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Giornata contro la violenza contro le donne: nessuna scusa
“La violenza contro le donne presenta numeri allarmanti. E’ un comportamento che non trova giustificazioni, radicato in disuguaglianze, stereotipi di genere e culture che tollerano o minimizzano gli abusi, che si verificano spesso anche in ambito familiare. La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, nota anche come Convenzione di Istanbul, è il primo strumento giuridicamente vincolante ad aver riconosciuto la violenza di genere come una violazione dei diritti umani”.
Questo è stato il messaggio del presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, nella giornata contro al violenza sulle donne, in cui è stato sottolineato che ancora non è sufficiente la legislazione finora approvata: “L’Italia ha ratificato la Convenzione nel 2013, dotandosi di strumenti di tutela per garantire una piena protezione alle vittime di violenza di genere.
Quanto fatto finora non è, tuttavia, sufficiente a salvaguardare le donne, anche giovanissime, che continuano a vedere i loro diritti violati. E’ un’emergenza che continua. Si tratta di madri, sorelle, figlie, persone con sogni e progetti che vedono violato il diritto di poter vivere una vita libera e dignitosa, donne che lottano per la propria indipendenza, per poter scegliere il proprio destino”.
Ritornando al tema di questa giornata, ‘Nessuna scusa’, il presidente Mattarella ha sollecitato azioni concrete: “E’ addirittura superfluo sottolineare che, quindi, non ci sono scuse accettabili a giustificazione della violenza di genere. Occorrono azioni concrete. E’ fondamentale continuare a lavorare per eradicare i pregiudizi e gli atteggiamenti discriminatori che rendono ancora oggi le donne più deboli nella società, nel lavoro e nella famiglia.
Le istituzioni, le forze della società civile devono sostenere le donne nella denuncia di qualsiasi forma di sopruso, offrendo protezione e adeguato supporto. E’ un valore per l’intera società far sì che siano pienamente garantiti i diritti umani dell’universo femminile”.
Mentre nell’editoriale del giornale online ‘Interris’ il fondatore don Aldo Bonaiuti ha sottolineato che la situazione non è migliorata in questi anni: “In un quarto di secolo la situazione è tutt’altro che migliorata. La violenza sulle donne, secondo il pontefice, ‘è una velenosa gramigna che affligge la nostra società e che va eliminata dalle radici’. E queste radici sono culturali e mentali, crescono nel terreno del pregiudizio, del possesso, dell’ingiustizia”.
Il rischio è quello di diventare invisibili: “Di tutte le forme di violenza di genere quella barbaramente esercitata sulle vittime della tratta è la più ‘invisibile’ e rimossa dall’opinione pubblica… I complici delle violenze sulle donne sono coloro che potrebbero risvegliare le coscienze in tutti gli ambiti della società a partire dalle agenzie educative le quali spesso sembrano essere più sulla difensiva invece di occuparsi del tragico fenomeno”.
Ed ha raccontato un episodio: “Una notte mi trovavo a Perugia nella zona di Pian di Massiano dove si ritrova un gruppo (chiamato Goel) a pregare ogni sabato il Santo Rosario a mezzanotte. Un’invocazione a Dio per le donne schiavizzate, che sono lì accanto, sui cigli delle strade e spesso impossibilitate ad attraversarle per aggregarsi a noi nella preghiera.
Un Rosario recitato nella cattedrale del cielo al cospetto di una modesta statua della Vergine di Fatima, illuminata da quelle piccole fiaccole che continuano incessantemente ad accendersi da decenni per donare la speranza di una rinascita e il coraggio di abbandonare la strada strappando le catene della servitù…
Rileggere l’ultimo grido d’allarme delle vittime di femminicidi stringe un nodo di angoscia in gola. ‘Mi spaventi perché so come sei fatto: mi vieni a cercare e mi fai paura’, messaggia una studentessa al fidanzato che pochi giorni dopo l’avrebbe uccisa. Da educatore all’oratorio Carlo Acutis riscontro quotidianamente la centralità dell’educazione. E’ fondamentale il ruolo delle famiglie perché i condizionamenti di ogni tipo vanno contrastati con un’azione educativa che, a partire dalle mura domestiche, valorizzi la persona con la sua dignità”.
Inoltre in questa giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne l’ong ‘Porte Aperte’ richiama l’attenzione sui milioni di donne cristiane vessate a causa della loro fede attraverso dati del report ‘Insicurezza’: le donne ‘sperimentano una persecuzione più complessa ed invisibile’ rispetto agli uomini. Nello specifico “donne e ragazze sperimentano la persecuzione in una sfera privata, spesso proprio dentro le mura di casa e proprio da parte di coloro che conoscono bene.
Quest’anno, i matrimoni forzati sono identificati come il maggior ‘Punto di Pressione’ per le donne cristiane, in quanto forma di sfruttamento e controllo che spesso è strettamente intrecciata con la violenza sessuale. Nei contesti di insicurezza, la violenza sessuale viene utilizzata come una vera e propria ‘strategia di guerra’, perpetrata con lo scopo ultimo di punire ed umiliare le comunità sotto attacco. Allo stesso tempo, però, può essere riscontrata anche nell’ambiente domestico, in quanto i conflitti violenti possono portare a una visione sempre più normalizzata della violenza”.
Mentre Paolo Ragusa, presidente dell’Associazione lavoratori stranieri del Movimento cristiano lavoratori, ha sottolineato la violenza contro le donne migranti è in aumento: “La donna anche nelle migrazioni è centrale come figura di riferimento per la coesione familiare e per questo dobbiamo fare ogni sforzo affinché, chi si trova in una situazione comunque di fragilità, perché migrante, non debba subire ogni forma di violenza di genere e soprattutto non debba pagare lo scotto di un diffuso pregiudizio nei confronti di chi arriva da altri Paesi. La nostra esperienza ci dice che a pagare sono soprattutto le donne. E questa per noi è violenza”.
Ed esiste anche la violenza nel lavoro: “In ambito lavorativo, spesso la donna migrante deve subire non violenze fisiche, ma quelle che chiamiamo culturali legate ad un’idea sbagliata di chi arriva da altri paesi. La paura di chi è diverso dobbiamo trasformarla in uno stimolo all’incontro e all’integrazione. Sostenere una donna migrante significa anche dare una chance ai suoi figli nell’inserimento nelle nostre comunità. Questo impedisce la nascita di ghetti, ma aiuta a formare cittadini consapevoli e partecipi”.
Anche le Acli ribadiscono il proprio impegno per contrastare ogni forma di violenza di genere. Questa giornata richiama a una responsabilità collettiva: costruire una società che rifiuti ogni sopruso e promuova il rispetto e l’uguaglianza con Chiara Volpato, responsabile nazionale del Coordinamento Donne Acli, sottolinea:
“La violenza contro le donne è una delle violazioni dei diritti umani più diffuse e devastanti del nostro tempo. Non conosce confini geografici o culturali, eppure troppo spesso resta nascosta dietro il silenzio, lo stigma e la vergogna. Serve un cambiamento culturale che parta dall’educazione nelle famiglie e nelle scuole, ma anche un impegno attivo da parte degli uomini per diventare veri alleati nel contrasto alla violenza di genere”.
