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La Fondazione Migrantes: non adeguate le risposte alla migrazione

Nelle scorse settimane è stata presentata l’ottava edizione del report che la Fondazione Migrantes dedica al mondo delle migrazioni forzate, ed anche quest’anno legge e interpreta dati, norme, politiche e storie, portando alla luce come nell’Unione europea ed in Italia ad essere sempre più a rischio sia il diritto d’asilo stesso. Le persone in fuga nel mondo hanno superato quota 120.000.000 a causa di guerre e conflitti che si allargano di anno in anno, portando a un ulteriore incremento delle vittime, specie tra i civili.
In Medio Oriente la guerra tra Hamas e Israele si è estesa con il coinvolgimento della Cisgiordania, dell’Iran e del Libano. Le armi continuano a essere le uniche a parlare tra Ucraina e Russia, mentre anche situazioni estreme legate al cambiamento climatico contribuiscono a far crescere il numero delle persone costrette ad abbandonare la propria casa e la propria terra per un tempo sempre più lungo.
Non sono invece altrettanto celeri le risposte alle cause profonde di queste migrazioni forzate, e troppo poche le autorità di governo e le istituzioni che, con serietà ed autorevolezza, intendono perseguire obiettivi di pace e giustizia, mentre prosegue una folle corsa agli armamenti. Nel frattempo, poco prima della chiusura della scorsa legislatura europea è stato approvato il ‘nuovo’ Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, un compromesso al ribasso in cui si assiste a un ulteriore impoverimento dei diritti di richiedenti asilo e rifugiati.
Alla fine del 2023 il numero di persone in fuga da guerre, violenze e persecuzioni a livello mondiale ha superato i 117.000.000 e saranno oltre 130.000, secondo l’UNHCR, l’Agenzia ONU per i rifugiati, le persone bisognose di protezione a fine 2024. Di queste, più di 68.000.000 rimangono all’interno del proprio Paese, mentre i rimanenti passano il confine alla ricerca di protezione e sicurezza.
La maggior parte, circa il 69%, si sposta in Paesi confinanti e solo una piccola frazione inizia un lungo e pericoloso viaggio verso l’Europa, che presenta una forte carenza di canali di ingresso legali e sicuri e, anzi, continua a rendere l’arrivo sempre più complesso e pericoloso per chi fugge. Sono stati infatti poco più di 520.000 gli ingressi irregolari in Europa tra il 2023 e i primi nove mesi del 2024, mentre sono state più di 1.500.000 le richieste d’asilo presentate nello stesso periodo.
Il Report include un contributo sulla riforma del Sistema europeo comune di asilo (CEAS), focalizzato sul ‘nuovo’ Patto migrazione e asilo. Nonostante la dichiarazione solenne sul diritto d’asilo come inviolabile, le recenti riforme limitano l’accesso a tale diritto. In particolare, l’introduzione di procedure accelerate e di restrizioni per chi richiede asilo alle frontiere esterne dell’UE accentua la detenzione in aree di transito e riduce l’efficacia del ricorso legale contro il respingimento.
Inoltre, si introduce la finzione giuridica del ‘non ingresso’, che considera alcuni richiedenti asilo come non presenti sul territorio, permettendo l’adozione di misure restrittive e respingimenti immediati. Una delle poche aperture positive riguarda invece il ‘reinsediamento umanitario’, che rimane però opzionale per gli Stati membri.
Inoltre il protocollo migratorio firmato il 6 novembre 2023 tra Italia e Albania mira a combattere l’immigrazione illegale attraverso la costruzione di centri di accoglienza e identificazione in Albania, finanziati dall’Italia. Questi centri hanno il compito di ospitare migranti soccorsi nel Mediterraneo per determinare la loro idoneità alla protezione internazionale o, in caso contrario, per il rimpatrio.
Presentato come una ‘soluzione innovativa’, l’accordo, che ha una chiara funzione deterrente, ha tuttavia sollevato dubbi tra i giuristi e le organizzazioni per i diritti umani: malgrado i significativi costi economici, il protocollo potrebbe risultare inefficace rispetto ai suoi stessi obiettivi e dannoso per i diritti fondamentali dei migranti, creando di fatto un sistema di ‘esternalizzazione’ che isola i migranti dal territorio e dalla società italiana.
