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Don Giovanni Merlini è beato: seppe coniugare preghiera ed azione

“Nella Basilica di San Giovanni in Laterano, stamani è stato beatificato Don Giovanni Merlini, sacerdote dei Missionari del Preziosissimo Sangue. Dedito alle missioni al popolo, fu consigliere prudente di tante anime e messaggero di pace. Invochiamo anche la sua intercessione mentre preghiamo per la pace in Ucraina, in Medio Oriente e nel mondo intero. Un applauso al nuovo Beato!”: al termine della recita dell’Angelus domenicale papa Francesco ha ricordato la beatificazione di don Giovanni Merlini, presieduta dal prefetto del dicastero delle cause dei santi, card. Marcello Semeraro, nella basilica di san Giovanni in Laterano.

Giovanni Merlini nacque a Spoleto il 28 agosto 1795. Ordinato sacerdote il 19 dicembre 1818, due anni dopo, partecipando ad un corso di esercizi spirituali predicato da San Gaspare del Bufalo (1786-1837), fondatore della Congregazione dei Missionari del Preziosissimo Sangue, colpito dal carisma del Santo, chiese di aderire alla sua opera.

Si dedicò con intensità al lavoro missionario e alla direzione spirituale di tante anime, in modo particolare quella di Santa Maria De Mattias (1805-1866), che guidò per ben 42 anni, insieme alla nascente famiglia delle Adoratrici del Preziosissimo Sangue. Svolse il suo ministero nella zona pontina e marittima, in un contesto di forte resistenza sociale allo Stato pontificio.

Nel 1847 venne eletto Moderatore Generale della Congregazione del Preziosismo Sangue, incarico che mantenne fino alla morte. Conobbe personalmente Pio IX di cui divenne consigliere spirituale. Grazie a questo legame si deve la pubblicazione, il 10 agosto 1849, del decreto ‘Redempti sumus’ con cui si istitutiva a livello universale la festa del Preziosissimo Sangue. Morì a Roma il 12 gennaio 1873 a seguito di un incidente stradale occorso nei pressi di Santa Maria in Trivio. Il decreto sull’eroicità delle virtù venne promulgato il 10 maggio 1973.

Nell’omelia il card. Semeraro ha fatto il ritratto di questo nuovo beato della Chiesa, che è stato un uomo di preghiera, che ha saputo unire nella sua vita e nel suo apostolato la dimensione attiva e quella contemplativa, che ha saputo governare con la virtù della prudenza, che ha saputo relazionarsi con amicizia verso tutti:

“Dai racconti evangelici e specialmente dal vangelo secondo Luca sappiamo che per Gesù la preghiera è un atteggiamento abituale, il luogo privilegiato in cui egli vive il mistero della sua persona e della sua missione, lo spazio vitale in cui colloca le sue relazioni con il Padre e con i discepoli. Il Padre suo Gesù lo prega sempre; da ultimo nel Getsemani e sulla croce. Per i discepoli prega quando li sceglie e quando insegna loro a pregare”.

Ed è stato un ‘ottimo’ discepolo: “In questo (oggi lo riconosciamo con gioia) il beato Giovanni Merlini è stato suo ottimo discepolo. Le testimonianze raccolte nel Processo per la sua beatificazione e canonizzazione sono unanimi nel dirci che il Signore lo aveva arricchito del dono della preghiera: una preghiera che in lui diveniva abitualmente contemplazione”.

Però la preghiera conduce all’azione: “Egli, tuttavia, fu anche uomo di azione e di apostolato, in particolare nella predicazione missionaria (cosa per la quale era molto stimato da san Gaspare), e fu pure uomo dalle ottime capacità di governo e, soprattutto, arricchito dalla virtù della prudenza. E’ questa, difatti, tra le virtù cardinali quella più necessaria in chi ha responsabilità di guida: aspetto, questo, che san Tommaso d’Aquino sottolineava in particolare giacché (diceva) è prudente chi sa decidere il da farsi concretamente e sa farlo con sapienza.

Del beato Giovanni Merlini i testimoni del processo per la beatificazione dicono che esercitava la virtù della prudenza in modo veramente straordinario: studiava le situazioni, consultava e interveniva in forme adatte e questo, specialmente in decisioni difficili per le persone, con carità”.

Infatti, come hanno riferito i testimoni, seppe coniugare insieme ‘Marta e Maria’: “Sono questi, carissimi, alcuni aspetti della vita e della spiritualità del nuovo Beato che da oggi la Chiesa ci propone per la invocazione e per la imitazione. Ce n’è, però, un altro che non voglio omettere di richiamare ed è l’amicizia con cui egli è vissuto specialmente con i confratelli nella famiglia religiosa e con le persone a lui affidate per la guida e l’accompagnamento spirituale. I nomi di san Gaspare del Bufalo e di santa Maria de Mattias sono emblematici per il loro speciale legame con il beato Giovanni Merlini”.

Il genocidio rwandese nel racconto di Gianrenato Riccioni

“Il genocidio in Rwanda era iniziato il 6 aprile, il giorno stesso in cui era stato abbattuto l’aereo dell’allora presidente Habyarimana… Era stato tutto premeditato, addirittura dalla Cina erano stati importati centinaia di migliaia di machete, arma rudimentale e feroce, ma anche economica… A dare inizio alla carneficina fu la radio nazionale, che incitò a seviziare e uccidere ‘gli scarafaggi Tutsi’. In questo contesto, immagina un manipolo di volontari, armati solo di tanta fede e di speranza, che accettavano di entrare in Rwanda per riportare una goccia di umanità in quell’oceano di male. Avevo 38 anni, e tanta paura, ma dissi di sì e reclutai chi mi potesse seguire”:

così inizia il colloquio con il dott. Gianrenato Riccioni, medico anestesista e rianimatore all’ospedale di Macerata, ora in pensione, che con la moglie Letizia, insegnante (genitori di tre bambini), decise al termine degli anni ’80 di partire come responsabile dei progetti di Avsi, organizzazione non governativa cattolica presente in 38 Paesi, per  l’Uganda.

Ed il ricordo resta ancora indelebile: “Non era una normale guerra, in Rwanda, era l’inferno. Quelli che fino a poco prima erano stati amici, parenti, addirittura sposi, ora venivano massacrati senza distinzione, con machete, bastoni chiodati, martelli. Perfino le chiese dove i Tutsi si erano rifugiati per sfuggire agli Hutu avevano le pareti rosse di sangue, sembravano dipinte. In quel delirio ero stato chiamato a organizzare in qualche modo una presenza di pace e di ricostruzione… L’estate del 1994, trent’anni fa, segnò indelebilmente la mia vita”.

Allora incominciamo dall’inizio: per quale motivo in quel tempo avete scelto di partire per l’Uganda?

“Il 29 settembre 1984, in un’udienza per i 30 anni del movimento di Comunione e Liberazione, papa san Giovanni Paolo II disse: ‘Andate in tutto il mondo è ciò che Cristo ha detto ai suoi discepoli. Ed io ripeto a voi: Andate in tutto il mondo a portare la verità, la bellezza, la pace, che si incontrano in Cristo Redentore’. Poi, nel 1985 incontrai il dott. Enrico Guffanti che aveva vissuto 4 anni in Uganda. Io e Maria Letizia, che era diventata mia moglie pochi mesi prima, fummo molto colpiti dalla sua testimonianza. Si percepiva, un’umanità, un’intensità di vita ed una gioia assolutamente desiderabili: diventammo amici”.

E quale è stato il contatto con l’Avsi?

“L’amicizia crebbe e agli inizi del 1986 offrimmo la nostra disponibilità, di medico e di insegnante, per la missione. Enrico ci presentò il dott. Arturo Alberti che, nel 1972, aveva fondato l’Avsi, una ONG nata per sostenere chi partiva per la missione”.

Quando siete partiti eravate consapevoli di ciò che stava per succedere?

“Certamente consapevoli di una realtà totalmente altro da ciò a cui eravamo abituati. Ma l’idea della guerra con le sue atrocità, anche se sapevamo dell’instabilità socio politica di quelle zone, non era nei nostri pensieri. Partimmo quindi per l’Uganda: era il 1987. Fummo mandati nel nord del Paese, a Kitgum. Incontrammo i missionari comboniani, uomini con cui nacque una compagnia stringente, che privilegio averli conosciuti.  

Dopo un primo periodo scoppiò la guerra, che forse in quella terra così martoriata non era mai terminata. Centinaia di cadaveri accatastati ovunque. Ci battemmo per ottenere il diritto a curare tutti i feriti senza distinzione, amici o nemici. Alla fine delle ostilità ci chiesero di andare ad Hoima,  nel sud ovest dell’Uganda. Eravamo fra i primi bianchi ad entrare nel triangolo di Luweero, territorio famoso per le atrocità avvenute fino a tutto il 1986”.