A Roma marcia dell’Istituto ‘ Zaveria Cassia’ contro la violenza sulle donne
Una marcia contro la violenza sulle donne si svolgerà lunedì 25 novembre nelle strade del quartiere di San Basilio a Roma. L’iniziativa è promossa dall’Istituto Comprensivo Paritario ‘Zaveria Cassia’, struttura scolastica gestita dalla cooperativa Kairos, che intende così aderire per il secondo anno consecutivo alla Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne promossa dall’Onu sin dal 1999.
La manifestazione, a cui sono state invitate autorità locali civili e religiose, sarà aperta a tutti i cittadini del quartiere. Prenderà il via alle ore 10 dalla sede dell’Istituto in via Corridonia 40 e percorrerà via Recanati, via Treia, via Corinaldo, via Loreto, via Morrovalle (con sosta al parco della Balena per un momento di preghiera e riflessione) e rientro da via Corridonia. Nei giorni precedenti alla marcia, gli studenti del ‘Zaveria Cassia’ parteciperanno anche a laboratori e attività didattiche in classe per approfondire il significato di questo gesto e riflettere sull’importanza di combattere la violenza di genere.
“Crediamo fortemente che questa iniziativa, oltre ad essere un momento di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, abbia anche un profondo valore educativo”, dichiara Alessandro Capponi, presidente della cooperativa Kairos: “Siamo infatti convinti che la lotta contro la violenza sulle donne debba partire da una sana educazione alla relazione sociale e all’affettività, che pone le sue radici fin dalla fanciullezza.
Questa iniziativa, del resto, si inquadra favorevolmente nel percorso che la nostra azienda ha intrapreso da tempo, ottenendo anche la certificazione sulle misure per garantire la parità di genere nel contesto lavorativo. Intendiamo dunque sensibilizzare non solo i nostri alunni, ma anche l’intera comunità locale di San Basilio, promuovendo una cultura basata sul rispetto reciproco e sulla solidarietà”.
Parallelamente a questa marcia, l’Istituto ‘Zaveria Cassia’ ha anche organizzato per sabato 23 novembre un Open Day, che si svolgerà dalle ore 9:30 alle 12:30, per presentare a famiglie e genitori le attività e i programmi dei vari servizi educativi attivi attualmente, che riguardano l’asilo nido, la scuola dell’infanzia, la scuola primaria e la scuola secondaria di I grado con indirizzo musicale, per un totale di circa 150 iscritti per l’anno scolastico 2024-25.
Terre des Hommes in difesa di bambine e bambini
In occasione della Giornata Mondiale delle Bambine proclamata dall’ONU nel giorno 11 ottobre 2012, ‘Terre des Hommes’ ha lanciato la Campagna ‘indifesa’ per garantire alle bambine di tutto il mondo istruzione, salute, protezione da violenza, discriminazioni e abusi: con questa grande campagna di sensibilizzazione in questi 11 anni Terre des Hommes ha messo al centro del proprio intervento la promozione dei diritti delle bambine nel mondo, impegnandosi a difendere il loro diritto alla vita, alla libertà, all’istruzione, all’uguaglianza e alla protezione.
Nell’introduzione al dossier dell’ong è possibile leggere le motivazioni della ricerca: “Oltre 3.100.000.000 di bambine, ragazze e donne vivono in Paesi dove i loro diritti non sono garantiti. L’esempio più drammatico è l’Afghanistan dove oggi alle donne è vietato persino parlare in pubblico, ma non è un caso isolato. Questo 13^ dossier ‘Indifesa’ vuole documentare le sofferenze di tutte le bambine e ragazze nel mondo. Ogni pagina del report è un richiamo all’attenzione globale, affinchè non si distolga mai lo sguardo da chi è più vulnerabile.
In un anno segnato dal moltiplicarsi dei conflitti, non possiamo ignorare come la violenza sessuale ai danni di bambine, ragazze e donne diventi troppo spesso una vera e propria arma di guerra, con conseguenze devastanti non solo per la vittima, ma anche per la sua comunità. E questo è tanto più drammatico se si pensa che tra il 2017 e il 2022 è aumentato del 50% il numero di ragazze e donne che vivono in Paesi afflitti da guerre, raggiungendo la cifra record di 614.000.000.
Le guerre, o anche altri scenari di crisi (pensiamo alle regioni più colpite dalla crisi climatica) sono per le bambine e le ragazze fattori che aumentano il rischio di mutilazioni genitali e di abbandono scolastico, per il quale la probabilità è 2,5 volte maggiore rispetto alle loro coetanee che non si trovano in questi contesti. Ma cresce anche il rischio di matrimoni forzati e la salute riproduttiva è messa gravemente in pericolo”.
Ma anche i dati riguardanti l’Italia sono abbastanza preoccupanti: “I dati relativi al nostro Paese, benché il contesto sia completamente diverso, restano comunque preoccupanti. Bambine e ragazze sono ancora la maggioranza tra le vittime di reati a danno di minori. Gli indicatori relativi al lavoro, alla presenza di NEET, allo studio delle discipline STEM e alla partecipazione pubblica delle donne non migliorano. Il nostro Paese è sceso dal 79^ all’87^ posto nel 2024 per quanto riguarda l’uguaglianza di genere.
Questi dati, insieme ai molti altri presenti nel report, sono per noi ogni anno un nuovo punto di partenza per la campagna indifesa, che da oltre 13 anni dà voce alle bambine e alle ragazze che, con ogni mezzo, vogliono essere protagoniste del cambiamento. Nel dossier abbiamo raccontato le storie di sportive, attiviste, studiose e artiste, tutte impegnate a conquistare il proprio spazio. Loro rappresentano il futuro e, ne siamo certi, sono pronte a guidare una trasformazione che non può più essere rimandata”.
Nello scorso anno i reati contro i minori compiuti in Italia sono stati 6.952, una media di 19 ogni giorno, 95 in più rispetto al 2022, con una crescita del 34% in 10 anni, addirittura dell’89% dal 2006. I più diffusi sono i maltrattamenti in famiglia: 2.843 casi, più 6% dal 2022, raddoppiati dal 2013. Dal dossier emerge che sono bambine e ragazze le più colpite, vittime nel 61% dei casi. A far crescere la percentuale soprattutto i crimini di violenza sessuale e violenza sessuale aggravata, per l’89% e l’85% di vittime femminili. Poi gli atti sessuali con minorenni (il 79% su femmine), la detenzione di materiale pornografico e corruzione di minorenne (78% di vittime femmine), la prostituzione e pornografia minorile (64% su bambine o ragazze).
Più vittime maschili per l’omicidio volontario (67%), l’abbandono di minori o incapaci (61%), l’abuso dei mezzi di disciplina (59%) e la sottrazione di persone incapaci (55%). Parità nei reati di violazione degli obblighi di assistenza familiare (entrambi i generi al 50%) e di maltrattamenti in famiglia, l’aumento più significativo rispetto al 2022. In crescita anche le violenze sessuali, 912 casi (+1% dal 2022 ma +51% dal 2013), il secondo reato più diffuso; la sottrazione di persone incapaci (302 casi, +4% dal 2022 e +39% dal 2013); l’abbandono di persone minori o incapaci (568 casi, +3% dal 2022 e +25% in 10 anni); gli atti sessuali con minorenni (+3% dal 2022 e +5% dal 2013, con un totale di 444 casi); l’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina (+1% con 349 casi; +47% dal 2013); la pornografia minorile (171 casi, aumentati dell’1% dal 2022 ma calati del 7% dal 2013).