Quindi, nonostante il divieto di trattenimento per i MSNA previsto dalla legge italiana, molti minori sono trattenuti in centri inadeguati, quali hotspot e centri governativi di accoglienza, spesso in condizioni critiche e promiscue con adulti. Questi centri non garantiscono un’adeguata tutela legale, né la possibilità di chiedere asilo o permessi di soggiorno, lasciando i minori in uno stato di isolamento e incertezza.
La recente legge 176/2023 ha legalizzato il collocamento dei MSNA sopra i 16 anni in strutture per adulti, una misura che contrasta con il superiore interesse del minore sancito dalla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia. Le ripetute violazioni dei diritti fondamentali sono state confermate da sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), che ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti nei confronti di minori collocati proprio in strutture per adulti. Nonostante le condanne, tuttavia, le prassi non sono state modificate e la gestione emergenziale continua a prevalere.
Dopo l’entrata in vigore della legge n. 50/2023, la rete di società civile del Forum per cambiare l’ordine delle cose ha condotto un monitoraggio in diversi territori su quattro macro‐tematiche: le procedure accelerate in zone di frontiera o transito; i tempi e le prassi di convocazione per le audizioni e i tempi di decisione delle Commissioni territoriali; i criteri di riconoscimento della protezione speciale fondata sul rispetto dell’articolo 8 CEDU; i tempi e le prassi nei casi di rinnovo e conversione della protezione speciale.
Il contributo del Report, frutto di un inedito monitoraggio che ha coinvolto le congregazioni religiose femminili presenti in aree di transito e permanenza, evidenzia come in Italia l’esperienza della ‘frontiera’ venga interpretata in modo vario e poliedrico dalle religiose. Le loro comunità, dalla Sicilia alla Lombardia, sono esposte a situazioni difficili, fornendo assistenza umanitaria a migranti che affrontano povertà, violenze e vulnerabilità sociali.
Operano spesso in collaborazione con enti locali, associazioni laiche e strutture sanitarie, ma si scontrano con risorse insufficienti e politiche restrittive. Attraverso scuole di lingua, supporto psicologico e integrazione lavorativa costruiscono percorsi di riscatto in particolare a favore delle donne vittime di tratta. Ma la mappatura ha portato alla luce, in realtà, un’ampia varietà di risposte ed esperienze, dai dormitori per migranti in transito alle strutture educative per donne e bambini.
Le frontiere migranti di Abdou Boubacar

Quelle esistenti tra il Niger dei colonnelli e il Benin di Patrice Talon, re del cotone indiscusso e presidente del Paese, sono vergognosamente chiuse. A causa delle sanzioni applicate in risposta al golpe militare di fine luglio dell’anno scorso,centinaia di camion e container sono bloccati dall’altra parte del ponte. Adesso è pure l’innocua piroga, che permetteva ai passeggeri di attraversare il fiume Niger, ad aver ricevuto l’ordine di arresto.
Ciò significa che, come in un lontano passato, le frontiere tra i due Paesi confinanti sono completamente chiuse o quasi. In effetti c’è il disputato oleodotto che trasporta petrolio ‘cinese’ dal Niger alla costa atlantica del Benin che mantiene ‘in vita’ una frontiera che altrimenti sarebbe del tutto invalicabile. Il libero movimento di persone e beni nello spazio dei Paesi dell’Africa Occidentale, in breve la tanto contestata CEDEAO, si allontana dalla realtà una volta di più.
Non affatto è il caso di Abdou Boubacar, uscito dall’ultima frontiera che lo ha imprigionato per quattordici mesi a causa di un reato mai commesso nella città di Dosso, non lontano dalla capitale Niamey. Dice di essere nato in Costa d’Avorio ma nel foglio di uscita del carcere c’è scritto Monrovia, la capitale della Liberia. Dice di aver studiato in Liberia dove si parla inglese ma il suo francese è quasi perfetto.
Afferma che, essendo sua madre ivoriana, passava le vacanze da lei e questo spiegherebbe tutto. Adolescente segue ii fratello maggiore fino in Mauritania per poi tornare in una patria a scelta del momento e delle circostanze. Abdou, secondo il foglio di rilascio, è nato nel 2003 circa e avrebbe dunque la bellezza di 23 anni e lo stesso numero di frontiere sedotte, se non di più. Decide di attraversare il mare e per questo parte dalla Liberia, passa la Guinea, il Mali e, navigato il deserto del Sahara, approda in Algeria.