E come avete vissuto il genocidio che stava avvenendo in Rwanda?

“Nel 1994, quando scoppiò il genocidio, l’ambasciatore ci chiese di valutare, come cooperazione italiana, una disponibilità a promuovere un progetto di emergenza in Rwanda. Tornando a casa ne parlai subito con Maria Letizia. Dissi: ‘Ma io non ci penso nemmeno. Troppo pericoloso, per me e per i miei volontari!’ Ma padre Tiboni, un nostro carissimo amico missionario comboniano, mi invitò invece a considerare la possibilità di iniziare una presenza in Rwanda.

Disse che negli anni era nata un’amicizia con moltissimi ugandesi di origine hutu e tutsi. Cresciuti in Uganda desideravano tornare a casa e lui aveva a cuore queste persone. Mi chiese proprio di accettare, chiese il ‘miracolo’. Accettai, poi la realtà si sarebbe rivelata molto più drammatica di quanto avessi temuto. In quei 100 giorni più di 800.000 persone vennero uccise all’arma bianca”.

In tale situazione avete incontrato il console in Rwanda, Pierantonio Costa: “Mi portò a vedere ciò che stava accadendo, affinché io potessi costruire un progetto fattibile di presenza. Il console Costa mi condusse fuori Kigali nelle baracche di fango sulle colline, dove si erano rifugiati i Tutsi, e là dentro vidi i sopravvissuti amputati col machete, gli occhi impazziti di orrore. Soprattutto però mi impressionò l’orfanotrofio dei padri Rogazionisti a Nyanza: lì erano stati raccolti 800 bambini tutti dai 2 anni in su, perché sotto i 2 anni erano morti, uccisi o dagli Hutu o dalla diarrea. Erano hutu e tutsi insieme, chi morente, chi senza più gli arti, terrorizzati per ciò che avevano visto.

Molti erano scappati ai loro stessi parenti (zii, cugini, persino padri e fratelli) componenti di quel 40% di famiglie miste hutu e tutsi che avevano preso a massacrarsi. Costa era andato a Nyanza per portare in salvo i padri Rogazionisti, tra i quali padre Tiziano Pegorari cui gli Hutu avevano promesso la decapitazione, ma questi non se ne volevano andare. Per salvare gli 800 bambini dalla strage il console Costa circondò l’orfanotrofio con bandiere italiane e la scritta ‘Consolato d’Italia’. Funzionò e salvò le vite di questi bambini”.

Quindi cosa significò salvare la vita dei bambini?

“Significò accogliere i bisogni del bambino traumatizzato che poi sono i bisogni del bambino in qualsiasi momento della vita: essere ascoltato, essere accolto in quello che si è vissuto e si vive e aver qualcuno da guardare e da seguire. I bambini portavano i segni di quei mesi terribili: amputazioni, ferite agli arti e/o in testa, alcuni erano rimasti settimane appollaiati sugli alberi, molti non parlavano più.

Ad Avsi venne affidato l’orfanatrofio di Nyanza dove c’erano circa 800 bambini hutu e tutsi. Visitando la struttura con padre Tiziano, che ci affidò la realtà, chiesi: ‘Si, ma dove sono i bambini?’ e lui: ‘Ma sono qua!’  Entrai nelle camerate ed erano tutti lì, 800 bambini in un silenzio irreale. Il gruppo di volontari AVSI era formato da personale italiano, belga e ugandese di origine hutu e tutsi. Iniziarono i primi progetti di sostegno ai bambini traumatizzati dalla guerra e, contemporaneamente, anche un’attività di ricerca per rintracciare le famiglie originarie. Più di 500 bambini ritrovarono le loro famiglie”.

A distanza di 30 anni quale ricordo conservate di quella missione?

“Il volto e i nomi di questi amici hutu e tutsi che furono e sono la più grande testimonianza di speranza per quei bambini. La nostra esperienza si riassume bene con una espressione che stava a cuore a p. Tiboni ed a tutti noi: ‘E’ nata una nuova tribù … la tribù di Gesù Cristo e questa è la speranza per noi e per questo popolo’. Qualcuno di noi ebbe a dire: ‘Il clima di amicizia e di unità che la gente vede tra noi meraviglia tutti, e a volte meraviglia anche noi stessi’. La presenza di personale ugandese di origine hutu e tutsi, italiano, belga è stato segno tangibile e prezioso di una novità dentro la tragedia: questo amore, fuori da ogni logica umana e previsione, capace di generare speranza”.

(Tratto da Aci Stampa)

Cei: la missione è centrale per la formazione dei sacerdoti

Sacerdote con Rosario

“All’origine della formazione presbiterale sta la Parola di Dio che raggiunge il chiamato domandando di essere da lui accolta. Quando ciò avviene, la Parola comincia ad agire efficacemente in tutta la persona (‘vi farò diventare’), rimanendo il fondamentale principio formativo verso una particolare configurazione a Cristo Signore, in unione d’amore, con la mediazione della Chiesa che riconosce, custodisce, accompagna l’opera di Dio”: nei giorni scorsi è entrato in vigore, ad experimentum per tre anni, il documento ‘La formazione dei presbiteri nelle Chiese in Italia. Orientamenti e norme per i seminari’, approvato dalla 78^ Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, svoltasi ad Assisi a novembre di due anni fa.

Il testo, che ha ottenuto la conferma della Santa Sede con decreto del Dicastero per il Clero, presenta un iter formativo al presbiterato articolato in due tempi: una prima fase di carattere iniziatico, dedicata alla costruzione della consistenza interiore, in un rapporto educativo forte con i formatori, attraverso lo sviluppo di una solida vita spirituale, l’applicazione seria allo studio e alla preghiera, una vita comunitaria intensa, la conoscenza di sé. La seconda fase è dedicata alla scoperta del Popolo di Dio e al maggiore coinvolgimento della comunità cristiana nella formazione dei candidati al presbiterato.

Nel primo capitolo si risponde alla domanda su quale prete si debba formare e per quale Chiesa. Per questo, da una parte, si assume la formazione permanente in alcuni suoi elementi, ritenuti necessari al presbitero italiano odierno, come paradigma della formazione in Seminario; dall’altra, si accentuano decisamente le due dimensioni della missione e della comunione come orizzonte fondamentale di tale formazione:

“La liturgia ben vissuta è lo spazio quotidiano in cui, sia il seminarista che il presbitero, insieme con le loro comunità, possono cogliere gli appelli alla conversione permanente e attingere alla grazia che consente la prosecuzione del processo di configurazione a Cristo Servo, Pastore e Sposo. La liturgia, infatti, è paradigma della vita cristiana e, per essere vissuta in modo efficace e fruttuoso, deve inserirsi in un contesto comunitario aperto all’ascolto profondo del Vangelo e dei fratelli e delle sorelle. Lì nasce e si sviluppa una comunità che dall’ascolto del Signore diviene disponibile alla comunione fraterna, pronta al servizio dei poveri, alla missione verso coloro che non conoscono il Signore e al dialogo con chiunque il Signore ponga sulla nostra strada”.

Nel secondo capitolo la pastorale vocazionale è presentata come impegno di tutta la comunità ecclesiale, passando poi a specificare le modalità di accompagnamento vocazionale dei ragazzi e dei giovani, basato su una seria formazione spirituale: “La proposta educativa, strutturata nelle quattro dimensioni (umana, spirituale, intellettuale e pastorale) si declina nel vissuto ordinario, fatto di proposte di gioco, laboratori, percorsi formativi, incontri con testimoni, esperienze di carità, colloqui con i formatori, studio, momenti di ritiro, tempi di rielaborazione del vissuto, permette a chi vi aderisce di integrare gradualmente fede e vita e di interrogare il proprio vissuto e la propria storia con autenticità e alla luce del Vangelo”.

Perciò sono delineate alcune ‘caratteristiche’: “Alcuni tratti genuini che testimoniano il cammino di crescita sono: la capacità di intessere relazioni con tutti, l’amore per la verità, lo spirito di iniziativa, l’assunzione responsabile dei propri impegni, la rielaborazione delle esperienze vissute, il superamento delle ansie da prestazione e degli atteggiamenti compiacenti, la consegna di sé nella trasparenza e l’orientamento ad una scelta di vita. L’esito di tale percorso può essere la decisione di iniziare il cammino nell’anno propedeutico oppure di continuare un discernimento vocazionale”.

