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XXXI domenica Tempo ordinario: il grande comandamento è amare
Un Dottore della Legge pone a Gesù una domanda: Quale è il primo di tutti i comandamenti? Il primo non in senso cronologico, ma quello che sintetizza in sé tutti i comandamenti. Gesù risponde con le parole stesse della Bibbia: ‘Ascolta Israele: il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima, co tutte le forze’; Gesù poi aggiunge quello che Egli chiama ‘secondo comandamento: amerai il prossimo tuo come te stesso!’ Dio è amore: il comandamento essenziale allora non può essere che ‘amare’: amare Dio è l’opzione fondamentale, è la scelta fondamentale e nasce con la Fede e la Speranza.
Cristo Gesù non è venuto ad abolire l’antica legge ma a completarla; amare Dio come prima cosa, amore del prossimo come completamento dell’amore di Dio: ami veramente Dio se ami il prossimo. Gesù, come vedi, non chiede un amore soggettivo, ma un amore oggettivo; non richiede quel sentimento che sente o che prova una persona che ama; Gesù chiede di fare la volontà di Dio, ci chiede azioni reali e concrete e non sentimenti: l’amore cristiano è carità perchè scaturisce da Dio come il raggio dal sole; deve essere espressione vera dell’amore di Dio nel nostro cuore e nella nostra vita. Ecco perchè Gesù dice: se uno mi ama osserverà la mia parola (Gv. 14, 23), ‘Se mi amate osserverete i miei comandamenti’.
Non è dunque un amore su comando; l’amore vero deve essere libero e non si ottiene per imposizione dall’esterno; l’amore è frutto della scelta di Dio, che ci amati per primo e amandoci ci ha conferito la grazia per amare Dio e amare i fratelli. L’amore, prima di essere un comandamento, è la risposta ad una esperienza di amore. Dio è amore e amando crea e creando ama; da questa esperienza nasce spontaneo il comandamento che non è una imposizione ma la risposta naturale a Dio, che ci ha amato per primo.
Amore con amore si paga! L’amore che conta non è quello che si ferma ad un sentimento vuoto ma quello che si concretizza nella stessa realtà creata dove Gesù, il Verbo eterno, ha assunto la natura umana, ha sofferto in croce offrendosi vittima al Padre per amore dell’uomo, per aprire agli uomini le porte del Regno dei cieli. Cristo Gesù è venuto non per abolire la legge antica anzi dirà: neppure una iota verrà cancellata.
L’amore segna il vertice della vita cristiana: Dio non è solo il Signore da adorare, temere, obbedire ma è l’oggetto del nostro amore totale (ama il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze), ama il prossimo tuo perchè figlio di Dio, fratello nostro per il quale lo stesso Cristo è morto in croce per salvarlo. Gesù conclude così la Vecchia Alleanza ed instaura la Nuova.
La novità riguarda la parola ‘prossimo’. Chi è il prossimo d’amare? Prossimo non è solo il familiare, l’amico o uno del gruppo ma tutti costituiscono il prossimo perchè per tutti Gesù si è incarnato, è morto in croce, ha dato la sua vita. Gesù vuole tutti salvi ed ha fatto dell’umanità la sua nuova famiglia.
Per l’ebreo prossimo era solo l’altro ebreo; per l’islamico è l’altro islamico; per il cristiano prossimo è ogni uomo. Questo amore deve avere il carattere della interiorità, nel senso che non dobbiamo amare per convenienza, per utilità o dovere, ma amare perchè l’altro è tuo fratello, figlio dell’amore eterno di Dio.
Dio è amore e noi, davanti a Dio, saremo giudicati solo sull’amore: ‘Ama et fac quod vis’: chi ama non offenderà mai Dio o il fratello. Lo diciamo nel ‘Padre nostro’: perdona a noi come noi perdoniamo i nostri debitori; (cioè “con la stessa misura con la quale misurate, dice Gesù, sarete misurati”. Ama di cuore e troverai sempre Dio grande e misericordioso. Se un sorriso viene dal cuore è cortesia, se è solo esteriorità è ipocrisia.
