Conclave, la parola chiave della storia infinta per capire lo sconquasso 60SA

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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 05.12.2022 – Ivo Pincara] – Un articolo giornalistico abitualmente è costituito da un cappello iniziale molto breve che riassume la notizia in poche battute, seguito da un corpo che tratta la notizia nel dettaglio e da una conclusione che può sia contenere indicazioni sugli sviluppi della vicenda sia qualche commento sul fatto da parte di autorità. Quindi, abitualmente leggo dopo il cappello iniziale la conclusione, anche pensando all’espressione latina in cauda venenum. Letteralmente significa “il veleno nella coda”. Assieme ad acer, che significa “finale amare” viene spesso usato a contrasto della locuzione di significato opposto dulcis in fundo, che significa “il dolce in fondo”, per indicare qualcosa di bello (o, antifrasticamente, di brutto) che arriva ultimo e inatteso.

L’origine della espressione in cauda venenum è medioevale, quando il veleno rappresentava uno strumento efficace per risolvere in maniera poco diplomatica controversie e criticità (come oggi i giornalisti, con pochissime eccezioni, spargono il veleno sui media). La frase nasce riferendosi allo scorpione che in sé sarebbe poco pericoloso, ma ha per l’appunto una coda altamente velenosa. Nel senso traslato la locuzione viene usata quando un oratore inizia un discorso in maniera melliflua, piazzando alla fine la stoccata finale. Viene spesso riferito anche a Marziale, per indicare la natura dei suoi epigrammi caratterizzati dal presentare una situazione, con “stoccata” satirica conclusiva.

In questo caso intendiamo che è rilevante l’ultima parola dell’editoriale di Lucetta Scaraffia su La Stampa, Conclave. Ecco, tutto lo sconquasso vaticano che ci tiene occupati dal 2019, con la cacciata del Cardinale Angelo Becciu e il processo 60SA al Tribunale vaticano, trova il suo riassunto e ragion d’essere in questa parola.

Primo, il Papa ha privato il Cardinal Becciu, senza straccio di prova a seguito di un articolo de L’Espresso sulla sua scrivania, dalle sue cariche curiali e dei diritti e prerogative cardinalizie (salva poi essere riammesso agli incontri cardinalizi).

Poi, i magistrati vaticani hanno imputato il Cardinal Becciu (autorizzato dal Papa) per un serie di reati improbabili e inverosimili, e citato in giudizio.
Quindi, in violenza del principio della presunzione di innocenza fino a sentenza passata in giudicato (significa che non può essere più modificata, quando sono esaurito tutti i mezzi possibili per chiedere un riesame del caso) è stato sommariamente messo alla gogna pubblica, coperto con pece e piume, giudicato, condannato, giustiziato e le sue ceneri dispersi, per mezzo stampo.

Perché il Cardinal Becciu in un Conclave non ha da entrare.

Riportiamo l’articolo di Lucetta Scaraffia su La Stampa, seguito dal riassunto degli ultimi tre Udienze [38ª, 39ª e 40ª) del processo vaticano sulla gestione di fondi della Segreteria di Stato, con l’articolo Processo Palazzo di Londra, c’è falsa testimonianza? a firma di Andrea Gagliarducci per ACI Stampa, da cui rileviamo anche le ultime parole: un processo tendenzialmente nullo e di una nota Come un castello di carte sono cadute tutte le accuse contro Becciu. Era una macchinazione a firma di Sante Cavalleri per Faro di Roma, con gli ultimi parole: interrogativi sull’imparzialità degli inquirenti.

Nonostante le evidenze che dovrebbe consigliare a tirare il sipario, i magistrati vaticani vanno avanti ad oltranza-

Perché il Cardinal Becciu in un Conclave non ha da entrare.