Il terzo capitolo presenta le quattro tappe dell’itinerario formativo proposto dalla Ratio fundamentalis: propedeutica (un anno), discepolare (due anni), configuratrice (quattro anni) e di sintesi vocazionale (un anno), ponendo attenzione anche alla dimensione ‘affettivo-sessuale’ del candidato: “La dimensione affettivo-sessuale è un’area di primaria importanza per l’efficacia del ministero presbiterale vissuto in una prospettiva di amore-carità, dono di sé; nella libertà intima e relazionale che nel celibato (secondo la tradizione latina) trova un contesto di particolare fecondità e apertura nelle relazioni con persone, donne e uomini, giovani e anziani, laici, famiglie e consacrate/i, che animano le nostre comunità. L’attuale contesto socio-culturale, insieme a contraddizioni e ambiguità, offre particolari opportunità di crescita più autentica in questo ambito. La libertà con cui si affrontano oggi questi temi è buona premessa perché anche nel contesto della formazione dei candidati al presbiterato ci possano essere frutti di sempre maggiore maturità umana, affettiva, psichica e spirituale”.

In questo discernimento è importante la relazione: “Durante il discernimento e il percorso formativo, i formatori devono favorire nei candidati uno stile relazionale aperto alla discussione e fondato sulla sincerità. Occorre infatti stimolare il candidato ad una profonda autovalutazione attraverso il confronto con l’altro in un percorso di maturazione finalizzato al raggiungimento di un equilibrio generale che permetta al candidato di prendere sempre più consapevolezza e coscienza di sé, della propria personalità e di tutte le parti che contribuiscono a definirla, compresa quella sessuale e il proprio orientamento, in modo da integrarle e gestirle con sufficiente libertà e serenità, coerentemente con la natura e gli obiettivi propri della vocazione presbiterale. E’ essa a ispirare vita e stile relazionale del sacerdote celibe e casto”.

In tale capitolo un paragrafo è ‘dedicato’ alla formazione della personalità del candidato, ovvero sulla castità: “Nel processo formativo, quando si fa riferimento a tendenze omosessuali, è anche opportuno non ridurre il discernimento solo a tale aspetto, ma, così come per ogni candidato, coglierne il significato nel quadro globale della personalità del giovane, affinché, conoscendosi e integrando gli obiettivi propri della vocazione umana e presbiterale, giunga a un’armonia generale… La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita. Solo quando un amore è casto, è veramente amore”.

E’ un superamento per migliorare la propria consapevolezza: “Questo non significa solo controllare i propri impulsi sessuali, ma crescere in una qualità di relazioni evangeliche che superi le forme della possessività, che non si lasci sequestrare dalla competizione e dal confronto con gli altri e sappia custodire con rispetto i confini dell’intimità propria e altrui. Essere consapevole di ciò è fondamentale e indispensabile per realizzare l’impegno o la vocazione presbiterale, ma chi vive la passione per il Regno nel celibato dovrebbe diventare anche capace di motivare, nella rinuncia per esso, le frustrazioni, compresa la mancata gratificazione affettiva e sessuale”.

Per questo i vescovi chiedono più attenzione verso chi chiede di essere ammesso in seminario: “Massima attenzione dovrà essere prestata al tema della tutela dei minori e degli adulti vulnerabili, vigilando con cura che coloro che chiedono l’ammissione al Seminario maggiore non siano incorsi in alcun modo in delitti o situazioni problematiche in questo ambito.”

Nel quarto capitolo si parla della formazione nel Seminario Maggiore che viene presentata come unica, integrale, comunitaria e missionaria: non si esaurisce nell’apprendimento di nuovi contenuti, né si limita ai comportamenti morali o disciplinari, ma deve riguardare il campo delle motivazioni e delle convinzioni personali, è formazione della coscienza: “I candidati al presbiterato siano perciò provocati ad avere cuore e mentalità missionari, ad allargare gli orizzonti del loro impegno apostolico e a essere disponibili alla missione.

C’è una missionarietà del cuore che si manifesta nella piena disponibilità a ‘faticare’ per il Vangelo ed a privilegiare l’incontro con chi non crede o non pratica; c’è una missionarietà all’interno della Diocesi e delle parrocchie, che richiede disponibilità all’itineranza e alla mobilità interparrocchiale; c’è una missionarietà ad gentes, che si esprime nel servizio come preti fidei donum e nella cooperazione fra le Chiese”.

Nel quinto capitolo  è recepita la richiesta emersa nel Cammino sinodale di allargare la condivisione dell’opera formativa dei seminaristi: “Coloro che entrano in seminario sono chiamati innanzitutto a confrontarsi per avere conferma che il Signore li chiami a vivere la grazia battesimale nella forma specifica del ministero presbiterale. Per verificare la chiamata del Signore bisogna che essi si mettano ai piedi del Maestro, per essere con lui, frequentarlo, conoscerlo e diventare continuamente discepoli missionari nella vita con gli altri, mettendo alla prova sé stessi. , coinvolgendo la comunità ecclesiale e invitando a pensare creativamente le forme di collaborazione possibili con particolare riguardo alla figura femminile”.

Prima domenica del Tempo Ordinario: il battesimo di Gesù al fiume Giordano

Il battesimo di Gesù al Giordano costituisce la terza Epifania di Gesù, prima di dare inizio alla vita pubblica. La prima si ebbe  alla nascita quando Gesù si manifestò ai Pastori, che furono avvisati dagli Angeli: ‘Non temete, pastori, è per voi un lieto annuncio. è nato per voi il salvatore’. La seconda si ebbe con il sorgere di una stella cometa nel mondo pagano: i Magi, uomini di cultura, furono guidati da questa stella sino a Gerusalemme; da qui furono inviati a Betlem, ricomparve la stella, trovarono il Bambino e adorarono il Figlio di Dio facendo i loro doni: oro, incenso e mirra.

La terza Epifania è stata al fiume Giordano dove Giovanni Battista battezzava il popolo esortando alla penitenza. Il battesimo è stato il primo atto pubblico compiuto da Gesù: scende nel fiume, confuso tra i peccatori pentiti, e chiede di essere battezzato. Davanti a Giovanni, che si mostra titubante, Gesù lo sprona a compiere il rito e, mentre esce dall’acqua, lo Spirito scende e si posa su di Lui mentre la voce del Padre lo addita: ‘Tu sei il Figlio mio, l’amato: in Te ho posto il mio compiacimento’.

Questa investitura messianica anticipa il Battesimo istituito da Gesù e quindi il Battesimo che noi abbiamo ricevuto. Il Figlio di Dio incarnato si è immesso nella nostra realtà di peccatori per renderci partecipi della sua stessa vita; si è incarnato ed ora inizia la sua missione con il battesimo amministrato da Giovanni. San Paolo scriverà ai Romani: ‘Noi siamo stati battezzati nella morte di Cristo per avere la stessa vita di risorti’.

Giovanni addita Gesù come colui che è venuto a battezzare l’umanità nello Spirito Santo; è venuto a portare la vita eterna che risuscita l’uomo, lo guarisce anima e corpo restituendolo  al progetto originario per il quale era stato creato d Dio. Il Battesimo di Gesù è diverso dal battesimo di Giovanni; lo afferma lo stesso Giovanni: ‘Io battezzo con acqua ma, chi viene dopo di me battezzerà con lo spirito Santo, con il fuoco’.

Il battesimo di Giovanni era solo un battesimo di penitenza, in ordine alla conversione e al perdono dei peccati; il Battesimo istituito da Gesù ci innesta a Cristo, libera l’uomo dal peccato, lo riscatta dalla schiavitù di Satana e segna la sua rinascita nello Spirito santo. E’ necessario prendere coscienza del nostro Battesimo che ci incorpora a Cristo Gesù e ci rende partecipe della sua consacrazione nello Spirito Santo e nella missione sacerdotale, profetica e regale. ‘Come il padre ha mandato me, dirà Gesù agli Apostoli prima di salire al cielo, io mando voi’: oggi è necessario che il cristiano scopra la sua dignità e vocazione: uomo, diventa quello che sei!

Grazie allo Spirito santo abbiamo un dono e un impegno vocazionale: il dono in forza del quale ci siamo innestati a Cristo con il Battesimo e siamo divenuti figli di Dio (Gesù è figlio naturale, noi figli per adozione perchè fratelli del Cristo. Da questo dono scaturisce un impegno: figli di Dio, fratelli tra di noi; come tale siamo chiamati ad essere ‘lievito’ di una umanità nuova dove Dio è il ‘Padre nostro che sei nei cieli’.

Il Battesimo è un ‘pacco-dono’: se vogliamo gustare il dono, dobbiamo aprire il pacco; scoprire la ricchezza del battesimo che ci costituisce fratelli, figli di Dio a prescindere anche dal colore della pelle, dalle condizioni economico-sociali, dai talenti e carismi ricevuti. Questi doni diventano operanti nel momento in cui c’è vera fede in noi e viviamo nell’amore verso Dio e i fratelli. Allora, amico che leggi o ascolti, sii te stesso, vivi nella tua dignità di figlio di Dio  e attua il cammino dell’amore verso Dio e i fratelli in nome di Dio. Allora sarai veramente felice.