Come amare concretamente Dio? La via più breve è amare il fratello in nome di Dio, superando così ogni frontiera di risentimento, di odio, di vendetta. Questo significa essere cristiano: un amore che si oppone alla logica del mondo dove esiste solo la logica del più forte, la legge che fa del mondo una foresta dove ‘homo homini lupus’. Da qui la risposta assai chiara di Gesù alla domanda: quale è il più grande comandamento?
Una risposta categorica: ‘Amerai…’, un verbo al futuro per indicare una storia mirabile: l’amore infatti assicura il futuro del mondo; senza amore non c’è futuro. Ascoltiamo, cari amici, la parola del Signore: se non l’ascolti la rimpiangerai; se la disprezzi, sarà la tua rovina, la tua condanna. E’ la parola che ti rimette in equilibrio perchè ti permette di ritrovare te stesso. La Madonna, la donna del ‘sì’, dell’amore, ci aiuti ad essere veri uomini e cristiani.
Giornata del Migrante: Dio si fa migrante
“L’accento posto sulla sua dimensione sinodale permette alla Chiesa di riscoprire la propria natura itinerante, di popolo di Dio in cammino nella storia, peregrinante, diremmo ‘migrante’ verso il Regno dei cieli (‘Lumen gentium’, 49). Viene spontaneo il riferimento alla narrazione biblica dell’Esodo, che presenta il popolo d’Israele in cammino verso la terra promessa: un lungo viaggio dalla schiavitù alla libertà che prefigura quello della Chiesa verso l’incontro finale con il Signore. Allo stesso modo, è possibile vedere nei migranti del nostro tempo, come in quelli di ogni epoca, un’immagine viva del popolo di Dio in cammino verso la patria eterna”.
Attingendo dalla parte iniziale del messaggio (‘Dio cammina con il suo popolo’) di papa Francesco per la 110^ Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, che si celebra domenica 29 settembre, abbiamo domandato al missionario scalabriniano e presidente dell’Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo (ASCS), prof. Gioacchino Campese, docente di ‘Teologia della mobilità umana’ alla Pontificia Università Urbaniana di Roma, di narrarci il motivo per cui Dio cammina con il suo popolo:
“ Il messaggio della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato di quest’anno è fondamentale, perché affermando che ‘Dio cammina con il suo popolo’ ci parla della natura stessa di Dio. Dio cammina con l’umanità migrante, Dio si fa migrante, perché Dio è amore, bontà e compassione infinite e quindi accompagnare il suo popolo non è altro che l’espressione della sua stessa natura. Il messaggio di papa Francesco cita diversi passaggi biblici che spiegano che Dio non abbandona mai l’umanità e, in particolare, non fa mai mancare la sua protezione e grazia alle persone più vulnerabili, al punto da identificarsi con queste persone come il brano di Matteo (‘Giudizio universale’: 25, 31-46) illustra chiaramente. La sua presenza con e nel suo popolo migrante è semplicemente una costante della rivelazione biblica”.
Per quale motivo i migranti possono un ‘segno dei tempi’?
“I migranti e i rifugiati sono sempre stati un segno dei tempi. In altre parole, i migranti e i rifugiati non sono solo un segno dei ‘nostri’ tempi, ma un segno di ‘tutti’ i tempi, un segno di una delle costanti antropologiche dell’umanità, cioè le migrazioni, la mobilità umana. Qui è bene citare san Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905) il quale alla fine del XIX secolo affermava che ‘L’emigrazione…è legge di natura. Il mondo fisico come il mondo umano soggiacciono a questa forza arcana che agita e mescola, senza distruggere, gli elementi della vita…’. I migranti sono un segno dei tempi perché ci ricordano l’essenza migrante del cosmo e dell’essere umano creato ad immagine e somiglianza di Dio. I migranti sono un segno dei tempi perché rappresentano l’abbondante e preziosa diversità con la quale Dio vuole arricchire l’esistenza e l’esperienza di ogni persona”.
In quale modo i migranti aprono all’incontro con Dio?