A conclusione riportiamo l’articolo Vatileaks non è finito. Potrebbe non esserlo mai che Andrea Gagliarducci scrisse 8 ottobre 2012. Ripronendo questo articolo di 10 anni fa, Gagliarducci osserva: «Ho scritto questo editoriale sul primo processo Vatileaks. Anche se ero più giovane, e di certo non scriverei le cose allo stesso modo ora, credo di aver generalmente centrato il punto e visto bene cosa ha portato alla situazione attuale. “La questione – ho scritto – non è se qualcuno vorrebbe vedere Papa Benedetto XVI ucciso o emarginato. Il vero problema è l’indifferenza verso la Chiesa. La scarsa comprensione della sua missione, riducendola a una mera struttura di potere. Per questo Vatileaks non è finita. Potrebbe non esserlo mai”».

Infatti seguì il processo Vatileaks 2. Papa Benedetto XVI rinunciò e fu eletto Papa Francesco, mentre la stampa che era generalmente contro Papa Ratzinger oggi è generalmente pro Papa Bergoglio, con sempre la stessa “indifferenza verso la Chiesa”. E arrivò il processo 60SA, voluto da Papa Francesco e in cui intervenne pesantemente. Poi, riappare come dal cilindro di un prestigiatore, Francesca Immacolata Chaouqui, condannata nel Vatileaks 2 e per proprio ammissione mai rimasta inattiva, in particolar modo nei confronti del Cardinale Angelo Becciu. E anche questa volta, l’importanza sta nelle ultime parole dell’articolo che ne sono anche il titolo: Vatileaks non è finita. Potrebbe non esserlo mai. E la parola chiave è, oggi come allora, conclave.

Perché il Cardinal Becciu in un Conclave non ha da entrare.

E dopo aver letto tutto scritto qui (e quello che abbiamo scritto dal 26 novembre 2019, aperta sei giorni prima, non è difficile capire il perché. Dice un proverbio indiano: «Se davanti a te vedi tutto grigio, sposta l’elefante!».

Francesco, Becciu e il giallo infinito
Lucetta Scaraffia
La Stampa, 2 dicembre 2022

Diciamo la verità: il Vaticano dà grandi soddisfazioni ai lettori di gialli che si sono abituati da tempo a vederlo al centro di complicate storie criminali. La realtà, infatti, sta superando di gran lunga la fantasia, aprendo scenari che un onesto giallista non avrebbe mai osato neppure immaginare. Innanzi tutto per la presenza di inquietanti figure femminili che sembrano avere un ruolo centrale nelle vicende giudiziarie al di là delle mura leonine.

L’occasione di queste riflessioni è data dalle ultime notizie riguardanti il lungo e travagliato processo a carico del Cardinale Becciu, in realtà innestato su un altro processo relativo alla nota faccenda della compravendita di uno stabile di lusso a Londra per la quale sarebbero stati utilizzati quelli che vengono definiti i soldi del Papa per i poveri. Faccenda in cui per la verità Becciu svolge un ruolo marginale, tanto è vero che il processo a suo carico stava andando molto male per l’accusa che vedeva la sua istruttoria smentita ogni giorno da testimoni e documenti.

Sicché i giornali, dopo avere all’inizio del caso titolato in prima pagina, se ne stavano ormai disinteressando, come del resto fanno sempre quando il processo smentisce le accuse lanciate dai media, cioè da loro stessi.

Gli imputati, insomma, stavano tranquillamente avviandosi – tutto lasciava prevedere – verso l’assoluzione. È a questo punto che per riattizzare l’interesse mediatico vengono però diffuse nuove notizie su telefonate di Becciu al Papa, purtroppo registrate all’insaputa del pontefice, nonché altre registrazioni di colloqui privati del cardinale con i suoi familiari nei quali ci si esprimeva, diciamo con una certa disinvoltura, nei confronti del Vicario di Cristo in terra.

Niente in realtà di attinente davvero alle questioni processuali, ma certo una discreta propaganda negativa nei confronti di Becciu. La diffusione delle telefonate serve comunque a concentrare nuovamente l’attenzione su di lui, cioè sull’imputato, e a distrarre dalla lunghissima deposizione del suo grande accusatore, Alberto Perlasca, che si stava mostrando molto in difficoltà davanti alle incalzanti domande della difesa. Soprattutto, alcune risposte di Monsignor Perlasca stavano rivelando che molte delle sue affermazioni – riportate in un memoriale cardine dell’accusa – erano state suggerite dall’esterno, anche se l’interessato non ricordava da chi.