Beato don Giovanni Merlini il servitore dei miseri

Lo scorso 23 maggio la Sala Stampa della Santa Sede ha comunicato il riconoscimento di un miracolo attribuito a don Giovanni Merlini, che sarà il primo beato del Giubileo: “Il Sommo Pontefice Francesco, accogliendo e confermando i voti del Dicastero delle Cause dei Santi, ha dichiarato: consta il miracolo, compiuto da Dio per intercessione del Venerabile Servo di Dio Giovanni Merlini”. Quindi il venerabile don Giovanni Merlini sarà beatificato oggi nell’arcibasilica papale San Giovanni in Laterano dal card. Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi, suscitando gratitudine in don Emanuele Lupi, moderatore generale della Congregazione dei ‘Missionari del Preziosissimo Sangue’ ed in suor Nicla Spezzati, postulatrice della Causa:

“Tale notizia è per ognuno di noi fonte di grande gioia e di sentimenti di profonda gratitudine a Dio per il dono della santità offerto alla sua Chiesa nella persona del nostro amato don Giovanni Merlini, sacerdote e terzo Moderatore generale della Congregazione dei ‘Missionari del Preziosissimo Sangue’, nato a Spoleto (PG) il 28 agosto 1795 e morto a Roma il 12 gennaio 1873. Uomo di profondo discernimento e di sapienza, ha annunciato, come Missionario Apostolico, il Mistero della Redenzione ad intere popolazioni nello Stato Pontificio e nel Regno di Napoli, favorendo i miseri ed i reietti”.

Per approfondire questa beatificazione abbiamo contattato don Valerio Volpi, missionario del ‘Preziosissimo Sangue’ e direttore dell’ufficio di pastorale giovanile e vocazionale della congregazione: “Per il suo essere stato un uomo ‘tutto di Dio’ in ogni ambito della sua vita. Nella preghiera che lui stesso compone per la Congregazione scrive: ‘Signore, voglio essere tutto, tutto tuo e solo tuo’ e penso che ci sia davvero riuscito.

Se è vero che i frutti della santità si riconoscono nella vita non tanto della persona interessata, quanto in quella delle anime che gli sono accanto, un uomo che ha guidato spiritualmente per 42 anni Maria De Mattias (fondatrice della congregazione delle Suore Adoratrici del Sangue di Cristo e proclamata santa da papa Giovanni Paolo II, ndr.), facendone una santa non può che essere qualcuno che ha vissuto di cielo.

Un uomo insomma, che in tutta la sua vita non ha fatto che ricercare quello che Dio voleva da lui e dalle persone che aveva accanto. Non a caso era solito ripetere: ‘La volontà di Dio sola mi basta’. Santo perché un uomo divenuto volontà di Dio in tutto e nel concreto”.

Perché aderì alla Congregazione dei Missionari del Preziosissimo Sangue?

“Rimase affascinato dalla predicazione e dall’amabilità di san Gaspare del Bufalo che incontrò nel luglio del 1820, prendendo parte ad un corso di esercizi spirituali da lui stesso predicati nell’abbazia di san Felice di Giano, in Umbria, casa di fondazione dell’allora nascente Congregazione. Rimase colpito dal fuoco di passione e di zelo per il vangelo che quel santo uomo riusciva a trasmettere e da san Gaspare stesso si sentì rivestito di immane fiducia.

A seguito di quella settimana di esercizi il fondatore gli affidò direttamente la possibilità di predicare un altro corso di esercizi al suo posto, subito dopo lo portò con sé nella missione popolare di Monte Martano. Don Giovanni si sentì investito di gratuita fiducia da parte di quello che lui stesso considerava un santo. La vita della Congregazione fu da subito, per lui, la possibilità di mettere a frutto la migliore versione del suo sacerdozio, brillando forse oltre quello che lo stesso don Giovanni si sarebbe mai aspettato”.

Per quale motivo volle che la festa del Preziosissimo Sangue si estendesse a tutta la Chiesa?

“Nei moti rivoluzionari del 1848 il papa si era trovato invischiato in fraintendimenti di quello che lui stesso avrebbe voluto dire ai cristiani. Papa Pio IX sentiva di non doversi schierare da nessuna parte rispetto alle fazioni che erano venute a crearsi perché si considerava padre di tutti. Per riaffermare questo concetto di fraternità del genere umano, secondo don Giovanni Merlini, bisognava partire dal presupposto che la comunione è un dato di partenza per i cristiani e non un punto di arrivo. Mentre tutti cercavano soluzioni umane su come poter ‘costruire’ la comunione e la fraternità, secondo don Giovanni Merlini era necessario invertire l’ottica: la comunione non è un semplice obiettivo da raggiungere, ma un dato di fatto, che ci è già stato conquistato dal sacrificio di Cristo sulla croce, da cui bisogna ripartire.

Estendere la festa del Preziosissimo Sangue a tutta la Chiesa voleva dire gridare al mondo che la comunione e la fraternità non erano punti da costruire, quanto piuttosto premesse indispensabili e irrinunciabili da cui far partire ogni altro tentativo. Proprio perché le guerre e le rivoluzioni avevano sconfessato i tentativi umani di costruire comunione e fraternità, bisognava riaffermare che Cristo aveva già compiuto questa opera e che essa andava assunta come principio vitale di fondo per ogni altro pensiero o azione”.

Quale era la spiritualità di don Giovanni Merlini?

“Cento misure e un taglio, amava ripetere. Uomo di profonda preghiera era fermamente convinto che la comunione con Dio si dovesse tradurre in scelte concrete. Tanta preghiera precedeva ogni sua scelta, ma era fermamente convinto che le scelte sono il vero risultato di una vita di comunione con Dio. Ecco perché fu uomo di profonda contemplazione ma anche faro di discernimento spirituale. Una spiritualità che si nutriva della intima comunione con Dio per poter comprendere cosa Dio volesse da lui e dal cuore delle persone che a lui si rivolgevano. Un uomo ‘vuoto di sé stesso’ ma pieno di Dio. ‘Siamo canali, non fonti’, ripeteva a santa Maria De Mattias, frase in cui si vedono bene i due poli della sua vita spirituale: rimanere attaccati in intima unione alla sorgente che è Dio, e fare in modo che questo Dio si comunichi e arrivi alle anime assetate”.

In quale modo coniugò l’adorazione eucaristica con la carità?

“Nella casa di Santa Maria in Trivio era solito pregare nascosto nella cantoria che sovrasta l’altare, in modo che nessuno potesse vederlo mentre adorava il Santissimo Sacramento nel tabernacolo dell’altare maggiore. La prima carità don Giovanni l’ha esercitata da Moderatore Generale con i confratelli. Cercava di guardare tutti con gli occhi con cui si sentiva lui stesso guardato da Dio: Mi raccomando (scriveva a Maria De Mattias) usi carità con tutte, soprattutto con le anime più problematiche”.

In quale modo è stato ‘servitore dei miseri’?

“Un episodio in particolare ci aiuta a vedere il cuore di don Giovanni Merlini nei confronti dei bisognosi. Quando è stato superiore della casa di Sonnino, che era posta fuori dall’abitato, era solito attendere tutte le sere i contadini che si ritiravano stanchi dalla campagna. Don Giovanni si faceva trovare fuori dalla porta della casa di missione, con un orcio d’acqua e un mestolo: un sorso d’acqua e una parola del Vangelo per tutti quelli che passavano, perché potessero ristorarsi prima di riprendere il cammino per la salita che li avrebbe ricondotti in paese”.

Allora, come può aiutare a vivere il Giubileo don Giovanni Merlini?

“Penso che il primo e più grande insegnamento che ci viene da don Giovanni sia la necessità di imparare l’arte del discernimento. Il tema del Giubileo ci richiama alla speranza, una virtù teologale spesso confusa con l’idea del terno a lotto, di quelle frasi che suonano molto come ‘speriamo che Dio mi sia benevolo’, ‘speriamo che Dio voglia le stesse cose che mi porto nel cuore io’, ‘speriamo che vada bene’. Da don Giovanni impariamo che speranza è la capacità di saper vedere in ogni situazione quello che Dio vuole rivelarmi. E’ passare da ‘speriamo che Dio voglia’ ad ‘in quello che vivo, mi basta la tua Volontà, perché so che sarà il meglio per me’”.

(Tratto da Aci Stampa)

Don Giovanni Merlini è il primo Beato del Giubileo!