Lavora per qualche mese ad Algeri nei cantieri edili come piastrellista, manovale e imbianchino. Il tempo necessario di andare in Libia e tentare finalmente il sogno del Mediterraneo per raggiungere l’Italia. Dopo un breve soggiorno a Tripoli paga 1700 E al ‘passeur’ per l’ultimo posto disponibile nel battello. Assicura che c’erano 113 passeggeri di tutte le nazionalità dell’Africa e altrove, comprese donne e bambini. Partiti all’imbrunire sono stati fermati dalla guardia costiera libica ad appena un centinaio di metri dalla costa.
Messo a lavorare per qualche mese gratuitamente da qualche capo, torna in Algeria dove, stavolta, le guardie e i militari lo arrestano e deportano sino al confine col Niger. Passa, con altri come lui, la frontiera invisibile tra i due Paesi la notte per raggiungere una cittadina abitata soprattutto da migranti espulsi chiamata Assamaka. Dopo un breve soggiorno, coi soldi nascosti nelle parte intime del suo corpo, raggiunge Arlit, Agadez e, nella cittadina di Dosso, passa la porta della prigione civile.
Esibisce il foglio di uscita del carcere come l’unico trofeo guadagnato in questi anni di trasgressioni delle frontiere. Quattordici mesi inutili di carcere per un giovane di poco più di vent’anni non sono pochi. Abdou si sorprende, affamato e sperduto, a contare il numero di frontiere che l’hanno attraversato da quando è nato non si sa dove, quando e perché. Forse tornerà dove era partito per tentare ancora la pazienza del deserto e l’incertezza del mare. Abdou chiederà la meta del suo viaggio alle frontiere che, finora, non l’hanno mai tradito.
Frontiere di Pace, da una parrocchia di Como alla gente in Ucraina

Il conflitto, deflagrato il 24 febbraio 2022, continua a essere caratterizzato da bombardamenti indiscriminati nelle aree civili che non risparmiano scuole, ospedali, centri comunitari, abitazioni. L’economia di base è pressoché ferma e la vita di ogni giorno dipende quasi totalmente dagli aiuti umanitari. Però gli aiuti alla popolazione ucraina non si ferma e continua attraverso i viaggi di molte associazioni, come quelli organizzati dai volontari del gruppo ‘Frontiere di pace’, legato alla parrocchia di Santa Maria Assunta di Maccio in Villa Guardia, in provincia di Como, con l’obiettivo di portare cibo e solidarietà alla popolazione ucraina attraverso la presenza diretta, sul campo, mettendoci il corpo. Per raccogliere i bisogni reali della popolazione si appoggiano a p. Ihor Boyko, rettore del seminario greco cattolico di Lviv.
A conclusione dell’ultima missione al coordinatore dell’associazione ‘Frontiere di pace’, Giambattista Mosa, chiediamo di raccontarci la situazione in Ucraina: “La situazione in Ucraina è in lento peggioramento da un punto di vista strettamente legato ai rapporti di forza sul campo, ma credo che questo sia ormai palese a tutti. Ciò che posso aggiungere è la grande speranza che la gente incontrata da noi, ci consegna, di poter resistere all’invasione delle forze armate russe, mantenendo i loro villaggi e città libere dall’occupazione”.
Perché ‘Frontiere di pace’?
“La pace è un valore immenso, senza la quale manca tutto. Noi lo vediamo ad ogni missione. La gente chiede pace. La pace però è qualcosa da costruire senza ingenuità nelle condizioni storico concrete in cui la gente si trova a vivere. Questo ci hanno insegnato le persone che incontriamo durante le nostre missioni. La pace sta alla “frontiera”, nelle situazioni di discontinuità tra popoli e culture, “confini, frontiere” storicamente determinati, ma sempre mutevoli e negoziabili, soprattutto confini e discontinuità dell’ingiustizia e della violenza.
Proviamo a pensare alla pace dentro queste complessità senza ingenuità, la pace sulla frontiera, cercando di coniugare pace e giustizia. Soprattutto, pensare alla frontiere non esclusivamente come luogo della differenza e discontinuità, ma anche della comunicazione e della vicinanza, del contatto, dello scambio, qualcosa di permeabile. Il nostro modo concreto di pensare la pace è praticare la solidarietà, tramite le nostre missioni umanitarie indirizzate alle vittime, a tutte le vittime della guerra da noi raggiungibili”.
Quale è il vostro ‘metodo’?