“Incontrare i migranti e i rifugiati vuol dire incontrare persone che rappresentano con la loro esistenza una delle dimensioni principali della natura umana e, di conseguenza, ci rimandano al Dio creatore, al Dio migrante; al Dio che ha creato il cosmo e l’umanità nella sua incredibilmente ricca diversità; al Dio che bussa alla nostra porta nei migranti e rifugiati per chiedere accoglienza, comprensione, compagnia, comunità; al Dio che ci ricorda che siamo e dobbiamo vivere come un’unica famiglia umana”.
Fino a quale punto il Giudizio finale narrato nel Vangelo di Matteo è punto importante per i cristiani?
“Il racconto del giudizio universale in Matteo 25 non è solo importante, ma fondamentale per tutti i cristiani. E’ uno dei brani evangelici che meglio descrive chi è il Dio di Gesù Cristo il quale, come osserva giustamente papa Francesco nel suo messaggio, continua ad incarnarsi nelle persone più vulnerabili, tra i quali ci sono anche i migranti e i rifugiati; allo stesso tempo questo passaggio esprime palesemente una delle sfide essenziali per la vita dei cristiani: riconoscere nelle persone vulnerabili (i migranti, i carcerati, gli affamati, gli ammalati…) la sua presenza e rispondere agendo di conseguenza a seconda delle loro necessità. E’ in questo incontro che sfida le nostre paure, pregiudizi, egoismi, e pigrizie, che avviene la salvezza, come Matteo 25 afferma senza mezzi termini”.
In quale modo la Chiesa può fare sinodo con il migrante?
“Un sinodo senza i migranti non può chiamarsi sinodo, perché se sinodo vuol dire camminare insieme come chiesa, l’assenza dei migranti ridurrebbe questo evento ad una semplice assemblea tra persone che credono di avere un certificato di appartenenza esclusiva alla chiesa. Purtroppo, spesso i migranti e i rifugiati cattolici e cristiani si sentono esclusi dalla chiesa perché parlano una lingua differente, perché hanno usi e costumi culturali differenti, perché pregano e celebrano in modo differente.
Non bisogna dimenticare un elemento essenziale in questo discorso, elemento che spesso viene dimenticato: la chiesa deve e può fare sinodo con i migranti e i rifugiati prima di tutto perché essi sono la chiesa e la provocano continuamente ad essere veramente cattolica, cioè una chiesa formata da tutti i popoli della terra; e anche quando non sono cristiani essi richiamano la chiesa ad essere fedele alla sua vocazione fondamentale: essere il ‘segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano’, secondo la Costituzione dogmatica sulla Chiesa ‘Lumen gentium’ n. 1.. E’ la sfida della fraternità universale nella quale la chiesa deve essere sempre in prima linea”.
Quali sono gli ambiti di intervento di ASCS?
“La filosofia di intervento dell’Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo (ASCS) si manifesta nell’atteggiamento e la pratica di ‘essere con’ i migranti, i rifugiati, e le comunità locali in Italia e nel mondo. L’ASCS si ispira al carisma di san Giovanni Battista Scalabrini, uno dei pionieri della pastorale con i migranti nella chiesa cattolica, e ai quattro verbi che papa Francesco ha proposto a tutta la chiesa come i pilastri di una pastorale integrale con i migranti e i rifugiati: accogliere, proteggere, promuove e integrare. Sulla scia di queste ispirazioni le tre aree di intervento principali dell’ASCS sono: accoglienza integrale, animazione interculturale e cooperazione allo sviluppo. Per ulteriori informazioni sulla visione, missione e attività dell’ASCS si può consultare il sito www.ascs.it”.
(Foto: ASCS)
Papa Francesco invita gli indonesiani a prendere il largo
“Santa Teresa di Calcutta, della quale oggi celebriamo la memoria e che instancabilmente si è presa cura dei più poveri e si è fatta promotrice di pace e di dialogo, diceva: ‘Quando non abbiamo nulla da dare, diamogli quel nulla. E ricorda: anche se non dovessi raccogliere niente, non stancarti mai di seminare’. Fratello e sorella, non stancarti mai di seminare, perché questo è vita”: nel ricordo di santa Teresa di Calcutta si è conclusa la celebrazione eucaristica di papa Francesco davanti a 60.000 fedeli, chiudendo la terza giornata del viaggio apostolico.