All’inizio dell’Anno giubilare la Congregazione dei Missionari del Preziosissimo Sangue, fondata da san Gaspare del Bufalo il 15 agosto 1815 presso l’abbazia di San Felice a Giano dell’Umbria (PG) e quella delle Suore Adoratrici del Sangue di Cristo, fondate ad Acuto (FR) da Santa Maria De Mattias il 4 marzo 1834, gioiscono in occasione della beatificazione di don Giovanni Merlini, Missionario del Preziosissimo Sangue e III Moderatore Generale dell’Istituto, nonché direttore spirituale di Santa Maria De Mattias, come afferma don Emanuele Lupi, Moderatore Generale della Congregazione:

“Per noi Missionari del Preziosissimo Sangue sarà veramente motivo di gioia che tale evento cada nel giorno del 152º dies Natalis del nuovo Beato. Don Giovanni, infatti, è tornato alla casa del Padre il 12 gennaio del 1873, a Roma. La nostra Congregazione ringrazia papa Francesco per aver stabilito questa data per la Beatificazione che, tra l’altro, si colloca, secondo quanto la Provvidenza ha voluto, all’inizio dell’Anno giubilare. Papa Francesco ci parla spesso delle periferie, tanto esistenziali come quelle fisiche.

Don Giovanni Merlini le ha conosciute entrambe e le ha frequentate con molta umiltà e spirito di servizio. Nella direzione spirituale, nel confessionale, come anche nelle missioni popolari, specialmente nelle zone infestate dal brigantaggio, dove molto sangue veniva sparso in modo violento. Sono sicuro che in quelle sue predicazioni, nel mezzo del peccato e della violenza, avrà ripetuto spesso l’espressione tanto cara a noi Missionari del Preziosissimo Sangue: ‘Tu vali il Sangue di Cristo, è Lui che ti ha fatto suo, donandoti il suo Sangue’. Anche questo era il nostro nuovo Beato”.

Tre saranno gli appuntamenti che aiuteranno i fedeli, provenienti da tutto il mondo, a vivere al meglio questo evento di Grazia! Questa sera, sabato 11 gennaio, alle ore 21:00, si terrà la Veglia di preghiera nella Basilica dei Santi XII Apostoli a Roma. La veglia sarà guidata da mons. Vincenzo Viva, Vescovo di Albano Laziale, e offrirà un momento di raccoglimento e preparazione spirituale. Ad accompagnare il momento di preghiera saranno il Coro ‘DecimaQuinta’, il Coro ‘San Gaspare’ ed il Coro ‘Le mille e una nota’.

Domenica 12 gennaio 2025, alle ore 11:00, avrà luogo la Celebrazione della Beatificazione presso l’Arcibasilica Papale di San Giovanni in Laterano, a Roma. Nella Nota N. 644.680 comunicata dalla Segreteria di Stato del Vaticano alla Postulazione si afferma: ‘Rappresentante del Sommo Pontefice sarà il card. Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi’. Saranno presenti anche il vicario generale per la diocesi di Roma, il card. Baldassare Reina ed il penitenziere maggiore, il card. Angelo De Donatis. Grande sarà la partecipazione di vescovi, sacerdoti e diaconi e l’animazione liturgica sarà curata dal Coro della Diocesi di Roma diretto da Mons. Marco Frisina.

Infine, lunedì 13 gennaio 2025 alle ore 9:30, presso la Parrocchia San Gaspare del Bufalo a Roma, si terrà la messa di ringraziamento che sarà presieduta da mons. Renato Boccardo, arcivescovo di Spoleto – Norcia. Ad animare la liturgia saranno i Cori ‘DecimaQuinta’ e ‘San Gaspare’. Tutti gli eventi verranno trasmessi in diretta streaming sulla San Gaspare TV (sangaspare.tv), sul canale YouTube ‘Unione Sanguis Christi’ e sulla pagina Facebook ‘Primavera Missionaria’. A curare la diretta del 12 gennaio sarà Padre Pio TV, fruibile sul canale 145 del digitale terrestre, 445 di TivùSat e 852 di Sky.

Don Giovanni Merlini nasce a Spoleto (PG) il 28 agosto del 1795 da Luigi Merlini e Antonia Claudi Arcangeli. Dopo essere stato ordinato sacerdote per la diocesi di Spoleto, il 19 dicembre 1818, in occasione di un corso di esercizi spirituali presso l’Abbazia di San Felice, a Giano dell’Umbria (PG), conobbe nel 1820 San Gaspare del Bufalo, fondatore della Congregazione dei Missionari del Preziosissimo Sangue. L’incontro tra questi due giganti della fede cambierà le vite di entrambi. Gaspare diverrà per Giovanni padre e modello di ispirazione, tanto da convincerlo ad entrare nella Congregazione, il 15 agosto 1820, e a divenirne uno dei fiori all’occhiello.

Come nel carisma della Congregazione, don Giovanni non sarà solamente un intrepido annunciatore del Vangelo per mezzo delle missioni popolari, ma anche e soprattutto una eccellente guida spirituale. Non si può non ricordare la capacità straordinaria che ebbe di intenerire i cuori dei briganti nel basso Lazio, che a lui si rivolsero per chiedere grazia presso il papa, nel lontano 1824. Tra i frutti più belli della sua sapiente guida risplende nella chiesa ‘Santa Maria De Mattias’ che, nel 1834, con il suo paterno aiuto, fonderà le Adoratrici del Sangue di Cristo.

Don Giovanni è stato un uomo dalle molteplici capacità e ha saputo intessere la sua vita a riflesso di quella di Cristo, incastonato, come una gemma preziosa, tra due grandi santi fondatori. Ma la sua peculiarità e quell’unicità che lo fecero brillare vennero fuori soprattutto dal 1847, quando succedette a San Gaspare del Bufalo come III Moderatore Generale della sua Congregazione.

Don Giovanni Merlini diede spazio, da quegli anni in poi, al genio che il Signore gli aveva donato per il bene del Regno di Dio. Seppe sognare in grande per entrambe le Congregazioni religiose, fino a spingersi ad aperture all’estero. Continuò ad essere ricercata ed illuminata guida di anime, tanto da divenire consigliere del Beato Pio IX, dal quale ottenne l’estensione della festa del Preziosissimo Sangue a tutta la Chiesa, con la bolla ‘Redempti sumus’ del 10 agosto 1849.

Anni di lavoro e consiglio, di preghiera innamorata ma anche di spiccate qualità artistiche, gli guadagnarono il titolo di “santo dei crociferi”, dal nome della piazza in cui risiedeva allora la curia generalizia dei Missionari del Preziosissimo Sangue. Ed è proprio da quella stessa casa, accanto alla fontana di Trevi in Roma, che don Giovanni volò al cielo il 12 gennaio del 1873, a seguito di un brutto incidente provocatogli da un anticlericale in carrozza. Il 10 maggio 1973 sono riconosciute le virtù eroiche ed il 23 maggio 2024 papa Francesco ha autorizzato il Dicastero delle Cause dei Santi a promulgare il Decreto riguardante il miracolo di guarigione di un beneventano, da un ematoma retroperitoneale, attribuito all’intercessione del Venerabile Servo di Dio Giovanni Merlini.

Ernesto Olivero racconta 60 anni di SER.MI.G.

Ernesto Olivero nel 1964 ha fondato a Torino il Sermig, Servizio Missionario Giovani, insieme alla moglie Maria e ad un gruppo di giovani decisi a sconfiggere la fame con opere di giustizia, a promuovere sviluppo, a vivere la solidarietà verso i più poveri, che ha sede nell’Arsenale della pace, che era una fabbrica di armi. Dal 1983 il lavoro gratuito di migliaia di persone lo ha trasformato in Arsenale della Pace. E’ un monastero metropolitano, luogo di fraternità e di ricerca. Una casa aperta al mondo e all’accoglienza delle persone in difficoltà. E’ una casa per i giovani che cercano il senso per la propria vita, un laboratorio di idee, un luogo di incontro, cultura dialogo e formazione. L’Arsenale della Pace è dedicato a p. Michele Pellegrino.

L’arsenale della pace è oggi una porta sul mondo aperta 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. Profezia di pace, monastero metropolitano, e’ un punto di incontro tra culture, religioni, schieramenti diversi per conoscersi, dialogare, camminare insieme. E’ un riferimento per i giovani che hanno voglia di dare un senso alla propria vita.

E’ una casa sempre aperta per chi cerca un soccorso: madri sole, carcerati, stranieri, persone che hanno bisogno di cure, di casa, di lavoro. E’ un luogo di preghiera dove chiunque può sostare, incontrare il silenzio e Dio. E’ un sogno che permette a chi lo desidera di restituire qualcosa di sè: tempo, professionalità, beni spirituali e materiali. Il risultato? Milioni di persone aiutano milioni di persone.