Calano, invece la prostituzione minorile (28 casi), (-24% dal 2022 e -65% in 10 anni); la detenzione di materiale pedopornografico (59 casi, – 18% sul 2022 ma in aumento, sempre del 18%, rispetto al 2013); la corruzione di minorenne (94 casi, -12% in un anno e -24% dal 2013). Diminuiscono rispetto al 2022 le violenze sessuali aggravate (645 casi, -7%), ma in grave aumento (+73%) dal 2013. Invariati da 10 anni gli omicidi volontari con 12 casi.
In Europa, secondo le stime dell’End Fgm European Network 5, più di 600.000 donne convivono con le conseguenze delle mutilazioni genitali femminili: si tratta, in parte, di immigrate di prima generazione talvolta giunte in Europa molto tempo fa che hanno subito il ‘taglio’ nei Paesi d’origine e che non cercano aiuto (o se lo cercano non lo trovano) per affrontare i problemi di salute legati alle conseguenze delle mutilazioni. Inoltre, ogni anno almeno 20.000 potenziali vittime chiedono asilo nell’Unione Europea dopo essere fuggite da un Paese a rischio.
L’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige) monitora questo fenomeno dal 2012 ed ha
elaborato una stima delle possibili vittime tra le bambine e le ragazze con meno di 18 anni, il cui numero oscilla tra le 53.000 e le 93.000. Nello scenario ‘Ad alto rischio’, si ipotizza che la migrazione non abbia alcun impatto e che le ragazze provenienti da un Paese in cui si praticano le mutilazioni genitali femminili corrano gli stessi rischi di quelle che sono rimaste nella nazione d’origine.
Nel secondo scenario (‘A basso rischio’) invece si ipotizza che il progetto migratorio e l’integrazione abbiano un impatto, cambiando l’atteggiamento dei familiari nei confronti di questa pratica: ciò si traduce in un’incidenza del fenomeno che può variare dal 9% (scenario a basso rischio) al 15% (alto rischio) in Spagna; dal 16% al 27% in Belgio; dal 12% al 21% in Francia; dall’11% al 19% in Svezia e dal 25% al 42% in Grecia.
Al Sinodo dei vescovi sono iniziati i lavori di gruppo
In occasione delle due iniziative per la pace per domenica 6 ottobre e lunedì 7 ottobre (recita del santo Rosario a Santa Maria Maggiore alle ore 17.00 e Giornata di digiuno e preghiera), indette da papa Francesco, nella conferenza stampa i relatori hanno invitato tutti i partecipanti al Sinodo alla recita del Rosario di domenica, mentre lunedì i lavori saranno vissuti in un contesto di sobrietà.
In apertura dei lavori sinodali è stato pregato per la pace, riprendendo le parole di papa Francesco all’Angelus di domenica scorsa: ‘Si faccia di tutto per fermare la violenza e aprire cammini di pace’. Mentre p. Giacomo Costa, dal canto suo, ha ripetuto le parole del papa, (‘il Sinodo non è un’assemblea parlamentare, ma un luogo di ascolto e di comunione), quindi non è ‘un’indicazione retorica, ma un’esperienza vissuta’, in un clima ‘molto gioioso, c’è il piacere di rincontrarsi, con una grande capacità di andare in profondità nel dibattito’.
Soffermandosi sui Gruppi di lavoro, il gesuita ha esortato a guardare ad essi come a ‘laboratori di vita sinodale’, che devono essere sostenuti da tutti i fedeli, attraverso contributi che potranno pervenire loro fino al giugno del prossimo anno: “Non sono quindi commissioni ‘chiuse’, bensì gruppi aperti, occasioni in cui si impara a lavorare insieme come Chiesa partecipata, ‘compagni di strada’ per compiere un ‘mini’ processo sinodale su alcuni temi collegati ma non coincidenti, con l’Instrumentum Laboris”.
Intanto ieri il card. Jean-Claude Hollerich, relatore generale, in apertura dei lavori ha ricordato che l’attenzione si sarebbe focalizzata sui ‘Fondamenti: “Nella struttura dell’Instrumentum laboris questa Sezione ha uno statuto diverso dalle tre parti che seguono. Senza avere l’ambizione di essere un trattato di ecclesiologia sinodale, ‘cerca di delineare i fondamenti della visione di una Chiesa sinodale missionaria, invitandoci ad approfondire la comprensione del mistero della Chiesa’. Raccoglie la consapevolezza che in questi anni si è andata consolidando e in particolare le convergenze che lo scorso anno abbiamo riconosciuto ed espresso nella Relazione di Sintesi”.
Il segretario speciale, mons. Riccardo Battocchio, ha sottolineato l’apporto sinodale della teologia: “i teologi che hanno lavorato dalla fese preparatoria, avranno ora maggiore visibilità perché il loro servizio è importante nel riflettere sui contributi che sono arrivati e saranno preziosi per un ascolto attento, una operazione di intelligenza teologica su quanto emergerà per poi arrivare a stendere il testo finale”.
Mentre suor Maria de los Dolores Palencia Gómez ha risposto ad alcune domande sul ruolo della donna nella Chiesa, sempre più sinodale per “aprirsi a nuove esperienze, a nuove proposte per scoprire e per approfondire ancora di più il ruolo femminile… Spetta anche a noi liberarci da uno stile di clericalismo… Io credo che l’esperienza di quest’anno abbia mostrato che siamo in cammino e come questo cammino stia dando frutto, il ruolo delle donne è riconosciuto sempre più in una chiesa sinodale, ci si potrà aprire a nuove esperienze per andare in profondità”.
Anche il prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede, il card. Victor Manuel Fernández, è intervenuto sulle ‘forme ministeriali’, concentrandosi sulla ‘pressante questione della partecipazione delle donne alla vita e alla leadership della Chiesa’: “Conosciamo la posizione pubblica del Pontefice che non considera la questione matura; nella mente del Santo Padre ci sono altri temi ancora da approfondire e risolvere prima di affrettarsi a parlare di un eventuale diaconato per alcune donne”, con il prosieguo del lavoro di approfondimento.
Inoltre il card. Claudio Gugerotti, prefetto del Dicastero per le Chiese orientali, ha raccontato “la situazione drammatica di questi giorni: bombe, carri armati che distruggono in maniera drammatica non solo le persone ma anche le speranze delle Chiese orientali cattoliche nelle aree di guerra, in pericolo di scomparire; la loro perdita sarebbe irreparabile per la Chiesa”.
(Foto: Vatican News)
Cesvi pubblica uno studio sui maltrattamenti dei bambini in Italia
Sono sempre molti i bambini vittime di maltrattamento, però si registrano anche i primi segnali di ripresa, secondo il report della sesta edizione dell’Indice regionale sul maltrattamento e la cura all’infanzia in Italia, ‘Le parole sono importanti’, realizzata dalla Fondazione Cesvi, in cui si evidenzia punti di forza e di debolezza delle regioni italiane rispetto ai fattori di rischio e ai servizi.
Il focus dell’Indice 2024 è dedicato al ruolo del linguaggio nel maltrattamento e nella cura all’infanzia, come si legge nel sito di Cesvi: “Lo studio si concentra sull’impatto del linguaggio abusante: secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, l’abuso psicologico, di cui la violenza verbale fa parte, è la forma più diffusa di maltrattamento infantile tra i 55.000.000 bambine e bambini che in Europa subiscono abusi, con prevalenza del 36,1%.