Ma arriva l’ennesimo colpo di scena: scoppia la bomba delle donne fino a quel punto nell’ombra. Figure femminili che nessuno poteva neppure sospettare così decisive in questo universo di soli uomini. Ecco dunque la Signora Genoveffa Ciferri, amica schierata a strenua difesa di Perlasca, la quale, vedendo il suo protetto agitato e imbarazzato, stretto fra le domande su chi gli avesse insufflato cosa dire da un lato e la consegna del silenzio dall’altro, prende la penna e scrive a Diddi, il promotore di giustizia vaticano (cioè il pubblico ministero), una lettera stupefacente. È appunto la notizia di ieri.

Dopo avere giustificato la rivelazione che si accinge a fare con il suo buon cuore e con i buoni sentimenti che la animano, Ciferri rivela che è stata proprio lei a manipolare l’amico prelato, Perlasca, appunto, ma su consiglio di un’altra donna già coinvolta in oscure vicende vaticane e processata, la notissima Francesca Immacolata Chaouqui.

Sarebbe stata insomma Chaouqui, molto vicina ai magistrati, a suggerire a Ciferri le risposte che a sua volta Perlasca doveva dare. Lei quindi ad aver pilotato la vicenda contro Becciu, sempre promettendo in cambio la totale assoluzione di Perlasca tanto caro alla Ciferri. Quest’ultima, per la verità, qualche dubbio sul vero mandante ultimo dei consigli ricevuti dichiara di averlo avuto, e soprattutto confessa il proprio imbarazzo per avere mentito a Perlasca dicendogli che i suggerimenti venivano direttamente dal magistrato invece che da Chaouqui, come ora ammette. Solo di recente, esasperata dal comportamento alquanto imbranato di Perlasca stesso durante il suo ultimo interrogatorio, gli avrebbe confessato la verità: chi la ispirava altri non era che Chaouqui.

Decide allora di raccontare questa versione dei fatti in una lettera a Diddi, che lo stesso destinatario rende pubblica. E così, se già il processo, per come si era svolto, non dava certo molte garanzie di perseguire una giustizia super partes, adesso la situazione precipita. Si scopre infatti che due donne – un’anziana amica del prelato, e una signora diciamo molto discussa – tengono in pugno non solo i magistrati del tribunale vaticano, manovrando la testimonianza decisiva di Perlasca, ma in definitiva il Papa stesso che afferma di essere in attesa di riscontro processuale prima di sciogliere il malcapitato cardinale da sospetti e accuse.

Cherchez la femme funziona insomma anche dietro le mura dello Stato più patriarcale del mondo? Pare di sì. Anche se al sesso si sostituisce l’affetto materno esibito dall’anziana signora Ciferri. Ma forse, viene da pensare, le due donne potrebbero essere mosse anche dalla soddisfazione di essere proprio loro, due donne apparentemente escluse dal potere, a muovere pedine così importanti, arrivando perfino, chi lo sa, a influenzare un prossimo conclave.

Processo Palazzo di Londra, c’è falsa testimonianza?
Le ultime tre udienze del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato hanno lasciato aperti i dubbi su una eventuale falsa testimonianza del principale accusatore. E intanto torna una vecchia conoscenza
di Andrea Gagliarducci
ACI Stampa, 3 dicembre, 2022


Monsignor Alberto Perlasca, per 12 anni Capo dell’Ufficio Amministrazione della Segreteria di Stato, ha rigettato la definizione di super-testimone, sebbene sulle sue dichiarazioni si fossero basate molte delle ricostruzioni o delle teorie dei magistrati vaticani. Ma, dopo queste ultime udienze, la sua credibilità come testimone viene messa a dura prova. Così come restano dubbi su Gianfranco Mammì, Direttore Generale dell’Istituto delle Opere di Religione, che fu colui che diede il via alla procedura che ha portato al processo con una denuncia.