“L’associazione svolge missioni umanitarie e di pace ‘sul campo’, nelle situazioni di grave marginalità, povertà ed oppressione in cui popoli e gruppi umani si trovano a sopravvivere. Operiamo soprattutto nelle zone di conflitto ed assenza di pace. Missioni umanitarie perché ci preoccupiamo di fornire direttamente beni di prima necessità (cibo, medicinali, vestiti ed attrezzature varie, ecc.), indispensabili alle persone che vivono in situazioni di emergenza e conflitto. Progettiamo anche interventi post emergenza e microprogetti di sviluppo (‘Un tetto per Kharkiv’, biblioteca di Izjum…).
Missioni di pace perché ci mettiamo il ‘corpo’, noi stessi, ovvero facciamo esperienza diretta, sul “campo” delle persone che incontriamo, cercando di trasmettere solidarietà e vicinanza, per spezzare l’esclusione, e l’isolamento che le persone in aree di conflitto sono costrette a subire. Ci mettiamo in atteggiamento empatico e di ascolto, incorporando sensazioni, fatiche, speranze, desideri, ideali ed emozioni. Raccogliamo le testimonianze, facciamo parlare le vittime, riportando alle nostre comunità le sensazioni ed emozioni che abbiamo incorporato, raccontando le vittime con le loro parole, nel loro contesto e situazione. Il nostro è un punto di vista interno vicino all’esperienza delle persone che incontriamo sul ‘campo’.
Pensiamo la pace ed il dialogo a partire dal punto di vista aderente all’esperienza delle vittime e alla nostra esperienza incorporata. Progettiamo la pace alla frontiera, sui confini di discontinuità, leggendo il confine non solo come divisione e separazione immutabile ma, permeabile alle relazioni tra popoli, dentro una visione di rispetto per le specificità storiche, culturali e identitarie di ogni popolo, nel rispetto di una pace giusta e praticabile. Promuoviamo il dialogo e l’incontro.
Infine evidenzio soltanto il valore dell’ascolto: le persone che incontriamo chiedono di essere ascoltate, chiedono di raccontare la loro storia. Noi iniziamo sempre mettendoci in ascolto, un ascolto umile e attento. Solo ascoltando le vittime possiamo ‘comprendere’ la situazione che stanno vivendo, solo su questo ascolto è possibile pensare alla pace”.
In quale modo portate sollievo alla popolazione?
“Noi vogliamo essere concreti. Le nostre missioni umanitarie, portano cibo, medicinali, igiene, vestiti direttamente a chi ne ha bisogno, senza intermediari. Ascoltiamo ciò che la gente racconta e ne raccogliamo le storie; portando la nostra testimonianza e sensibilizzando le nostre comunità, le scuole, i gruppi… Costruiamo rapporti di amicizia, solidarietà e vicinanza con le comunità destinatarie delle nostre missioni umanitarie”.
In cosa consistono le missioni umanitarie e di pace?
“Le missioni consistono nel trasportare tramite furgoni e bilici, il materiale che generosamente le nostre comunità ci donano (cibo, vestiti, farmaci, igiene…). Trasportiamo e portiamo questi beni, che danno sollievo alla popolazione civile, direttamente dove la gente ne ha bisogno. Le nostre destinazioni sono la chiesa greco cattolica di san Nikola taumaturgo a Kharkiv, di san Demetrio a Kharkiv e il monastero greco cattolico dei padri Basiliani di Kherson. Ci accompagna e ci guida sempre nelle nostre missioni il rettore del seminario greco cattolico dello Spirito Santo, padre Ihor Boyko.
Ci accompagna anche suor Oleksia delle suore di san Giuseppe; hanno una piccola sede a Kharkiv. Con lei andiamo nei villaggi dell’oblast di Kharkiv (Izjum) e dell’Oblast di Donietsk; ci spingiamo fino a Kramatorsk, e Kostantinvka. Facciamo microprogetti con varie realtà (ospedale di Izjum, Ospedale di Dryzisvka, comunità di padre Pietro a Izjum…). Tutto ciò costituisce le nostre missioni umanitarie e di pace, aiuto materiale e sostegno alla speranza di un futuro di pace e libertà delle comunità che incontriamo”.
E’ possibile ricostruire un futuro di riconciliazione?