Quello che emerge dal rapporto è che uno degli strumenti per la prevenzione del fenomeno è investire sull’educazione alla cura e al linguaggio positivo di bambini, genitori e comunità educante, partendo proprio dalla formazione dei professionisti e dalla ricerca di un linguaggio condiviso su maltrattamento e cura nei tavoli di coordinamento territoriale”.
L’analisi dell’Indice si basa su 64 indicatori, classificati rispetto a sei diverse capacità: capacità di cura di sé e degli altri, di vivere una vita sana, di vivere una vita sicura, di acquisire conoscenza e sapere, di lavorare, di accedere a risorse e servizi: “Con l’espressione ‘maltrattamento infantile’ si fa riferimento a varie forme di abuso e trascuratezza nei confronti di persone con meno di 18 anni. Le tipologie riconosciute sono abuso fisico, abuso sessuale, abuso psicologico e trascuratezza, che in comune hanno conseguenze di danni a salute, sopravvivenza, sviluppo e dignità del minore”.
Le Regioni italiane dove il contesto legato ai fattori di rischio è più favorevole a bambine e bambini sono Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia, stabili al primo e secondo posto dalla precedente rilevazione. Seguono Emilia-Romagna e Lombardia, che salgono rispettivamente di una e di due posizioni arrivando al terzo e quarto posto, e poi Veneto, che dal terzo passa al quinto posto.
Il fattore di rischio complessivo è massimo invece in Campania, all’ultimo posto e preceduta nell’ordine da Sicilia, Puglia e Calabria, tutte invariate rispetto alla rilevazione precedente. Altre variazioni positive di due posizioni riguardano l’Umbria, di una posizione le Marche, la Basilicata e il Molise. Rimangono invariati anche Toscana e Piemonte, mentre arretrano di una posizione la Valle d’Aosta, il Lazio, l’Abruzzo, la Sardegna, di due posizioni il Veneto e la Liguria.
In riferimento ai servizi di prevenzione e cura del maltrattamento all’infanzia, la regione con la miglior dotazione strutturale è l’Emilia-Romagna, seguita da Veneto, Toscana, Valle d’Aosta, Umbria e Sardegna. Le regioni con maggiori criticità sono la Campania (all’ultimo posto in posizione invariata, preceduta dalla Sicilia al penultimo posto, peggiorata di un gradino) e ancora la Calabria e la Puglia, entrambe in peggioramento.
Sulla capacità di fronteggiare il maltrattamento all’infanzia, nella sintesi tra fattori di rischio e servizi, l’Emilia-Romagna si conferma al primo posto. Seguono Trentino-Alto Adige, Veneto e Friuli-Venezia Giulia, nelle stesse posizioni dalla precedente edizione, così come la Lombardia. Le Regioni con le maggiori criticità rimangono Sicilia e Campania. Le Marche migliorano di tre posizioni, la Valle d’Aosta di due, l’Umbria, la Sardegna, l’Abruzzo, la Basilicata, il Molise e la Calabria di una. Peggiorano di tre posizioni la Liguria, il Piemonte e il Lazio, mentre la Toscana e la Puglia perdono una posizione ciascuna.
Infine il rapporto sottolinea l’importanza di adottare un approccio che permetta di prendersi cura degli abusati, intervenire su chi abusa, interrompere la trasmissione intergenerazionale della violenza e prevenire l’abuso, individuando i fattori di rischio e rafforzando i fattori protettivi, considerando il contesto sociale. I fattori di rischio che aumentano la probabilità dei bambini di subire il maltrattamento possono essere contrastati o mitigati dai fattori protettivi, che agiscono come efficaci strumenti preventivi, riducendo la probabilità di subire maltrattamento e prevenendo in modo strutturale il fenomeno.
In effetti la violenza include anche quella inflitta con le parole, che può avere pesanti conseguenze sulla salute mentale, sia nell’infanzia sia una volta diventati adulti. La nuova edizione dell’Indice considera il ruolo del linguaggio nel maltrattamento e nella cura di bambine e bambini, rilevando quanto sia fondamentale una comunicazione da parte degli adulti che promuova un’idea positiva di sé stessi e che sviluppi la sicurezza emotiva. Forme di abuso verbale, come gli insulti e la denigrazione, hanno un impatto negativo sulla crescita, non solo nella percezione del senso di sé, ma anche nel comportamento appreso attraverso l’imitazione.
Esserne vittima può avere conseguenze sulla salute mentale in termini di ripercussioni emotive e psicologiche, e sul comportamento, da bambini e una volta divenuti adulti. Può determinare un forte ritardo nello sviluppo del linguaggio e nella comprensione in bambini di età tra 0 e 6 anni, violenta aggressività verbale dopo i 10 anni, spesso svalutante e discriminatoria come bullismo e cyberbullismo, sessualizzazione precoce e inconsapevole:
“La violenza verbale di bambini e adolescenti può essere influenzata da social media, musica e coetanei, ma soprattutto da quanto ascoltato in famiglia, sia tra genitori e figli, sia tra i genitori. L’abuso verbale in famiglia è spesso legato alla pedagogia ‘nera’, retaggio di valori educativi arcaici ancora oggi adottati, con cui si dà legittimazione ‘morale’ a comportamenti maltrattanti o abusanti. L’inconsapevolezza del peso delle parole può far sì che i genitori pronuncino insulti con intenzioni ‘affettuose’ od ‘educative’, usando toni ed espressioni umilianti e sprezzanti.
In questo scenario, emerge l’importanza dell’utilizzo di un linguaggio positivo e orientato alla cura come presupposto fondamentale per il cambiamento: una piena consapevolezza del suo valore nel rinforzare i fattori protettivi, superare traumi importanti, contribuire al recupero psicofisico e allo sviluppo armonioso di personalità ferite negli anni più delicati della crescita”.
Papa Francesco in Papua Nuova Guinea invita a cessare le violenze tribali
“Rivolgo il mio saluto all’intero popolo del Paese, augurandogli pace e prosperità. E fin d’ora esprimo la mia gratitudine alle Autorità per l’aiuto che offrono a molte attività della Chiesa nello spirito di mutua collaborazione per il bene comune. Nella vostra Patria, un arcipelago con centinaia di isole, si parlano più di ottocento lingue, in corrispondenza ad altrettanti gruppi etnici: questo evidenzia una straordinaria ricchezza culturale e umana; e vi confesso che si tratta di un aspetto che mi affascina molto, anche sul piano spirituale, perché immagino che questa enorme varietà sia una sfida per lo Spirito Santo, che crea l’armonia delle differenze!”
E’ il saluto rivolto dal papa alle autorità di Papua Nuova Guinea, seconda tappa del viaggio apostolico, alle autorità di questo Stato dalla cultura antica e dalla giovane indipendenza dalle grandi potenze che gli hanno fatto concorrenza per secoli e ancora oggi continuano a farlo, in cui metà popolazione è sotto la soglia della povertà, nonostante le ricchezze naturali:
“Il vostro Paese, poi, oltre che di isole e di idiomi, è ricco anche di risorse della terra e delle acque. Questi beni sono destinati da Dio all’intera collettività e, anche se per il loro sfruttamento è necessario coinvolgere più vaste competenze e grandi imprese internazionali, è giusto che nella distribuzione dei proventi e nell’impiego della mano d’opera si tengano nel dovuto conto le esigenze delle popolazioni locali, in modo da produrre un effettivo miglioramento delle loro condizioni di vita”.