Nella 40ª Udienza, Mammì è stato sentito per la prima volta, si è contraddetto in alcune circostanze. Perlasca, invece, è stato sentito ancora una volta per chiarire alcune parti della sua testimonianza che risultavano poco chiare, e persino inconciliabili con la realtà. L’interrogatorio di Mammì lascia delle domande aperte, ma è iniziato e finito in quel momento. Quello di Perlasca, invece, ha aperto uno scenario che si poteva considerare insospettato. Ma andiamo con ordine.

Il processo

Come è noto, il processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato include tre filoni di indagine: quello sull’investimento della Segreteria di Stato su un immobile di lusso a Londra, non l’unico tra l’altro; quello sulla vicenda cosiddetta “Sardegna”, e cioè su un presunto peculato del Cardinale Angelo Becciu, al tempo in cui era sostituto della Segreteria di Stato, in favore della sua famiglia per delle donazioni della stessa Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri, sua diocesi di provenienza; e infine il filone che riguarda Cecilia Marogna, la sedicente esperta di intelligence che è stata “ingaggiata” dalla Santa Sede e coinvolta in trattative per la liberazione di alcuni ostaggi.

Tre filoni di indagine portano, ovviamente, ad avere molti dettagli da seguire, all’interno del processo. C’è, però, un quadro generale che è importante rendere.

Monsignor Perlasca

Quando la scorsa settimana Monsignor Perlasca era stato chiamato a testimoniare, per quattro volte Giuseppe Pignatone, Presidente del Tribunale Vaticano, lo aveva invitato a fare attenzione alle sue dichiarazioni, perché poteva essere incriminato per falsa testimonianza. In particolare, c’era un episodio tutto da definire: nel suo memoriale, Perlasca raccontava che il Cardinale Becciu aveva deposto contro di lui, ma al momento del memoriale non c’erano stati attacchi personali di Becciu nei suoi confronti, ma nemmeno una deposizione di Becciu. Perlasca non aveva detto chi gli aveva suggerito che c’era stata una deposizione del cardinale.

Lo ha però rivelato il Promotore di Giustizia, Alessandro Diddi. Il 30 marzo, nel momento in cui sarebbe dovuto essere interrogato Monsignor Perlasca, Diddi ha reso note una serie di chat, ricevute alla fine della settimana precedente e per questo non agli atti, inviatigli dalla Signora Geneveffa Ciferri. Questa era l’amica di famiglia di Perlasca che ha lasciato anche al monsignore una nuda proprietà.

La signora ha rivelato al Promotore di Giustizia vaticano che tutti i passi che ha consigliato di fare a Monsignor Perlasca, inclusa la famosa cena al Ristorante Lo Scarpone con il Cardinal Becciu, gli erano stati suggeriti da quello che il monsignore conosceva come “un anziano magistrato”, ma che altri non era che Francesca Immacolata Chaouqui, già membro della pontificia commissione referente di studio e di indirizzo sull’organizzazione della struttura economico-amministrativa (COSEA) e poi processata nell’ambito del procedimento cosiddetto Vatileaks 2.

Chaouqui non solo avrebbe suggerito alla Ciferri cosa dire a Perlasca di fare, passo dopo passo, ma avrebbe anche detto di farlo in nome dei magistrati vaticani, dimostrando una conoscenza precisa di quello che accadeva dentro le Mura Vaticane.

Ciferri lo ha spiegato a Diddi con parole che lasciano pensare ad una manipolazione, ma certo resta insoluta la domanda sul perché Chaouqui abbia preso questa iniziativa, e anche di come sia venuta a sapere che c’era un procedimento vaticano in corso, considerando che al tempo in cui cominciò i contatti ne potevano essere a conoscenza solo gli inquirenti e i gendarmi vaticani che conducevano le indagini.

Monsignor Perlasca alla fine ha testimoniato anche di aver ricevuto minacce dalla stessa Chaouqui, ha riprodotto chat continue che gli venivano inviate dalla sua utenza in termini minacciosi, ha notato di non aver bloccato il numero solo perché la stessa Chaouqui lo aveva intimato di non farlo.