“La riconciliazione è qualcosa che si può fare in due. Non dipende solo dagli ucraini. Prevede un cammino lungo, doloroso e faticoso, ma necessità della volontà di entrambi. Una signora, durante l’ultima missione nello scorso marzo mi disse: ‘E’ molto difficile perdonare, tutto questo male che ci hanno fatto e ci stanno facendo…, forse con il tempo…, gli ucraini hanno un grande cuore…’. Il perdono è possibile, ma emerge dall’ascolto, dal riconoscere le sofferenze e le speranze delle persone, delle vittime; da qui, forse in futuro, sarà possibile la riconciliazione, che è qualcosa da costruire e volere insieme”.
(Tratto da Aci Stampa)
Il popolo introvabile e la democrazia di sabbia

Dov’è passato il popolo nei Paesi del Sahel? Si tratta dei bambini, i giovani e gli adulti che hanno riempito lo stadio un paio di volte dopo il golpe di fine luglio dell’anno scorso? Oppure dei gruppi di vigilanza nelle rotonde della capitale? O allora delle migliaia di cittadini che hanno ottenuto la partenza incondizionata dei militari francesi prima e americani poi nella piazza battezzata della ‘Resistenza’?
Parliamo delle qualche decine di militanti delle organizzazioni della società civile che hanno ‘sposato ‘ e ‘orientato’ la causa della giunta? C’è popolo e popolo, come dappertutto in giro per il mondo, beninteso. Coloro che ne accaparrano i vizi e le virtù e coloro che, diciamo così, non ne faranno mai parte.
Ad esempio i bambini e adulti che a centinaia mendicano sulle strade della capitale o che sono ‘esportati’ nei Paesi confinanti per esercitare il mestiere di salvare le anime dei peccatori. In effetti, anche grazie a loro i fedeli potranno praticare la virtù dell’elemosina e sperare nella misericordia divina. Nella zona ‘grigia’ tra il popolo e il non popolo ci sono le moltitudini dei contadini, degli allevatori di bestiame e la folla immensa di giovani che sopravvivono del lavoro informale per il cibo quotidiano. A meno che non si chiami ‘popolo’ solo chi sta dalla parte’ giusta’.
C’è il popolo dei commercianti, i grandi che vanno a Dubai o altrove, i medi che si industriano per riemergere dalla crisi, i piccoli delle frontiere e i minimi che vendono i sacchetti d’acqua di un’improbabile sorgente del Sahel, pura e minerale per tutti i gusti. Ci si ricorda del popolo dei politici del passato, in situazione di stallo con la sospensione delle attività dei partiti politici o per via dei compromessi con l’antico regime presidenziale del Rinascimento.
Il popolo dei funzionari statali, gli insegnanti, gli impiegati nelle Ong locali, i superstiti delle cooperazioni bilaterali e l’indefinita lista di chi cerca lavoro e colleziona domande di assunzione per concorsi che non arrivano mai a tempo. Si dovrebbe aggiungere il popolo degli imprenditori religiosi che organizzano la vita religiosa del popolo dei credenti a sua volta suddiviso tra stranieri e autoctoni.
Poi c’è il popolo dei migranti, dei rifugiati, degli sfollati espropriati delle terre, le case e il futuro che immaginavano diverso. Il popolo dei militari fa storia a sé soprattutto se si prendono in considerazioni i gradi, le affinità, le conoscenze e l’attuale posto nell’amministrazione politica del Paese. Anche le donne formano, a modo loro, un popolo a parte speciale coi suoi riti, attese, prerogative e poteri sul quotidiano dei figli e quello, meno evidente, sui mariti.
Il popolo è dunque un’idea nata da qualche parte tra il concetto di nazione e quello di stato. Oppure non si tratta che di un’invenzione che solo la scelta di nominarlo permette di farlo esistere. ‘In nome del popolo sovrano’ suona quasi come un proclama assoluto dal sapore divino. La giustizia, la legge e la carta costituzionale si fondano sul popolo e così la sovranità che gli appartiene per natura.
Sono i cittadini riconosciuti come tali che sembrano costituire il popolo in base all’appartenenza storica, geografica, culturale e politica ad un ordinamento accettato e riconosciuto. C’è poi, infine, il popolo di sabbia o meglio il popolo che della sabbia è una creatura a parte.
Spazzato via dal vento e dai pulitori di strade, ai margini delle corsie transitabili dai veicoli oppure allontanato dagli orientamenti strategici del Paese, venduto e occasionalmente ostaggio delle nuove bandiere sistemate nelle rotonde della capitale. Fanno bella mostra quelle dei Paesi dell’Alleanza del Sahel assieme a quella della Russia. Forse il popolo introvabile si trova, nascosto, nella polvere che il vento porta lontano.