Però tali ‘ricchezze’ invitano alla responsabilità per uno sviluppo sostenibile: “Questa ricchezza ambientale e culturale rappresenta al tempo stesso una grande responsabilità, perché impegna tutti, i governanti insieme ai cittadini, a favorire ogni iniziativa necessaria a valorizzare le risorse naturali e umane, in modo tale da dar vita a uno sviluppo sostenibile ed equo, che promuova il benessere di tutti, nessuno escluso, attraverso programmi concretamente eseguibili e mediante la cooperazione internazionale, nel mutuo rispetto e con accordi vantaggiosi per tutti i contraenti”.
Ma uno sviluppo sostenibile è raggiunto solo in tempo di pace e con la collaborazione delle popolazioni: “Condizione necessaria per ottenere tali risultati duraturi è la stabilità delle istituzioni, la quale è favorita dalla concordia su alcuni punti essenziali tra le differenti concezioni e sensibilità presenti nella società. Accrescere la solidità istituzionale e costruire il consenso sulle scelte fondamentali rappresenta infatti un requisito indispensabile per uno sviluppo integrale e solidale. Esso richiede inoltre una visione di lungo periodo e un clima di collaborazione tra tutti, pur nella distinzione dei ruoli e nella differenza delle opinioni”.
Quindi un invito a cessare le guerre tribali, molto forti nel Paese: “Auspico, in particolare, che cessino le violenze tribali, che causano purtroppo molte vittime, non permettono di vivere in pace e ostacolano lo sviluppo. Faccio pertanto appello al senso di responsabilità di tutti, affinché si interrompa la spirale di violenza e si imbocchi invece risolutamente la via che conduce a una fruttuosa collaborazione, a vantaggio dell’intero popolo del Paese. Nel clima generato da questi atteggiamenti, potrà trovare un assetto definitivo anche la questione dello status dell’isola di Bougainville, evitando il riaccendersi di antiche tensioni”.
Solo in questo modo il Paese può prosperare: “Consolidando la concordia sui fondamenti della società civile, e con la disponibilità di ciascuno a sacrificare qualcosa delle proprie posizioni a vantaggio del bene di tutti, si potranno mettere in moto le forze necessarie a migliorare le infrastrutture, ad affrontare i bisogni sanitari ed educativi della popolazione e ad accrescere le opportunità di lavoro dignitoso”.
Il papa, quindi, ha invitato alla speranza ed ad un buon uso dei beni: “Tuttavia, anche se a volte ce ne dimentichiamo, l’essere umano ha bisogno, oltre che del necessario per vivere, di una grande speranza nel cuore, che lo faccia vivere bene, gli dia il gusto e il coraggio di intraprendere progetti di ampio respiro e gli consenta di elevare lo sguardo verso l’alto e verso vasti orizzonti. L’abbondanza dei beni materiali, senza questo respiro dell’anima, non basta a dar vita a una società vitale e serena, laboriosa e gioiosa, anzi, la fa ripiegare su sé stessa”.
E’ stato un invito a non dimenticare i valori e gli ideali: “L’aridità del cuore le fa perdere l’orientamento e dimenticare la giusta scala dei valori; le toglie slancio e la blocca fino al punto (come accade in alcune società opulente) che essa smarrisce la speranza nell’avvenire e non trova più ragioni per trasmettere la vita.
Per questo è necessario orientare lo spirito verso realtà più grandi; occorre che i comportamenti siano sostenuti da una forza interiore, che li metta al riparo dal rischio di corrompersi e di perdere lungo la strada la capacità di riconoscere il significato del proprio operare e di eseguirlo con dedizione e costanza”.
Infine ha ricordato il motto di questo viaggio che è essenziale per un popolo: “Lo ricordano anche il logo e il motto di questa mia visita in Papua Nuova Guinea. Il motto dice tutto con una sola parola: ‘Pray – Pregare’. Forse qualcuno, troppo osservante del ‘politicamente corretto’, potrà stupirsi di questa scelta; ma in realtà si sbaglia, perché un popolo che prega ha un futuro, attingendo forza e speranza dall’alto. E anche l’emblema dell’uccello del paradiso, nel logo del viaggio, è simbolo di libertà: di quella libertà che niente e nessuno può soffocare perché è interiore, ed è custodita da Dio che è amore e vuole che i suoi figli siano liberi”.
E’ stato un invito ai cattolici ad amare con sincerità Gesù: “Per tutti coloro che si professano cristiani (la grande maggioranza del vostro popolo) auspico vivamente che la fede non si riduca mai all’osservanza di riti e di precetti, ma che consista nell’amore, nell’amare Gesù Cristo e seguirlo, e che possa farsi cultura vissuta, ispirando le menti e le azioni e diventando un faro di luce che illumina la rotta. In questo modo, la fede potrà aiutare anche la società nel suo insieme a crescere e a individuare buone ed efficaci soluzioni alle sue grandi sfide”.
E non poteva non ricordare il beato Pietro To Rot, beatificato da san Giovanni Paolo II, non dimenticando le donne: “Il suo esempio, insieme a quelli del Beato Giovanni Mazzucconi, del PIME, e di tutti i missionari che hanno annunciato il Vangelo in questa vostra terra, vi doni forza e speranza… Eccellenza, Lei ha parlato delle donne. Non dimentichiamo che sono loro a portare avanti un Paese. Le donne hanno la forza di dare vita, di costruire, di far crescere un Paese. Non dimentichiamo le donne che sono al primo posto dello sviluppo umano e spirituale…
Il Vangelo si incultura e le culture vanno evangelizzate. Possa questo Regno di Dio trovare piena accoglienza in questa terra, così che tutte le popolazioni della Papua Nuova Guinea, con la varietà delle loro tradizioni, vivano insieme in armonia e diano al mondo un segno di fraternità”.
(Foto: Santa Sede)
I leoni dell’Atlante
‘No, non è un semplice gioco, è una terapia!’ Ha ragione padre Modeste, giovane missionario congolese dei Padri Bianchi. Lui fa l’arbitro. Sul verde campo da calcio li vedi scorazzare con un’energia che impressiona. Scattanti sull’erba, interattivi, quasi danzando con il pallone al piede, e poi come un lampo… gooaaal!! Un urlo di gioia che squarcia le gole. L’adrenalina, qui, allora vola al massimo.
Mi stropiccio gli occhi, e mi domando incredulo: ma sono gli stessi giovani? Sì, li incontrate nei giorni normali per le strade di Rabat. Malconci e malvestiti, faccia tirata, atteggiamento supplichevole, elemosinano 1 dirham. Ed è il loro unico modo di sopravvivere. Alla fine della giornata, raccoglieranno appena due o tre euro, se tutto va bene. A volte, nulla.
“L’altra sera sono andato a dormire a stomaco vuoto, non c’era niente!”, vi dice amaro Ahmad, 17 anni, facendovi pietà. O perchè spesso cascano in retate delle forze dell’ordine, trasportati all’istante ai confini del deserto. Mendicare qui è proibito. Una città bella, tutta bianca, affacciata sul blu dell’oceano, Rabat, la capitale, non se lo può permettere. ‘Noblesse oblige’.