Ed è venuto fuori anche che il 4 febbraio 2021 Geneveffa Ciferri ha telefonato allo studio di Diddi, lamentando delle minacce e della presenza ingombrante della Chaouqui, e che il Promotore di Giustizia abbia riferito della telefonata in una nota ad uso interno inviata alla Gendarmeria. E poi, il 1° marzo 2022, c’è Perlasca che avvisa la Gendarmeria di sentirsi minacciato dalla Chaouqui.

Sono dettagli che sono rimasti finora fuori dal processo, e sul quale dunque le difese non hanno potuto fare il controesame, ma che gettano diverse ombre sulla testimonianza di Perlasca, che tra l’altro ha prima riferito di aver ricevuto un solo messaggio dalla Chaouqui, poi una quindicina, anche se molto scaglionati nel tempo.

Su queste nuove evidenze arrivate nel cellulare di Diddi, 126 messaggi di cui 119 con omissis, si gioca la credibilità del teste Perlasca.

Anche perché c’è poi la questione della cena a Lo Scarpone, e del sospetto che nel ristorante ci sia stata una attività di intercettazione da parte vaticana senza informare la polizia italiana. Non ci sono controprove di questo sospetto, solo che Perlasca dicesse che si era convinto nella sua testa che registrassero. Perlasca ha comunque dichiarato: “Io dovevo solo informare”.

Nell’anno venturo, saranno sentite Chaouqui e Ciferri. Colpisce, però, il fatto che Chaouqui dimostrasse di conoscere così bene il procedimento e le situazioni vaticane da essere in grado di dire a Ciferri quando Perlasca rientrava a casa. Chi forniva le informazioni alla Chaouqui? Era implicata la Gendarmeria?

Ed è un dato da notare che Chaouqui, nel luglio 2021, ha dato dichiarazioni spontanee alla Gendarmeria, e che il suo avvocato era lo stesso Sammarco da cui si fa rappresentare Perlasca nella sua funzione di parte civile per subornazione.

Colpiva anche il fatto che all’inizio dell’interrogatorio di Perlasca fossero presenti diversi gendarmi di quelli sentiti per una testimonianza, incluso quello Stefano De Santis che ha gestito le indagini e che non sarebbe potuto essere presente perché deve ancora terminare il controesame. Era previsto anche un interrogatorio di De Santis questa settimana, rinviato per sue “improrogabili ragioni di servizio”.

Sono tutti dati su cui riflettere. Pignatone, cercando di andare oltre, è arrivato a chiedere anche a Perlasca perché avrebbe dovuto ricevere difesa da Becciu, e Perlasca si è limitato a dire che Becciu non aveva fatto niente per lui. Poi, è stato chiesto perché, nonostante le cose che diceva di Tirabassi, Perlasca non gli avesse mai bocciato una proposta di transazione finanziaria.

Se questa, comunque, è la testimonianza chiave del processo, è chiaro che è inquinata al limite da una esuberanza dell’amica che voleva aiutare a tutti i costi ne ha influenzato i passaggi processuali.

Quanto sarà considerato credibile monsignor Perlasca in sede di sentenza?

Mammì

Il 1° dicembre, è stato finalmente sentito il Direttore Generale dello IOR, Gianfranco Mammì. È stata sua la segnalazione che ha dato il via al processo. La Segreteria di Stato aveva chiesto all’Istituto di Opere di Religione di rilevare il mutuo acceso presso Cheyne Capital con un altro prestito, che sarebbe servito a entrare in pieno possesso del palazzo di Londra e avrebbe anche permesso allo IOR un piccolo profitto.

Dopo vari studi, lo IOR aveva acconsentito al prestito, salvo poi fare marcia indietro tre giorni dopo. Nel mezzo, lo stesso Peña Parra [Sostituto della Segreteria di Stato] aveva fatto pedinare il Direttore dello IOR Mammì.

Nell’interrogatorio, Mammì ha detto che lo IOR poteva fare prestiti solo in casi specifici, e che aveva persino avvertito una pressione a fare il prestito, anzi, che l’Autorità di Informazione Finanziaria non si era comportata in maniera terza, ma come parte in causa, facendo pressioni perché lo IOR accettasse di fare una operazione che a suo dire non aveva adeguate coperture.