Il Sermig esce continuamente dal suo Arsenale per andare incontro ai più poveri, in Rwanda come nel Darfur, in Romania e in Georgia, ma anche in Italia. Per l’impegno senza sosta che dall’Arsenale della Pace si estende al mondo dei sofferenti; Nel 1991 Giovanni Paolo II lo invita ad essere “amico fedele di tutti i bambini abbandonati nel mondo” e lo conferma nel suo impegno già costante a dare vita ai bambini; nel 1992 Ernesto Olivero riceve il titolo di ‘Grand’Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana’, conferito dal Presidente della Repubblica. Nel 1996 il Presidente della Repubblica lo nomina anche ‘Cavaliere di Gran Croce’. Nel 1999 ha ricevuto dall’Università di Torino la laurea honoris causa in Sociologia.

L’arsenale nasce nel 1580 come fabbrica di polveri da sparo per poi evolversi nel corso dei secoli. Dopo l’incendio del 26 aprile 1852, per volere del re Vittorio Emanuele II la struttura viene trasformata in ‘Arsenale delle costruzioni di Artiglieria di Torino’, la prima fabbrica di armamenti della storia italiana: un’area di 45.000 metri quadrati, fino a 5.000 operai coinvolti. Da qui, uscirono gran parte delle armi usate dall’esercito sabaudo e italiano nelle guerre del risorgimento e nelle guerre mondiali. Dismesso nel secondo dopo guerra, il 2 agosto del 1983 il rudere dell’arsenale è affidato ai giovani del Sermig che decidono di farne una casa di pace. La riconversione di quel luogo attira e coinvolge centinaia di migliaia di giovani e adulti da tutta Italia e dall’estero. Lavoro gratuito, volontariato e disponibilità. Nasce così l’Arsenale della Pace, una casa sempre aperta, il cuore di una realtà di solidarietà presente in ogni angolo del mondo:

“Dall’inizio della nostra avventura questo termine (mese missionario, ndr.) fa parte del Ser.Mi.G. ed, ancora prima, insieme alla Lega Missionaria Studenti ed altri amici, organizzavamo raccolte di denaro per questi amici, che partivano per Paesi lontani a portare il messaggio di Gesù. Andavamo in luoghi frequentati, in particolare ai caselli delle autostrade. Il nostro gruppo si è poi definito come SERvizio MIssionario Giovanile, appunto SER.MI.G. Il MI è il baricentro che prende sottobraccio; il SER E la G, da ognuna sgorga come una cascata di responsabilità interconnesse, rivolte a costruire un futuro di speranza, un solo mondo di pace, una vita piena di dignità per tutti. E’ come fossero tre lampadine collegate che illuminano la via da seguire…

In questi 60 anni il SER.MI.G. ha declinato il MI in varie modalità: da inviare direttamente in missione suoi componenti, a tenere un contatto diretto e continuo con i missionari per reciprocamente aiutarsi a crescere spiritualmente ed umanamente, a farli diventare terminali delle migliaia di progetti di sviluppo in tante parti del mondo, ad allargare la missione ad iniziative di pace, che ci hanno visto presenti in tante zone di conflitto e di guerra”.   

Partendo dal questo suo editoriale del mese di ottobre apparso su ‘Nuovo Progetto’ ci facciamo raccontare dal fondatore, Ernesto Olivero, cosa è il SER.MI.G. dopo 60 anni: “E’ come un figlio che è cresciuto e ha preso la propria strada. Se penso agli inizi ricordo che eravamo un piccolo gruppo di ragazzi, molto giovani, inesperti, ma con un grande sogno nel cuore: quello di sconfiggere la fame nel mondo attraverso opere di giustizia. Il verbo sconfiggere sembra una iperbole, ma non è così. Perché un ideale è come l’amore: o tutto o niente, o ci credi davvero o non serve. Noi abbiamo provato a vivere questo metodo e oggi quella strada si è allargata. Restano alcuni punti fermi: Dio, l’imprevisto che bussa alla porta e la gratitudine. Dico sempre che se la gente smettesse di aiutarci gli Arsenali del Sermig chiuderebbero in tre giorni. Credo che non avverrà mai, a patto però che non ci montiamo la testa, che facciamo della trasparenza la regola, che continuiamo a fidarci”.

Per quale motivo nacque?

“Sconfiggere la fame significava impegnarsi fino in fondo contro le ingiustizie, quelle vicine e quelle lontane. Iniziammo con i primi campi di lavoro, poi le raccolte fondi per i progetti dei missionari in ogni angolo del mondo, infine sentimmo che dovevamo metterci in gioco anche noi a livello personale. Da gruppo siamo diventati una Fraternità nel mondo e nella Chiesa: la Fraternità della Speranza che oggi accoglie persone di ogni età e stato di vita che condividono la stessa responsabilità. Sempre dalla parte dei poveri”.

Perché il Sermig ha abbracciato le ‘ragioni’ della pace?

“La pace è quanto di più prezioso possiamo desiderare per noi stessi e per gli altri. Pace significa che ogni uomo e donna hanno il diritto di mangiare, di curarsi, di avere una casa e un lavoro. Significa credere e impegnarsi perché le armi non siano più costruite e siano trasformate in strumenti di lavoro. Lo diceva il profeta Isaia, ce lo ha ricordato uno dei nostri maestri, Giorgio La Pira. Oggi sembra un’utopia parlare di queste cose, ma non è così. Viviamo in un’epoca complicatissima, di odio, di riarmo, di nuove divisioni. La realtà non è lineare, ma chi crede nella pace ha il compito di ribadire con ancora più fermezza la direzione, senza fuggire dalle sfide del momento. E’ come se nella tragedia dell’oggi, fossimo chiamati già ad immaginare il mondo che verrà”.

Quanto è stato fondamentale il card. Pellegrino nel cammino del Sermig?

“E’ stata una figura decisiva perché ci ha riconosciuto quando ancora non avevamo consapevolezza di quello che avremmo potuto fare. Ad un certo punto, a causa di incomprensioni e invidie, fummo cacciati dall’ufficio missionario della nostra diocesi. Il cardinale non sapeva nulla, ci ascoltò, comprese l’equivoco che si era creato e ci fece un dono inimmaginabile: ci permise di usare la chiesa dell’arcivescovado come sede. Mi commuove pensare ad un uomo come lui che diede fiducia ai sogni puliti di un gruppo di giovani”.

Per quale motivo avete trasformato un arsenale di guerra in uno spazio accogliente?

“Per noi i ruderi del vecchio arsenale militare di Torino sono stati l’occasione per realizzare nel nostro piccolo la profezia di Isaia. Sapevamo di entrare in una sproporzione: per risistemare tutto sarebbero serviti decine di miliardi di vecchie lire. Noi non li avevamo, ma come dico sempre, avevamo un sogno. Lo abbiamo realizzato lentamente, ma decisamente grazie agli atti di restituzione di milioni di persone che hanno donato tempo, risorse, professionalità. Piccole o grandi azioni che hanno trasformato un luogo di morte in un luogo di vita. Il messaggio dell’Arsenale oggi è dirompente perché è come se ci ricordasse che l’impossibile in Dio non esiste. Per noi è stato così”.

Come il Sermig ha ‘trasformato’ Porta Palazzo, caratterizzato da un tasso di presenza immigrata storicamente tra i più alti della città?

“Non spetta a me dirlo. Ma credo che noi e il nostro quartiere ci siamo aiutati reciprocamente: abbiamo percorso un tratto di strada e continueremo a farlo. La speranza è radicarsi nel bene, non avere paura, camminare gli uni a fianco degli altri. Il resto avviene”.

Per quale motivo l’esperienza dell’Arsenale è stata ‘replicata’ in alcune parti del mondo?

“Gli Arsenali nati in altri Paesi del mondo non sono nati a tavolino, ma da alcuni incontri. Noi non abbiamo mai avuto la smania di allargarci. Al Sermig diciamo sempre che nessuno parte e nessuno arriva. E’ come vivere in un condominio con piani diversi: uno in Brasile, uno a Torino, un in Giordania, un altro ancora a Pecetto Torinese, altri dove Dio vorrà. Viviamo con lo stesso stile, con la stessa speranza. E’ questo che ci deve stare a cuore”.

Sicuramente al SER.MI.G. ‘la bontà è disarmante’!

(Foto: Sermig)

50 anni di sacerdozio di don Alberico Capitani: missionario per grazia di Dio

“La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia. In questa Esortazione desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni”: l’inizio dell’Esortazione apostolica ‘Evangelii Gaudium’ di papa Francesco serve per iniziare un dialogo con il missionario ‘fidei donum’ della diocesi di Macerata a Puerto Madryn, nella Patagonia argentina, don Alberico Capitani, che nel mese di ottobre ha festeggiato 50 anni di sacerdozio.