Ma sul terreno da calcio, dimenticano tutto. E vengono fuori loro tutte le energie dell’anima e del corpo. Dimenticano la loro immensa odissea tra deserti e frontiere. Provengono dal Senegal, dalla Guinea, insomma dai Paesi subsahariani, attraversano per mesi, anche a piedi, Mali e Algeria… Qui dimenticano le sofferenze, le violenze, le difficoltà di ogni genere, ferite o malattie, fame e sete incontrate. E anche le tragedie viste o vissute.
‘E’formidabilmente catartico per loro!’, mi fa ancora père Modeste. Sì, purificare la memoria. Far emergere giocando l’amarezza della loro vita, ma anche la sua sorprendente vitalità. Vincere l’ansia, la solitudine e l’abbandono. Mostrare, così, un coraggio senza limiti, e la voglia di andare avanti ad ogni costo. Perfino a costo della vita. E lo sanno… Il loro sogno è l’Europa. ‘Hanno un coraggio che trasporta le montagne!’ mi fa qualcuno.
Le loro famiglie li seguono da lontano, passo dopo passo: questi giovani raminghi sono la loro speranza. Finché un giorno non sentiranno più la loro voce, ed allora, tutto è perduto! Resterà solo il pianto a far loro compagnia. Un’avventura, questa, inimmaginabile per loro stessi. Sì, impensabile. Ma qui, sull’erba di un campo da calcio ritrovano un po’ di umanità. E una nuova energia interiore. ‘Voilà, les vrais lions de l’Atlas!’ (‘Eccoli, i veri leoni dell’Atlante’, il nome dell’equipe del Marocco) esclama p. Modeste, per incoraggiarli.
Da poco, hanno pensato di mettere su una ‘cassa del calcio’ per tutte le loro spese, ma é sempre vuota. Dovrebbe servire a medicinali di emergenza, al trasporto, a un pasto insieme, all’affitto orario del campo… Perchè vivono in quartieri poverissimi della periferia e vengono in centro città per giocare. A volte li vedi apparire a decine. E sono tutti musulmani.
Alcuni come Aliou o Mamadou semplicemente adolescenti, ma a cui la vita dura ha dato grinta e talento. Il loro match, poi, inizia sempre con una preghiera. E’ vero, l’invocazione ad Allah li accompagna ad ogni istante. La sentite spesso sulla bocca di una vita giovane, selvatica e disperata come la loro.
E vi sorprende. Perchè solo Dio li tiene per mano, in un mondo tutt’attorno di avversità. E così, alla fine, padre Modeste sembra concludere con Bonhoeuffer: ‘La Chiesa non è realmente Chiesa, se non quando esiste per coloro che non ne fanno parte’. Ammirevole missionarietà!
Se per caso desiderate inviare un vostro piccolo obolo per la cassa dei nostri giovani subsahariani, l’IBAN è IT98WO2008106403903 Unicredit
Violenza ad Haiti, l’impegno del volontariato per la popolazione
Le bande criminali controllano il centro della capitale, Port-au-Prince, dopo aver preso d’assalto le carceri e liberato 4.000 detenuti: Haiti è allo sbando, con un primo ministro considerato illegittimo dagli oppositori, che si è dimesso, ed ancora nessuna alternativa politica concreta da poter proporre come soluzione, come ha dichiarato la coordinatrice umanitaria delle Nazioni Unite, Ulrika Richardson, ai giornalisti in una conferenza stampa virtuale dalla capitale haitiana, Port-au-Prince: “Prosegue l’escalation di violenza ad Haiti, con bande armate che compiono omicidi e atti di violenza sessuale”.
Attualmente sono più di 5.000.000 le persone bisognose di assistenza, poco meno della metà della popolazione totale. La maggiore criticità è quella dell’insicurezza alimentare, per cui si riscontra un aumento importante dei casi di malnutrizione soprattutto tra i bambini e le donne incinte. Gli atti di violenza a cui è sottoposta quotidianamente la popolazione sono un’altra delle questioni nodali. Nel 2023 erano state segnalate più di 8.400 persone uccise, ferite o rapite, più del doppio rispetto al 2022.
I bambini costituiscono la maggior parte della popolazione bisognosa, circa 3.000.000 e l’escalation delle violenze sta compromettendo il loro accesso all’istruzione, senza contare che molti di questi facevano affidamento al sostegno dell’alimentazione scolastica e si trovano così privati anche di questo apporto alimentare, come ha raccontato Flavia Maurello, direttrice di AVSI ad Haiti, raggiunta telefonicamente:
“Le principali vittime della condizione in cui versa Haiti sono i bambini e le donne incinte. Ci sono interi mesi in cui i bambini non vanno a scuola, e questo incide sullo sviluppo del Paese. Ci sono poi le donne incinte che non riescono ad accedere agli ospedali, molte di loro arrivano al nono mese di gravidanza senza aver mai incontrato un medico. La situazione sanitaria è anch’essa disastrosa. La non cura dei politici ha reso ingestibile la situazione nei quartieri in cui si lavora. Non vi è più la pulizia dei canali, vi sono cumuli di spazzatura alti come montagne, case completamente allagate, e questo ha portato al ritorno dell’epidemia di colera”.
Racconta la situazione ad Haiti: “In questo momento la situazione ad Haiti è molto drammatica dopo le dimissioni del primo ministro, che dopo un viaggio in Kenya non è riuscito a rientrare nel Paese”.
Per quale motivo è sorta questa instabilità?
“Soprattutto nella capitale c’è molta instabilità per mano delle bande armate fomentate da alcuni politici, che hanno dapprima attaccato le prigioni governative liberando i prigionieri, ed in seguito hanno attaccato e saccheggiato tutte le zone della città. E’ stata saccheggiata la parte bassa della città; mentre a mano a mano che i giorni trascorrevano sono state attaccate anche altre zone della città fino ai quartieri più residenziali di Port au Prince. In questo momento nessuna zona della capitale è risparmiata dalla situazione di violenza e sono stati presi di mira negozi o depositi, ma anche ospedali, farmacie, case: nessuno è risparmiato in quest’ondata di violenza”.
Perché le bande si sono ribellate?
“Per cambiare lo stato delle cose. Dietro di loro, però, c’è qualcuno; anche gli attacchi alle prigioni sono stati pagati: ci sono interessi socioeconomici di vari gruppi nel Paese. Basta vedere anche il processo per l’assassinio dell’ex presidente. Ci sono gruppi che non vogliono più Ariel Henry perché evidentemente non fa più i loro interessi”.
Domenica 17 marzo papa Francesco a conclusione della recita dell’Angelus ha chiesto un impegno per la ricerca del bene comune: è possibile?
“In questo momento la ricerca del bene comune è difficile da trovare; sicuramente ci sono molti interessi, ma questo governo di transizione non incontra il benestare degli altri gruppi, che sono nel Paese. Gli interessi sono tanti ed in questo momento è difficile sbilanciarsi: la Chiesa continua a chiamare a raccolta soprattutto per arrivare ad una soluzione di pace e di mediazione. Sarebbe, altresì, interessante capire se si riesce a fare questo governo di transizione la Chiesa avrebbe un ruolo come osservatore per una mediazione di pace. In questo momento AVSI continua a lavorare intorno alle comunità più vulnerabili della capitale, ma anche nelle zone di provincia, dove il nostro lavoro non si è mai fermato, continuando a portare assistenza alle popolazioni più vulnerabili con servizi di base”.