Quindi è stato un invito a ‘prendere il largo’ per essere costruttori di pace: “Questo, fratelli e sorelle, vorrei dire anche a voi, a questa Nazione, a questo meraviglioso e variegato arcipelago: non stancatevi di prendere il largo, non stancatevi di gettare le reti, non stancatevi di sognare, non stancatevi di sognare e costruire ancora una civiltà della pace! Osate sempre il sogno della fraternità, che è un vero tesoro fra voi. Sulla Parola del Signore vi incoraggio a seminare amore, a percorrere fiduciosi la strada del dialogo, a praticare ancora la vostra bontà e gentilezza col sorriso tipico che vi contraddistingue. Vi hanno detto che voi siete un popolo sorridente? Non perdete il sorriso, per favore, e andate avanti! E siate costruttori di pace. Siate costruttori di speranza!”
Iniziando l’omelia il papa ha spiegato il modo concreto per vivere la fede: “L’incontro con Gesù ci chiama a vivere due atteggiamenti fondamentali, che ci permettono di diventare suoi discepoli. Il primo atteggiamento: ascoltare la Parola; il secondo: vivere la Parola. Prima ascoltare, perché tutto nasce dall’ascolto, dall’aprirsi a Lui, dall’accogliere il dono prezioso della sua amicizia.
Ma poi è importante vivere la Parola ricevuta, per non essere ascoltatori vani che illudono sé stessi; per non rischiare di ascoltare soltanto con le orecchie senza che il seme della Parola scenda nel cuore e cambi il nostro modo di pensare, di sentire, di agire, e questo non è buono. La Parola che ci viene donata e che ascoltiamo chiede di diventare vita, di trasformare la vita, di incarnarsi nella nostra vita”.
Il primo ‘atteggiamento’ di vivere la fede è l’ascolto della Parola di Dio, come racconta l’evangelista Luca: “Cercano Lui, hanno fame e sete della Parola del Signore e la sentono risuonare nelle parole di Gesù. Dunque, questa scena, che si ripete tante volte nel Vangelo, ci dice che il cuore dell’uomo è sempre alla ricerca di una verità capace di sfamare e saziare il suo desiderio di felicità; che non possiamo accontentarci delle sole parole umane, dei criteri di questo mondo, dei giudizi terreni; sempre abbiamo bisogno di una luce che venga dall’alto a illuminare i nostri passi, di un’acqua viva che possa dissetare i deserti dell’anima, di una consolazione che non deluda perché proviene dal cielo e non dalle effimere cose di quaggiù. In mezzo allo stordimento e alla vanità delle parole umane, fratelli e sorelle, c’è bisogno della Parola di Dio, l’unica che è bussola per il nostro cammino, l’unica che tra tante ferite e smarrimenti è in grado di ricondurci al significato autentico della vita”.
Quindi è stato un invito all’ascolto della Parola di Dio: “Fratelli e sorelle, non dimentichiamo questo: il primo compito del discepolo (noi tutti siamo discepoli!) non è quello di indossare l’abito di una religiosità esteriormente perfetta, di fare cose straordinarie o impegnarsi in imprese grandiose. No. Il primo compito, il primo passo, invece, consiste nel sapersi mettere in ascolto dell’unica Parola che salva, quella di Gesù, come possiamo vedere nell’episodio evangelico, quando il Maestro sale sulla barca di Pietro per distanziarsi un po’ dalla riva e così predicare meglio alla gente. La nostra vita di fede inizia quando umilmente accogliamo Gesù sulla barca della nostra esistenza, gli facciamo spazio, ci mettiamo in ascolto della sua Parola e da essa ci facciamo interrogare, scuotere e cambiare”.