L’ultima dimora di Eto’o, migrante senza fine

Era chiamato familiarmente Eto’o dai compagni viaggio, come il noto giocatore di calcio camerunese. Anche lui, Feliciano, era originario dello stesso Paese e, a suo modo, era famoso nell’ambito delle migrazioni. Partito in fretta per l’Algeria poi dalla Tunisia che aveva raggiunto, si era recato a Doubai e, da lì tornò al suo Paese natale. Ripartito per Doubai una seconda volta aveva conosciuto espulsione col ritorno forzato al Camerun.
Dopo qualche tempo, mosso da qualcosa di indefinibile, aveva raggiunto il Ghana e successivamente, con l’amico Giovanni, il Togo anch’esso adagiato sulle coste atlantiche. La voce che li chiamava si trasformava una volta di più in una irresistibile seduzione e, con l’amico hanno raggiunto la frontiera dell’Algeria. Vista la repressione delle autorità algerine nei confronti dei cercatori di utopie, hanno scelto di tornare indietro sullo stesso cammino dell’andata. Giunti a Niamey si sono sommariamente presentati agli altri residenti della diaspora camerunese e si sono in seguito eclissati in uno dei quartieri.
Eto’o ha cercato di curare i dolori atroci che sentiva al dente. In seguito all’assunzione forse esagerata di medicinali antidolorifici venduti in strada è stato costretto a usufruire delle cure di una clinica privata della zona. Nel frattempo le sue condizioni di salute peggioravano e, oltre ai dolori intestinali si era prodotto un blocco renale che rendeva la sua situazione disperata. Raggiunto il Servizio Migranti ormai moribondo è stato accompagnato all’ospedale universitario e operato d’urgenza.
Era però troppo tardi e Feliciano è morto all’età di 37 anni a Niamey da due giorni. Il feretro di legno compensato con apposta una croce sulla parte superiore è già pronto. La tomba è stata scavata nel nuovo cimitero cristiano della capitale e solo si aspetta che qualche membro della famiglia lo raggiunga per seppellirlo nella capiente e umile sabbia del Niger. Una croce porterà scritto il nome, la data di nascita e quella del transito migrante più impegnativo. Lui, Eto’o, che ha fatto della sua vita una migrazione e della migrazione la sua vita si è fermato a Niamey.
Oppure no. La casa a forma di tomba scavata nella sabbia carezzata dal vento e seccata dal calore della stagione è l’ultima per chi pensa che la migrazione di Eto’o sia terminata. Molti che l’hanno conosciuto giurano che non è così. Proprio adesso che tutto sembra finito è invece iniziato per Feliciano il viaggio verso ciò che ha sempre sperato, creduto e cercato.
Una dimora nella quale i Paesi, le frontiere e il colore del mare si mescolano con le lacrime di gioia di chi ha raggiunto, finalmente, ciò che molti non osano più immaginare. Nel silenzio che circonda il cimitero, il vento porta lontano la speranza che Eto’o ha camminato e che altri incauti avventurieri abiteranno nella sognata terra della libertà.
Il Paese Invisibile

Contrariamente a quello visibile, il Paese invisibile non viaggia. O meglio, semmai migra per cercare lontano quello che pensa di non trovare accanto. Invece, il due volte presidente del Niger, Issoufou Mahamadou, dopo alcuni mesi di segregazione forzata, ha viaggiato fino ad Addis Abeba. Un aereo speciale dal Ghana per l’ennesimo incontro sulla libera circolazione di beni, servizi (e persone?) in Africa. E’ andato, forse, a tentare di (ri) mediare per la crisi economica che il Paese attraversa dall’arresto ai domiciliari, da fine luglio dell’anno scorso, del presidente Mohammed Bazoum.
Quanto al primo ministro e altresì ministro dell’Economia e delle Finanze del governo nominato dalla giunta militare al potere, Mahaman Lamine, ha viaggiato in vari Paesi prima di tornare all’ovile. Dal Congo, per un incontro sulla situazione in Libia, ha in seguito raggiunto, con una delegazione del governo per una visita di lavoro, Mosca, Ankara, Teheran e Rabat. Il Paese Invisibile, invece, passa la frontiera del Benin con la piroga come un clandestino ben noto.