Infine ha sottolineato che AVSI è presente nel Paese centramericano dal 1999, collaborando con organizzazioni locali per combattere la violenza e creando luoghi sicuri dove ricevere assistenza e protezione, e per prevenire la malnutrizione, puntando su attività di cura e di sensibilizzazione che coinvolgano l’intera comunità, ma lavora anche in risposta alle continue emergenze umanitarie: “Come AVSI teniamo aperto il nostro ufficio, ma nella capitale non riusciamo a svolgere attività, mentre nelle aree periferiche del Paese i progetti stanno andando avanti. A Port-au-Prince lavoriamo nelle bidonvilles, che in questo momento sono teatro di violenza: non riusciamo ad assicurare un primo soccorso e i servizi che siamo soliti garantire. La preoccupazione principale è per il nostro staff che vive in queste zone. Ci sono persone che non riescono ad entrare a casa, altri che l’hanno persa, altri ancora che si sono rifugiati nelle chiese. Continuiamo ad aprire l’ufficio perché lo staff ce lo chiede e perché stare insieme ci conforta”.
(Tratto da Aci Stampa)
Non si disperda la memoria della Resistenza
In tutta Italia giovedì 25 aprile si sono svolti cortei e manifestazioni, adombrate in alcuni casi da qualche episodio violento, per ricordare la liberazione dal fascismo, in cui è campeggiata una frase di Giacomo Matteotti a 100 anni dall’uccisione da parte dei fascisti: ‘Il fascismo è un crimine e non un’opinione’. E nella mattinata la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha affidato ai social una riflessione su questa festa, che deve essere sempre più condivisa dagli italiani:
“Nel giorno in cui l’Italia celebra la Liberazione, che con la fine del fascismo pose le basi per il ritorno della democrazia, ribadiamo la nostra avversione a tutti i regimi totalitari e autoritari… Continueremo a lavorare per difendere la democrazia e per un’Italia finalmente capace di unirsi sul valore della libertà”.
Ma il discorso più importante, con cui è stata ricordata tale data, è stato quello che il presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, a Civitella in Val di Chiana per ricordare l’eccidio del 29 giugno 1944, avvenuto per rappresaglia sulla popolazione inerme, oltre 200 persone, terzo nel tragico computo delle vittime delle stragi nazifasciste, con un appello a fare della Festa di Liberazione un evento plurale, unificante e irrinunciabile:
“Siamo qui, a Civitella in Val di Chiana, riuniti per celebrare il 25 aprile (l’anniversario della Liberazione), ad 80 anni dalla terribile e disumana strage nazifascista perpetrata, in questo territorio, sulla inerme popolazione… Nella stessa giornata si compiva, non lontano da qui, a San Pancrazio, un altro eccidio, dove furono sterminate oltre settanta persone”.
Nel discorso il presidente della Repubblica italiana ha ricordato la ‘pianificazione’ cinica dell’eccidio contro innocenti, in cui furono trucidate 250 persone: “Come è attestato dai documenti processuali, gli eccidi furono pianificati a freddo, molti giorni prima, e furono portati a termine con l’inganno e con il tradimento della parola. Si attese, cinicamente, la festa dei Santi Pietro e Paolo per essere certi di poter effettuare un rastrellamento più numeroso di popolazione civile…
Il parroco di Civitella, don Alcide Lazzeri, e quello di San Pancrazio, don Giuseppe Torelli, provarono a offrire la loro vita per salvare quella del loro popolo, ma inutilmente. Furono uccisi anch’essi (come abbiamo sentito poc’anzi) insieme agli altri. Alcuni ostaggi, destinati alla morte, rimasero feriti o riuscirono a fuggire. Nei loro occhi, sbigottiti e impauriti, rimarrà per sempre impresso il ricordo di quel giorno di morte e di orrore”.
Era una ‘strategia’ militare ben precisa: “Con queste barbare uccisioni, nella loro strategia di morte, i nazifascisti cercavano di fare terra bruciata attorno ai partigiani per proteggere la ritirata tedesca; cercavano di instaurare un regime di terrore nei confronti dei civili perché non si unissero ai partigiani; cercavano di operare vendette nei confronti di un popolo considerato inferiore da alleato e, dopo l’armistizio, traditore.
Si trattò di gravissimi crimini di guerra, contrari a qualunque regola internazionale, contrari all’onore militare e, ancor di più, ai principi di umanità. Nessuna ragione, militare o di qualunque altro genere, può infatti essere invocata l’uccisione di ostaggi e di prigionieri inermi”.
Quindi occorre ricordare la memoria per vivere il futuro: “I nazifascisti ne erano ben consapevoli: i corpi dei partigiani combattenti, catturati, torturati, uccisi, dovevano rimanere esposti per giorni, come sinistro monito per la popolazione. Ma le stragi dei civili cercavano di tenerle nascoste e occultate, le vittime sepolte o bruciate.
Non si sa se per un senso intimo di vergogna e disonore, o per evitare d’incorrere nei rigori di una futura giustizia, oppure, ancora, per non destare ulteriori sentimenti di rivolta tra gli italiani… Occorre (oggi e in futuro) far memoria di quelle stragi e di quelle vittime, e sono preziose le iniziative nazionali e regionali che la sorreggono. Senza memoria, non c’è futuro”.
L’Italia è, quindi, una democrazia grazie al ‘sangue’ dei martiri: “Il sangue dei martiri che hanno pagato con la loro vita le conseguenze terribili di una guerra ingiusta e sciagurata, combattuta a fianco di Hitler nella convinzione che la grandezza e l’influenza dell’Italia si sarebbero dispiegate su un nuovo ordine mondiale. Un ordine fondato sul dominio della razza, sulla sopraffazione o, addirittura, sullo sterminio di altri popoli. Un’aspirazione bruta, ignobile, ma anche vana”.
E la Resistenza riscattò il disonore del fascismo: “Ma molti italiani non si piegarono al disonore. Scelsero la via del riscatto. Un riscatto morale, prima ancora che politico, che recuperava i valori occultati e calpestati dalla dittatura. La libertà, al posto dell’imposizione. La fraternità, al posto dell’odio razzista. La democrazia, al posto della sopraffazione. L’umanità, al posto della brutalità. La giustizia, al posto dell’arbitrio. La speranza, al posto della paura.
Nasceva la Resistenza, un movimento che, nella sua pluralità di persone, motivazioni, provenienze e spinte ideali, trovò la sua unità nella necessità di porre termine al dominio nazifascista sul nostro territorio, per instaurare una convivenza nuova, fondata sul diritto e sulla pace”.
Ricordando una frase di Aldo Moro (‘intorno all’antifascismo è possibile e doverosa l’unità popolare, senza compromettere d’altra parte la varietà e la ricchezza della comunità nazionale, il pluralismo sociale e politico, la libera e mutevole articolazione delle maggioranze e delle minoranze nel gioco democratico’), il presidente Mattarella ha ribadito che tale data è a fondamento della democrazia italiana:
“Il 25 aprile è, per l’Italia, una ricorrenza fondante: la festa della pace, della libertà ritrovata, e del ritorno nel novero delle nazioni democratiche. Quella pace e quella libertà, che, trovando radici nella resistenza di un popolo contro la barbarie nazifascista, hanno prodotto la Costituzione repubblicana, in cui tutti possono riconoscersi, e che rappresenta garanzia di democrazia e di giustizia, di saldo diniego di ogni forma o principio di autoritarismo o di totalitarismo”.
