aveva riproposto alcuni fotogrammi della rivolta immaginata nel film comico Project X.
Le immagini scorrono a tutto schermo e ritraggono soggetti improbabili lasciarsi andare a scene di devastazione urbana. Dunque perfettamente credibili, considerate l’irruzione a Capitol Hill di una banda armata capeggiata da Shaman Qanon, un personaggio stravagante vestito da toro.
Sia Mentana sia il suo ospite in studio, il giornalista Gerardo Greco, intuiscono però che qualcosa non quadra dopo appena pochi istanti, quando il filmato prosegue con scene nelle quali la folla dà fuoco alle auto in strada servendosi persino di lanciafiamme. “Questo probabilmente sta accadendo nei sobborghi”, prova a ipotizzare Greco. “Sono immagini che dobbiamo ovviamente verificare”, conclude Mentana alzandosi per avere una visione più chiara del monitor sulla sua scrivania.
Immaginiamo quale ironia si sarebbe scatenata se al posto di Mentana ci fosse stato qualche altro giornalista. Invece il direttore de La 7 non è nuovo a episodi del genere.
Nel maggio scorso, in piena pandemia e dopo due mesi di lockdown, se ne uscì sui social con una frase alquanto infelice, calunniando la “cattolica Polonia”, accusandola di aver ospitato un campo di concentramento ad Auschwitz, e dimenticando che allora quello Stato era occupato dai tedeschi e che lì vivevano il maggior numero di ebrei d’Europa. Per fortuna l’ambasciatore polacco gli rispose per le rime, mentre nessun prelato reagì all’imprudente e offensivo accostamento tra nazismo e cattolicesimo [Mentana, in prima linea nella lotta contro le fake news, con il post sulla “cattolicissima Polonia” ha fatto una bruttissima figura – 12 maggio 2020].
Altro scivolone del direttore due anni fa, quando sul suo giornale Open autorizzò la pubblicazione di un articolo che bollava come fake news una notizia vera, quella della legge appena approvata nello Stato di New York (gennaio 2019), che consentiva di abortire fino al nono mese di gravidanza senza addurre particolari giustificazioni.
Infine, in pieno lockdown, la polemica con Giuseppe Conte e il monologo del direttore contro il premier che lo aveva accusato di aver censurato il suo messaggio contro le opposizioni pronunciato senza contraddittorio. Ma in quell’occasione Mentana peccò di protagonismo e fece durare ben 10 minuti quel suo monologo, accusando Conte di tendenze “venezuelane” che prescrive alcuni precisi principi deontologici, non hanno commentato. Hanno invece tuonato in alcune circostanze contro altri colleghi per aver espresso opinioni non in linea con una certa informazione mainstream. È il pluralismo a intermittenza, invocato solo quando conviene, che negli anni ha tolto molta credibilità alla categoria dei giornalisti [Sotto la nostra lente la televisione e l’usa che se ne fa. Dal caso Botteri (2016) al caso Mentana (2020) – 11 aprile 2020 e L’uso personale della televisione di Mentana stasera. Si dimetta oppure l’editore de La7 prenda provvedimenti seri – 13 aprile 2020].
Postscriptum
Se siete arrivati qui – oppure venuto qui prima – un’ultima domanda (retorica ovviamente): “Mi hanno confidato, ma non se se crederci, che le piattaforme social Facebook, Twitter e altre, sono – udite, udite -, gestite da gente di estrema sinistra, legate al globalismo e che usano come facciata la democrazia per fare propaganda, silenziando i dissidenti. Sarà vero?” (Don Salvatore Lazzara).