Dall’ascolto si passa a vivere la Parola di Dio: “Allo stesso tempo, fratelli e sorelle, la Parola del Signore chiede di incarnarsi concretamente in noi: siamo perciò chiamati a vivere la Parola. Ripetere soltanto la Parola, senza viverla, ci fa diventare come pappagalli: sì, la dico, ma non si capisce, non si vive… La Parola del Signore non può restare una bella idea astratta o suscitare soltanto l’emozione di un momento; essa ci chiede di cambiare il nostro sguardo, di lasciarci trasformare il cuore a immagine di quello di Cristo; la Parola ci chiama a gettare con coraggio le reti del Vangelo in mezzo al mare del mondo, ‘correndo il rischio’, sì, correndo il rischio di vivere l’amore che Lui ci ha insegnato e ha vissuto per primo”.
Inoltre ha precisato che gli ‘ostacoli’ ci sono sempre: “Certo, gli ostacoli e le scuse per dire di no non mancano mai; ma guardiamo ancora all’atteggiamento di Pietro: veniva da una notte difficile, in cui non aveva pescato nulla, era arrabbiato, era stanco, era deluso; eppure, invece di rimanere paralizzato in quel vuoto e bloccato dal proprio fallimento, dice: ‘Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti’. Sulla tua parola getterò le reti. E allora accade l’inaudito, il miracolo di una barca che si riempie di pesci fino quasi ad affondare”.
E’ stato un invito a non rimanere chiusi nei propri fallimenti: “Ma con la stessa umiltà e la stessa fede di Pietro, anche a noi è chiesto di non restare prigionieri dei nostri fallimenti. Questa è una cosa molto brutta, perché i fallimenti ci prendono e noi possiamo diventare prigionieri dei fallimenti. No, per favore: non restiamo prigionieri dei nostri fallimenti; invece di rimanere con lo sguardo fisso sulle nostre reti vuote, guardiamo a Gesù e fidiamoci di Lui. Non guardare le tue reti vuote, guarda Gesù, guarda Gesù! Lui ti farà camminare, Lui ti farà andare bene, fidati di Gesù!”
Prima della celebrazione eucaristica papa Francesco aveva incontrato presso la sede della Conferenza Episcopale Indonesiana gli assistiti delle realtà caritative della Chiesa cattolica: “Voi siete piccole stelle luminose nel cielo di questo arcipelago, le membra più preziose di questa Chiesa, i suoi ‘tesori’, come fin dai primi secoli del cristianesimo insegnava il diacono martire san Lorenzo…
Affrontare insieme le difficoltà, fare tutti del nostro meglio portando ognuno il proprio contributo irripetibile, ci arricchisce e ci aiuta a scoprire giorno per giorno quanto vale il nostro stare insieme, nel mondo, nella Chiesa, in famiglia, come ci ha ricordato Andrew, al quale facciamo anche i complimenti per la sua partecipazione ai Giochi Paralimpici: bravo! Facciamo un bell’applauso ad Andrew. E facciamone uno anche a tutti noi, chiamati a diventare insieme campioni dell’amore nelle grandi olimpiadi della vita. Un applauso a tutti noi!”
L’incontro si è concluso con l’invito ad aiutarsi vicendevolmente: “Ci ricorda, poi, quanto il Signore ci vuole bene, a tutti, al di là di qualsiasi limite e difficoltà. Ciascuno di noi è unico ai suoi occhi, agli occhi del Signore, e Lui non si dimentica mai di noi, mai. Ricordiamolo, per tenere viva la nostra speranza e per impegnarci a nostra volta, senza mai stancarci, a fare della nostra vita un dono per gli altri”.
(Foto: Santa Sede)
I crimini del silenzio di fronte all’ingiustizia degli oppressi
Dice il proverbio arabo: Chi tace dinanzi all’ingiustizia è un diavolo muto. Il diavolo taciturno è il peggior tipo di demone, perché il silenzio di fronte all’ingiustizia, all’abuso e all’oppressione è una partecipazione passiva che contribuisce alla continuazione della situazione, perfino alla sua giustificazione, e spesso la esacerba e peggiora. Il silenzio di fronte a situazioni ingiuste spinge gli oppressori a persistere, li incoraggia a mantenere le loro posizioni sbagliate e in molti casi li spinge a giustificare a sé stessi quelle posizioni vergognose, fino a considerare le loro ingiustizie motivo di orgoglio e di vanto.