I cittadini normali si muovono in taxi, bus o minibus all’interno del Paese. Altri sono sfollati a decine di migliaia attorno al lago Ciad o nella zona delle Tre Frontiere che unisce e divide i Paesi che hanno scelto di coalizzarsi. Niger, Mali e Burkina Faso si trovano coi militari al potere in seguito a colpi di stato motivati dall’incapacità dei civili di fronteggiare gli attacchi dei gruppi armati ‘terroristi’.
Consapevolmente o meno i soggetti costitutivi del Paese Invisibile sono coloro che hanno imparato a sopravvivere, dalla colonizzazione francese ai vari regimi militari con timidi accenni alla democrazia della miseria. Il passaggio alla miseria della democrazia è avvenuto senza destare sospetti. Da un lato i Grandi Commercianti, i Politici da loro pagati per assecondarli, i militari come guardiani del rispetto dei patti e il popolo confiscato della sua sovranità.
Il Paese Invisibile è composto da coloro che non sanno o ai quali non è dato sapere che in loro risiede la fonte del diritto, della politica e della giustizia. Quest’ultima è stata la grande assente dei vari regimi al potere.
“Gentile cliente, in conformità con l’ordinanza n.2023-18, che modifica e completa la n.2023-13 con la creazione di un Fondo di Solidarietà per la Salvaguardia della Patria, istituisce un prelevamento automatico di 10 F su ogni appello a partire da 12 F e su ogni ricarica superiore a 200 F. Tutto ciò con lo scopo di contribuire in modo forte e sostenuto alla Salvaguardia della Patria a partire dal 25 gennaio del 2024”.
Anche i cittadini del Paese Invisibile hanno ricevuto questo messaggio sul loro telefono cellulare e, senza udibili commenti, si sono adeguati al premeditato salasso quotidiano. Un prelievo invisibile per uno scopo invisibile nel Paese Invisibile. Difficile misurare l’entità delle entrate e soprattutto delle uscite di questo inedito patrimonio pecuniario. Così com’è stato difficile capire come sono potuti arrivare senza sospetto , 1.400 chili in lingotti d’oro da Niamey in Etiopia il mese scorso. Il Paese Invisibile osserva, attonito e sono veramente in pochi, finora, coloro che fanno l’opzione di ascoltarne l’assordante silenzio.
Il Paese Invisibile esiste, resiste e persiste. In mancanza di intellettuali che hanno svenduto al miglior offerente quanto loro corrispondeva per missione, il popolo del Paese Invisibile ha imparato a memoria un detto tramandato di generazione in generazione. Tutto ciò che si fa senza di Lui è, in definitiva, contro di Lui.
Padre Mauro Armarino racconta la vita in Niger dopo il golpe

“Se scoppia la guerra, il Niger sarà distrutto. I proiettili non risparmieranno la popolazione, che sarà la più colpita. Sappiamo quando una guerra inizia, ma mai quando finisce. Guardate la Libia. Questa guerra distruggerà la coesione sociale e il Niger diventerà ingestibile, chiunque lo governi”: così dichiarava l’arcivescovo di Niamey, mons. Laurent Lompo, a pochi giorni dall’avvenuto golpe di Stato nel Niger nella scorsa estate.
‘Vietato passare’ in Francia

‘Vietato Passare – La sfida quotidiana delle persone in transito respinte e bloccate alla frontiera franco-italiana’ è il titolo del nuovo rapporto di ‘Medici senza Frontiere’ sul tema dei migranti a Ventimiglia sulle condizioni di centinaia di persone migranti in transito nella città, che cercano ogni giorno di attraversare il confine italo-francese e raggiungere altri paesi europei.
Amnesty International: dal Sudan notizie preoccupanti

Percorsi liberi e sicuri per chi fugge dal conflitto in Sudan: è la richiesta che Amnesty International rivolge agli stati che confinano con il Sudan, affinché annullino immediatamente le restrizioni all’ingresso per chi è in fuga e assicurino protezione e incolumità alle quasi 500.000 persone fuggite.
Nador: frontiera della speranza

‘Los niños son la esperanza de este mundo’ (i bambini sono la speranza di questo mondo). Grande, attraente, coloratissimo, questo enorme disegno si spalanca a voi all’entrata della chiesa di Nador. Siamo sulla riva mediterranea del Marocco, nella regione berbera del Rif. Seguono dei nomi: Kadiatou, Sara, Zaineb… tutti subsahariani.