Una tua preghiera per questo anniversario recita: ‘Una vita intera condivisa e vissuta per il Signore ed i fratelli. Una vita iniziata, nell’umiltà e nella povertà, e dalla tua Grazia trasformata. Grazie Signore: il tuo Spirito nel battesimo mi ha reso figlio di Dio, fratello di una grande famiglia e per Lui la vita è diventata servizio. Mi hai portato dentro nel deserto, nella povertà e nella solitudine mi hai fatto conoscere il tuo abbraccio. La mia vita è diventata contemplazione, dono ai poveri ed agli umili. Grazie Signore per la tua fedeltà… Grazie, Signore, per le comunità che furono e sono parte del mio cammino’. Cosa vuol dire festeggiare 50 anni di sacerdozio?

“Celebrare 50 anni di sacerdozio vuol dire tornare a rivedere la storia. Come sempre, ci sono alcuni numeri, a cui diamo più importanza: per la vita di una famiglia o di un sacerdote ci sono i 25 ed i 50 anni. Ritornare a celebrare questi anniversari significa leggere la storia con un atteggiamento di ringraziamento per riuscire a vedere tutta la bellezza che il Signore è riuscito a compiere attraverso le nostre persone.

Per questo dobbiamo ringraziare Dio e chiederGli la forza per continuare il cammino, in quanto siamo strumenti nelle Sue mani e se siamo arrivati a questi anniversari è grazie a Lui, che ci ha tenuto sempre la mano sopra la testa. Tale anniversario significa anche celebrare la fedeltà di Dio a quelle promesse che ci aveva fatto all’inizio e che nella vita si sono realizzate nel nostro cammino”.

Per quale motivo sei sacerdote?

“Il motivo non lo conosco neppure io. Da piccolo avevo il sogno di essere sacerdote, pur non avendo nessun parente sacerdote e neppure nella mia storia familiare. Però c’era questo desiderio, che con il trascorrere degli anni ho scoperto come vocazione. Dietro a tale desiderio c’era la chiamata di Dio di offrire la mia vita a Suo servizio per il bene della comunità?

Quale è stato il motivo per cui sei in missione?

“Il motivo si è sviluppato lungo la mia vita: quando ero in seminario la lettura di alcune riviste missionarie ha suscitato il desiderio di partire per l’Africa per fare qualcosa. Poi il contatto con alcuni amici missionari e tanta preghiera nelle ore di adorazione che facevo: in tali circostanze il Signore ha trasformato il mio cuore facendo nascere il desiderio di offrire la mia vita come pane spezzato per tanti altri fratelli. Da queste circostanze è nata la vocazione missionaria, iniziando a chiedere al vescovo la possibilità di poter andare in missione”.

E la scelta di andare in Argentina?

“Io non conoscevo affatto l’Argentina. Il mio desiderio era quello di andare in Africa; però, la nostra diocesi di Macerata già aveva una missione in Argentina, iniziata nel 1968, per cui quando chiesi al vescovo la possibilità di essere missionario la sua risposta fu positiva, però per continuare la missione già iniziata dalla diocesi”.

Quanti sono stati i sacerdoti ‘fidei donum’ della diocesi di Macerata in Argentina?

“Innanzitutto ‘fidei donum’ significa dono della fede. Molti sacerdoti della diocesi di Macerata sono stati missionari ‘fidei donum’ in Argentina. Ricordo don Fernando Mariani, che fu il primo sacerdote ‘fidei donum’ della nostra diocesi; dopo don Nazzareno Piccioni, poi tanti altri: don Quinto Lombi, don Silvano Attili, don Alberto Forconi, don Frediano Salvucci e don Felice Prosperi e poi nel 1989 sono partito anche io da Urbisaglia. Forse dalla conoscenza dei sacerdoti che già erano in missione e poi dall’esperienza dell’adorazione eucaristica è partito questo desiderio di condividere la mia vita con i più bisognosi della fede”.

Come si sta preparando la Chiesa argentina al Giubileo?

“Per il momento la Chiesa argentina non sta facendo molte cose in preparazione all’Anno Santo, perché, quando la lontananza è tanta, alcune iniziative che si sviluppano a Roma non ‘arrivano’. Per il momento non ci sono iniziative da parte della Chiesa locale; in compenso esiste l’entusiasmo dei giovani, che hanno iniziato alcune attività per poter partecipare alla Giornata Mondiale della Gioventù a Roma”.

In quale modo la Chiesa argentina racconta che la speranza non delude?

“La Chiesa argentina, come tutta quella dell’America  Latina, vive la speranza, perché il popolo ha sofferto a causa dei regimi dittatoriali, che hanno causato povertà e continua a soffrire a causa dell’inflazione, che conduce a non sperare: vedere i risparmi che perdono giornalmente il loro ‘peso’, quindi è inutile risparmiare ed avere un pensiero per il presente prossimo. Quindi a livello di fede hanno bisogno di speranza di trovare un po’ più di amore, di trovare più dialogo e di partecipazione alla vita economica e sociale; speranza che i risparmi possano un giorno valere qualcosa per consentire un po’ il cambiamento di stile della vita e permettere di fare un piccolo passo sociale per migliorare la vita dei figli”.

A cento anni dal Primum Concilium Sinense quali prospettive per la Chiesa cattolica in Cina?

“Il Concilio di Shanghai è il primo Sinodo del genere che si tiene in quelle che allora erano chiamate terre o Paesi di missione. Un Paese dove nonostante il grande impegno delle congregazioni missionarie i battezzati sono ancora una minoranza, e non esiste ancora una Chiesa locale strutturata. In quegli anni arrivano proprio dal Papato e dalla Santa sede le spinte a promuovere Concili generali, nazionali o regionali, nelle terre di missione. Per cogliere la rilevanza del Concilium Sinense occorre tener conto proprio del passaggio chiave in atto in quei decenni riguardo all’opera missionaria della Chiesa”: così è iniziato l’intervento del direttore dell’Agenzia Fides, dott.  Gianni Valente, al convegno di studi internazionali, ‘Appunti di viaggio: Marco Polo ed i Francescani in Oriente’, svoltosi a Tolentino, sul ‘Primum Concilium Sinense’, svoltosi a Shanghai nel 1924.

Inizialmente il relatore ha messo in evidenza la situazione storica in cui la fede cattolica era vista dai cinesi come un’invasione degli Stati europei: “In Cina, dopo il tramonto dell’avventura iniziata dal Gesuita Matteo Ricci di Macerata nel Seicento, a partire dal XVIII Secolo le attività missionarie si sono fatalmente intrecciate con gli interessi e le strategie delle potenze occidentali in territorio cinese. I missionari a volte arrivano in Cina con le navi da guerra: i cosiddetti Trattati ineguali con cui le potenze occidentali avevano imposto alla Cina la loro supremazia coloniale includevano anche privilegi protezioni e garanzie per l’attività missionaria.

Era successo che chiese e centri missionari fossero costruiti coi soldi estorti al Celeste Impero come bottini di guerra. In quella fase storica si era creato un intreccio perverso tra l’opera apostolica e le strategie imperialistiche occidentali, e i primi a pagarne le conseguenze erano i missionari stessi. L’endemico risentimento popolare contro gli stranieri si rivolgeva facilmente contro le persone inermi dei missionari o dei cinesi convertiti al cattolicesimo. Si pensi ai massacri xenofobi compiuti all’inizio del XX Secolo dalla setta dei Boxer, dove in pochi mesi morirono 30.000 missionari cristiani coi loro fedeli”.

Al termine dell’incontro gli abbiamo chiesto di raccontarci l’importanza dei viaggi dei francescani in terra d’Oriente?

“In terra d’Oriente i viaggi dei francescani sono stati le prime esperienze di incontro del cristianesimo con le popolazioni della Cina e della Mongolia. Sono andati nelle terre d’Oriente con il desiderio di annunciare il Vangelo. Erano i primi tentativi del cristianesimo ‘europeo’ di uscire dai confini per raggiungere terre inesplorate in un momento in cui si iniziavano ad  attraversare questi enormi spazi. In precedenza c’erano state alcune esperienze, come quella dell’antica Chiesa di Oriente, che era arrivata in Persia ed in India. Esiste un filo conduttore che unisce questi approcci di incontri positivi tra cristianesimo e le grandi nazioni dell’Oriente. Per i francescani il viaggio diventa anche un’esperienza di incontro tra culture e popoli diversi”.

Ritornando alla storia contemporanea, quale era la ‘posizione’ della Santa Sede ad inizio dello scorso secolo?

“LA Santa Sede aveva da tempo avvertito quanto era pericoloso l’intreccio tra apostolato e colonialismo occidentale. A Roma hanno trovato ascolto gli allarmi lanciati da alcuni missionari lungimiranti come Vincent Lebbe e Antonio Cotta, che denunciavano gli effetti negativi del soffocante protettorato imposto dalle potenze occidentali all’opera della Chiesa.