Mentre, dire la verità, costi quel che costi e qualunque siano i risultati, è una delle caratteristiche delle persone nobili, giuste e dotate di principi, morali e valoriali, ed è l’unica via di chi sceglie la strada della fede, dell’umanità, dell’integrità e della rettitudine morale.
Infatti, esistono diversi tipi di persone: il primo tipo è quello di coloro che dicono la verità per vantarsi e per sentirsi migliori degli altri e, così facendo, esprimono solo la loro arroganza e la nauseante sensazione di essere migliori degli altri e di avere il diritto di condannarli e giudicarli. Qui Gesù Cristo gli dice: ‘Con la stessa misura con la quale misurate, sarete misurati anche voi’ (Mc 4, 24). Cristo mette in guardia contro questo tipo di persone che condannano gli altri che si vantano e si arrampicano sulle spalle degli altri con il pretesto di ‘dire la verità’, non ‘per amore della verità’.
Il secondo tipo è quello di coloro che tacciono di fronte all’ingiustizia degli altri e li giustificano dicendo che non vogliono condannare nessuno, dimostrando così la loro paura e codardia. Nascondono la testa nella sabbia come se nulla fosse successo. Questo tipo di persone spesso tacciono quando si tratta di dire la verità davanti ai potenti e alle persone influenti per paura della loro vendetta e per ottenere il loro compiacimento e approvazione e per evitare la loro malvagità.
Queste persone spesso si comportano come Ponzio Pilato, che si lava le mani di fronte all’ingiustizia dell’Innocente, credendo così di essersi esonerato dalla responsabilità nonostante abbia detto: ‘Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?’ (Gv 19,10). Questo tipo di ipocrisia è il tipo più spregevole di evasione dalle responsabilità, è di facciata, di giustificazione e persino di vanto che arriva sino a sfruttare i versetti della Bibbia per giustificare un silenzio vergognoso ed evitare di prendere posizione o dire la verità.
Il terzo tipo è di quelli che restano in silenzio fino a quando la tempesta non è passata e appena raggiungono la certezza dei risultati gridano come se fossero i più valorosi dei cavalieri. E’ un tipo di essere umano caratterizzato da opportunismo, meschinità spirituale e umana. Scelgono di tacere finché non sono certi dei risultati e appena appare la ‘visione’ il troviamo tra i primi a congratularsi con il vincitore e consolare il perdente. Commerciano anche nel dolore, versano lacrime di finzione e simulano di essere compassionevoli e generosi, ma in realtà pensano solo a sé stessi e ai loro guadagni, esprimendo così la bassezza e la fragilità dei loro principi e della loro vita morale.
Il quarto tipo è di quelli che credono di adottare la moderazione come approccio e si vantano di parlare diplomaticamente per non ferire nessuno, ma in realtà sono come camaleonti che cambiano colore a seconda delle circostanze cosicché nessuno possa scoprire il loro vero colore. Agiscano con tatto ed educazione per sostenere il loro cambio di posizione secondo le circostanze, dimenticando che Gesù Cristo ci insegna: ‘Siano le vostre parole sì, sì, no, no. E tutto il resto viene dal male’ (Mt 5:37). Il tatto è necessario quando si tratta di cortesia umana, non quando si tratta di dire la verità contro l’ingiustizia e a favore degli oppressori e di rendere giustizia agli oppressi.
Il quinto tipo è di coloro che dicono la verità basandosi sulla convinzione della necessità di essere coraggiosi e di non tradire i propri principi e valori, costi quel che costi. Questo tipo di esseri umani sono come le perle preziose: non mutano colore, non cambiano le loro parole secondo la grandezza di chi hanno davanti, ma secondo l’autenticità della loro fede, della loro storia, della loro alta morale.
Esprimono le loro opinioni sia davanti ai governanti sia davanti agli oppressi. Sono come il profeta Natan che si presentò davanti al re Davide, affrontandolo, dicendogli: ‘Tu sei quell’uomo! Così dice il Signore, Dio d’Israele: Io ti ho unto re d’Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul, ti ho dato la casa del tuo padrone ….. e, se questo fosse troppo poco, io vi avrei aggiunto anche altro’ (2 Sam 12, 7-9).