(Foto: Quirinale)
Ad Haiti l’impegno della Chiesa italiana
Sono momenti estremamente difficili quelli che la popolazione haitiana continua ad affrontare, ora anche a causa dell’aumento dell’instabilità politica. Questa situazione ha fatto precipitare la capitale, Port-au-Prince, in una situazione di grave insicurezza negli ultimi giorni e ha portato allo sfollamento di migliaia di persone dai quartieri poveri e vulnerabili conquistati dalle bande, verso quartieri non ancora colpiti situati nel comune di Delmas e del comune di Pétion-Ville. Lo stato di emergenza è attualmente prorogato fino al 3 aprile.
Le violenze hanno portato a saccheggi, atti di vandalismo e alla chiusura della maggior parte delle istituzioni commerciali, pubbliche e private, e delle strutture sanitarie come l’ospedale Saint François de Salle (ente dell’arcidiocesi di Port-au-Prince). Altre istituzioni sanitarie hanno ridotto drasticamente le loro attività per paura di un attacco e anche per carenza di medicinali, di attrezzature mediche e di personale.
La maggior parte delle scuole pubbliche nei comuni di Port-au-Prince, Tabarre, Cité Soleil, Delmas, Pétion-ville, Croix-des-Bouquets e Carrefour rimane chiusa. Gli sfollati interni non fanno che aumentare dopo le recenti violenze. Alla fine dello scorso anno, erano stati registrati circa 13.000 profughi interni a seguito di situazioni di violenza. Questo numero è salito rapidamente a 15.000, pari a circa 3.200 famiglie, all’inizio del 2024. Oggi gli sfollati sono circa 362.000. La maggior parte di queste persone si trova in 14 rifugi, tra cui tre nuovi allestiti nella municipalità di Port-au-Prince, e presso famiglie ospitanti.
Il fenomeno delle bande giovanili è una forma di comportamento e aggregazione delle generazioni più giovani diffuso in tutte le parti del mondo, secondo modalità e sfaccettature tipiche dei diversi contesti nazionali e socio-culturali. Nel dossier ‘Bande, maras e pandillas. Le gang giovanili, un fenomeno transnazionale’, curato da Caritas Italiana a marzo dello scorso anno, oltre ai dati di statistica pubblica sulle tendenze in atto, sono presentati gli esiti di una indagine sul campo che ha coinvolto 250 giovani: 100 in Guatemala, 100 ad Haiti e 50 in Italia. Alcune storie di vita e interviste realizzate appositamente, con la partecipazione di operatori ed ex membri di gang giovanili, consentono di capire meglio meccanismi di inclusione e funzionamento delle bande.
La gang è spesso una scelta obbligata per sopravvivere alla strada, all’abbandono e alla fame, così come ha raccontato Roberto, un ragazzo haitiano che beneficia dei servizi offerti dal Centro Lakay Lakou, una comunità di accoglienza diretta dai Salesiani, che nella capitale Port-au-Prince riscatta i giovani dalle gang di quartiere: “Mio padre si occupava di tutto, ma non lo vedevo mai a casa, perché lavorava tutto il giorno per mantenere me e i miei fratelli.
Spesso non tornava a casa per giorni e noi rimanevamo soli. Così ho iniziato a frequentare la strada, vivevo come un vagabondo. Quando ero per strada ho incontrato la banda, che si occupava di me e mi dava quello di cui avevo bisogno: cibo, un tetto sopra la testa, ma soprattutto protezione e appartenenza. Con loro mi sentivo accolto. La gang per me è stata una seconda famiglia, anzi, la mia unica famiglia. Ho vissuto per strada tre anni”. E’ arrivato al ‘Centro Don Bosco’, perché aveva sentito che accoglievano ragazzi di strada e che insegnavano un mestiere.
Dopo gli interventi post sisma del 2010 ora la Chiesa italiana “si trova ora di fronte al desiderio di moltiplicare i segni concreti di vicinanza, ma anche alla necessità di valutare bene come poter intervenire in modo efficace in questa nuova emergenza che rende difficile non solo la pianificazione ma anche la realizzazione degli interventi e perfino far arrivare i fondi. Con il rischio che pur essendo a favore dei più poveri diventino oggetto delle mire delle bande armate”.
Negli ultimi 10 anni tramite il Servizio per gli interventi caritativi per lo sviluppo dei popoli, la Chiesa italiana ha sostenuto nell’isola caraibica 70 progetti per quasi € 11.000.000 per rispondere ai bisogni della popolazione attraverso la Chiesa locale, le Congregazioni, i vari Organismi pastorali:
“Si tratta di progetti in risposta a emergenze (in particolare terremoti e uragani) e di sviluppo socio-economico in vari settori: sanità, agricoltura, educazione, formazione. Alcune iniziative hanno anche puntato al rafforzamento del sistema democratico tramite lo sviluppo della capacità istituzionali e di rappresentanza delle reti delle organizzazioni della società civile; la formazione e l’educazione civica, soprattutto con i giovani nelle scuole e nelle parrocchie; le iniziative di sensibilizzazione sul fenomeno della corruzione; il sostegno ai meccanismi di dialogo e concertazione tra potere pubblico e società civile; il coinvolgimento e la mobilitazione delle comunità locali; la partecipazione alla pianificazione e all’implementazione dei programmi di sviluppo; il monitoraggio e la valutazione dell’azione pubblica sulle azioni e sull’utilizzo dei fondi”.
Nel dossier sono ‘ospitate’ alcune testimonianze, tra cui quella di p. Massimo Miraglio, missionario camilliano, che vive da 18 anni a Jeremie, nel Sud Est di Haiti: “Oramai sono mesi che le strade sono bloccate e il poco che arriva ha dei prezzi proibitivi. Anche i trasporti via mare sono fermi. E la maggior parte della popolazione non ha lavoro né i soldi per affrontare questi costi e reperire il minimo indispensabile.
Ci troviamo in una situazione dalla quale non si vede via d’uscita, in cui non ci sono reali alternative politiche decenti che possano guidare questo Paese verso una transizione. La Chiesa sta facendo continui appelli per uscire da questo clima di violenza e c’è una grande preoccupazione per la sofferenza della gente”.
Ed ha raccontato il compito a cui è chiamata la Chiesa: “Bisogna cominciare a pensare al dopo, all’accompagnamento della società verso una transizione alla pace. Ci sono migliaia di giovani armati che devono essere disarmati e che dovranno essere reintrodotti ad una vita normale. Occorre pensare come accompagnare questo Paese verso lo sviluppo, pensare all’educazione, alla sanità. Va bene distribuire sacchi di riso, ma è necessario individuare strategie che aiutino il Paese ad uscire da questo stato di povertà estrema”.
Ha concluso la testimonianza con un messaggio di speranza per il popolo haitiano: “Nella parrocchia in cui sono parroco da agosto del 2023, la gente non ha perso la fede né la speranza, però i fedeli hanno, abbiamo tutti, bisogno di aiuto in questo momento. Dobbiamo unire le forze! C’è tanta gente in gamba ad Haiti, tanti che vogliono risollevarsi e uscire da questa situazione di miseria e di violenza e noi, come Chiesa, abbiamo una grande responsabilità e possiamo sostenere tutte queste forze sane che esistono nel Paese, che lottano e vogliono per Haiti un futuro diverso. Dobbiamo aiutare questa gente a potersi risollevare con le sue gambe e a ritrovare la sua dignità”.