A Roma vedevano bene che l’opera missionaria doveva assolutamente emanciparsi dal connubio con il colonialismo, se non voleva rimanere sepolta dal crollo delle politiche colonialiste che cominciavano a scricchiolare. E non era solo questione di opportunismo storico: cresceva la percezione che fare affidamento  su protezioni di potenze geopolitiche o militari non era la strada giusta, e tradiva le dinamiche gratuite con cui si diffonde il Vangelo.

Nel 1919, questa sollecitudine della Sede Apostolica è stata espressa come magistero pontificio. Papa Benedetto XV pubblicava la lettera apostolica ‘Maximum Illud’ sulle attività dei missionari nel mondo, in cui definiva come un ‘tremendo flagello’ lo ‘zelo indiscreto per lo sviluppo della potenza del proprio Paese’ che sembra animare molti missionari occidentali, ripetendo che i missionari «devono curare gli interessi di Cristo’, e non gli interessi del proprio Paese”.

Una storia che trovò una prima manifestazione nel 1924 con il Primum Concilium Sinensem: quali furono gli sviluppi?

“Dopo il periodo del colonialismo europeo, in cui i fu un grande impegno missionario delle congregazioni cattoliche in Cina, che a volte in maniera negativa si era intrecciato con le dinamiche del colonialismo, iniziò una nuova percezione da parte della Santa Sede e dei missionari più avveduti, accorgendosi che la strada dell’impegno missionario in commistione con il colonialismo è sbagliata, per cui il cristianesimo non diventa mai ‘cinese’; è sempre qualcosa di esterno, che rischia di essere identificato con l’imperialismo occidentale. Quindi da parte della Chiesa è percepita l’urgenza di mettere in atto processi che favoriscano il fiorire di una Chiesa autoctona cinese.

Il Concilium Sinense è voluto dalla Santa Sede ed è affidato al card. Celso Costantini con la prospettiva di porre le condizioni per far fiorire la nascita di una Chiesa cattolica cinese, in modo da liberare la presenza dei cristiani dal sospetto di essere un correlato religioso degli Stati europei con un intento di espansione neocoloniale.

A mio giudizio, quel cammino che è partito dal concilio di Shangai, attraverso vie impreviste e persecuzioni, è in piena continuità con la presenza e la realtà della Chiesa cattolica in Cina attualmente. Essa ha attraversato momenti difficili, ma ora, pur essendo una piccola realtà rispetto alla moltitudine del popolo cinese, è una Chiesa totalmente immersa in quella realtà. Nello stesso tempo è una Chiesa in piena comunione con il vescovo di Roma, riuscendo a vivere tutta l’ampiezza della vita cristiana dentro l’attuale situazione cinese.

Secondo me, ciò è un elemento positivo, perché in una struttura politica come quella della Repubblica popolare cinese c’è una realtà, che sottostando alle regole del vivere civile e politico di quello Stato, riesce a vivere l’essenzialità della presenza cattolica in quel contesto. Quindi testimonia l’errore di prospettiva, che coincide con lo schema ideologico prevalente. A partire dal Concilio di Shangai è avvenuto un cammino, pur faticoso e lento, che ha portato ad una Chiesa, che è pienamente cattolica e pienamente cinese”.

Quindi i rinnovati accordi sino-vaticani vanno in questa direzione?

“Gli accordi sino vaticani non sono certo una risoluzione a tutti i problemi in maniera immediata, ma indicano una prospettiva di lavoro con una progressione di risoluzione dei problemi che hanno accompagnato la cattolicità cinese per decenni e si situano in piena continuità con quell’intuizione profetica che è iniziata con il Concilio del 1924.

Certamente sono accordi che riguardano la Santa Sede ed il governo cinese, ma la loro sorgente profonda attinge a questa percezione reale della vita della cattolicità in Cina. Il criterio con cui si è mossa la Santa Sede, nella totale continuità degli ultimi pontefici, in quanto la prospettiva di un accordo della nomina dei vescovi era già presente nel papato di san Giovanni Paolo II ed anche in papa Benedetto XVI, realizzata con papa Francesco. La linea è questa e il punto di partenza che si vuole tutelare è il bene della comunità cattolica cinese nelle condizioni date”.              

(Tratto da Aci Stampa)

8 Dicembre: solennità dell’Immacolata concezione di Maria

La liturgia oggi ci fa guardare l’uomo  così come fu creato da Dio: l’uomo prima del peccato originale. Deturpati dal peccato, oggi siamo invitati a riscoprire la nostra vera identità di esseri, creati ad immagine e somiglianza di Dio: veri capolavori. Solo in Maria Santissima Immacolata c’è la prova chiara di ciò che eravamo e cosa oggi siamo destinati ad essere, grazie all’opera salvatrice di Gesù.

Nella pienezza dei tempi l’arcangelo Gabriele fu inviato da Dio ad una vergine, promessa sposa di Giuseppe, chiamata Maria, da qui il saluto singolare: ‘Rallegrati, piena di grazia, il Signore è con te’. Un saluto che rivela il grandioso progetto di amore di Dio verso l’uomo: Dio mantiene la promessa e risponde attuando la redenzione. Ma chi era Maria? La donna mirabile che Dio volle preparare per essere liberamente la madre di Gesù, il Salvatore, il messia promesso subito dopo il peccato originale: la nuova Eva dell’umanità redenta da Cristo Gesù.

Dio prepara Maria preservandola dal peccato originale, cioè Immacolata in vista della missione a lei riservata: fa di Maria ‘la piena di grazia’. Il peccato rompe, separa, divide; la grazia viceversa è amore, è gioia, è fratellanza. Accettata la missione, Maria diventa la nuova Eva uscita dalla mani di Dio. Il peccato è orgoglio e rifiuto della grazia; l’essere riservata anche dal peccato originale fa di Maria una donna eccelsa sulla quale si riversa tutto l’amore di Dio. Sublime la sua missione: da lei doveva venire al mondo la vita vera: Cristo Gesù: Via, Verità e Vita.

Il dogma cristiano definisce Maria ‘Immacolata’ (senza macchia), così concepita sin dal primo istante della sua esistenza. Il Pontefice Pio IX, prima di definire e proclamare questo dogma mariano volle ascoltare il senso della fede del popolo cristiano, il magistero della Chiesa lungo i secoli, la soluzione dei nodi dottrinali dei teologi lungo i secoli e, dopo l’enciclica ‘Ubi primum’ del 1844 emerse una convergenza plebiscitaria a favore della proclamazione del dogma che spinse il Pontefice alla proclamazione del dogma mariano così espresso l’8 dicembre 1854:

“A gloria della SS. Trinità, con l’autorità di Vicario di Cristo, dichiariamo, decretiamo, definiamo come verità rivelata che la beatissima vergine Maria per singolare privilegio e grazia di Dio, in riguardo dei meriti di Gesù Cristo redentore del genere umano, sin dal primo istante della sua concezione fu preservata immune da ogni macchia di colpa originale”.

Nel mondo cristiano tale verità ha ricevuto un impulso ulteriore nell’apparizione della Santissima Vergine a Lourdes, alla grotta di Massabielle, a Bernadette Soubirous, dove Maria si autopresentò dicendo: ‘Io sono l’Immacolata concezione’. La Liturgia canta: ‘Tota pulchra es Maria, et macula non est in te’. Nell’Archivio Storico Diocesano si conserva ancora oggi un volume dal quale si evince  la volontà espressa in forma plebiscitaria dal popolo della Diocesi riguardo a questa verità di fede professata da tutto il popolo con il giuramento di difendere la verità del concepimento immacolato di Maria ‘usque ad effusionem sanguinis’.

Maria è stata preservata immune dal peccato originale per la specifica missione che era chiamata a svolgere sulla terra: ‘il Figlio di Dio ( il verbo eterno) infatti per noi uomini, per la nostra salvezza si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo’. La festa di Maria è la festa nostra, di ogni cristiano che crede in Dio ed invoca Maria con i versi del poeta Dante: ‘Termine fisso d’eterno consiglio! Qui sei a noi meridiana face// di caritate, e giuso, intra i mortali,// sei di speranza fontana vivace’ (Paradiso XXXIII, 12).

Se il culto alla santa Madre di Dio ebbe come culla l’Oriente cristiano, la Sicilia detiene il primato del culto all’Immacolata Concezione di Maria perchè la Sicilia, l’intera isola, è stata consacrata all’Immacolata dal Senato palermitano e dal popolo siciliano sin dal 1624. Noi oggi ci rivolgiamo fiduciosi a Maria: ‘rivolgi a noi, Madre, i tuoi occhi misericordios

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