Questo tipo di persone sanno che dire la verità è un dovere religioso, morale e umano. Ci insegnano che dire la verità deve essere fatto con educazione, rispetto e tatto, ma resta un dovere morale e di fede, in primis, soprattutto di fronte a comportamenti sbagliati, indipendentemente dalla posizione o dal rango civile o ecclesiastico delle persone ingiuste.
Oggi abbiamo tanto bisogno di uomini di questo tipo che non temono altro che il volto di Dio e il suo giusto giudizio. Uomini che dicono: basta con il silenzio, la sottomissione e la codardia. Uomini che urlano contro le rovine delle nostre coscienze mummificate per risvegliarle dalla morte e dal marciume.
Uomini con un cuore coraggioso, una lingua parlante, una coscienza pura, una storia onorevole e cuore puro. Uomini che non calcolano le cose secondo gli standard di questo mondo e l’equilibrio tra vincitori e vinti, ma piuttosto agiscono con valore e audacia. Uomini che scuotono coscienze vergognose, lingue mute, occhi ciechi e orecchie chiuse, cuori pietrificati e menti logore. Uomini che tracciano un percorso nell’oscurità, capaci di accendere la speranza. Gesù disse: ‘Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi’ (Gv 8, 32).
La Fondazione ‘Patrizio Paoletti’ analizza le emozioni dei giovani
A fine ottobre alla Biblioteca della Camera dei Deputati la Fondazione ‘Patrizio Paoletti’ ha presentato il report ‘Mai più soli. Focus adolescenza: sfide e risorse positive nel post-pandemia’, facente parte del progetto ‘Prefigurare il futuro’, come approccio neuro-psicopedagogico di intervento a favore degli adolescenti nelle scuole italiane, e gli studi di ricerca condotti in collaborazione con l’Università di Padova che fotografano le problematiche che stanno mettendo a rischio il benessere degli adolescenti.
XXXIV Domenica del Tempo Ordinario: Solennità di Cristo Re dell’Universo
La solennità di Cristo Re conclude l’anno liturgico. Diversamente dall’anno civile scandito dai dodici mesi, l’anno liturgico è scandito dalle tre feste: Natale, Pasqua e Pentecoste; il Natale poi è preceduto da quattro settimane dette di ‘avvento’. La solennità odierna ci ricorda che Gesù, il buon pastore, alla fine di questo cammino ritornerà come Re per giudicare i buoni e i cattivi.
Il giudizio sull’amore
Rabat. Una strana, immensa compassione: ecco cosa provo. Di sera uscendo di casa dove vivo, chiuso il portone, getto un occhio automaticamente al muretto accanto… Nascosto dalle auto in sosta, sul marciapiede, accovacciato come un cane c’è Ibrahim. Oppure Mohammed insieme a un amico oppure Abdesalam… insomma, giovani migranti subsahariani, forse appena maggiorenni. Hanno in testa un sogno, un idea fissa, inchiodata alla mente: arrivare in Europa.
Card. Cantalamessa: la morte è vinta
Prima domenica di Avvento: si aprano i cieli e piova il Giusto
La liturgia è canto di lode a Dio, che va eseguito tutti i giorni per tutto l’anno liturgico. La liturgia oggi ci dà l’avvio ad un nuovo anno, che è scandito da tre feste: Natale (festa del Padre), Pasqua (la festa in onore del Figlio) e la Pentecoste (in onore dello Spirito Santo). Questa prima festa è il Natale, giorno in cui ringraziamo il Padre che, avendo creato l’uomo a sua immagine, dopo il peccato originale, non lo abbandona ma invia il Figlio per redimere e salvare l’uomo.
Papa Francesco: saremo giudicati dalla misericordia
Al termine della celebrazione eucaristica nella basilica di san Pietro per i cardinali ed i vescovi defunti in quest’anno, papa Francesco si è recato al Campo Santo Teutonico per un momento di preghiera, come ha confermato Matteo Bruni, direttore della Sala Stampa della Santa Sede: “Il Papa si è fermato in preghiera silenziosa, dopo aver benedetto con l’aspersorio le tombe lì custodite. Subito dopo ha fatto rientro presso Casa Santa Marta”.