Poi però a Mammì è stato letto un documento che dimostrava come lo IOR fosse autorizzato a fare prestiti, sempre in determinate condizioni, e lui ha sottolineato che era vero, ma che le condizioni non si erano verificate.

Quindi, è stato letto dalle difese un altro documento che dava parere positivo sul prestito alla Segreteria di Stato, pur facendo emergere qualche criticità. “Voi potete dire che quel parere tecnico è positivo, ma per me è negativo”, è stata la risposta, secca, di Mammì.

Quindi, Mammì ha detto di aver partecipato ad una riunione in Segreteria di Stato dopo aver fatto la denuncia per l’operazione del palazzo di Londra, e di non aver detto niente per riservatezza. Quando però gli è stato chiesto se avesse detto prima della denuncia, ha negato di averlo detto.

È stata una testimonianza a tratti precisa, a tratti aggressiva, con diverse contraddizioni e anche opinioni personali. Resta da comprendere perché, se tuti i pareri erano a favore, Mammì aveva deciso piuttosto di denunciare. Tanto più che lo IOR ha dei precedenti di prestito più ingenti, come quello per il monastero di Dalia in Croazia, e dunque non ha un pregiudizio storico nei confronti del sostegno.

Resta anche da comprendere se, dati i bilanci sempre più in discesa nonostante una narrativa che punta a mostrarne la positività, lo IOR avesse la liquidità necessaria per il prestito. Altrimenti, l’intera operazione potrebbe definirsi come un depistaggio delle autorità vaticane nel raccogliere prove per le indagini.

Resta che l’interrogatorio di Mammì ha lasciato più dubbi che risposte. Sono dubbi che ci limitiamo a fornire al lettore.

Le altre testimonianze

In questi giorni sono stati anche sentiti Di Iorio, officiale e notaro della Camera Apostolica, e Luca Dal Fabbro, manager molto noto. Il primo, cui era stato chiesto di apporre una firma, ha detto di aver semplicemente apposto la firma, senza nemmeno conoscere il contenuto dei fogli. Il secondo ha spiegato che era stato chiamato dalla Segreteria di Stato prima a valutare la situazione di Londra, tanto che fu lui a far sapere che le azioni del broker Gianluigi Torzi, che aveva rilevato la gestione, erano le uniche con diritto di voto. Poi, aveva anche consigliato la Segreteria di Stato per altri immobili che aveva a Londra, e infine aveva rinegoziato i prestiti.

E poi c’è stato Fabio Perugia, consulente, che aveva presentato un cliente alla Segreteria di Stato, Valeur, che voleva rilevare il palazzo di Londra e che lamentava che ogni offerta venisse rimbalzata. Era lo stesso cliente di Perugia, che per circa sei mesi era stato socio di Torzi, a lasciare intendere che questo avvenisse per del malaffare in Segreteria di Stato, con un gioco che portava alcune persone coinvolte a prendere delle percentuali.

Da segnalare, infine, la testimonianza del Cardinale Oscar Cantoni sulla presunta subornazione di Becciu nei confronti di Perlasca. Cantoni ha testimoniato che Becciu gli ha chiesto di parlare a Perlasca, ma senza minacciare alcunché.

Alcune conclusioni

Come visto, sono molte le domande che restano aperte. La prima: quale è la credibilità del testimone Perlasca? Che ne porta con sé un’altra: quale è il peso, e soprattutto con chi parla, Francesca Immacolata Chaouqui in Vaticano? Chi passa a lei le informazioni (ad esempio) degli accessi, che sono in mano quasi esclusivamente alla Gendarmeria?

Poi: quale è il ruolo dello IOR nella vicenda? Se l’AIF ha forse peccato di eccesso di istituzionalità nella volontà di aiutare un ente sovrano, perché lo IOR non ha avuto la stessa preoccupazione e perché ha mostrato una preoccupazione che i pareri tecnici non avevano dato?

E infine: c’è un rischio di mettere in questione la terzietà dello stesso Promotore di Giustizia proprio perché soggetto a ricevere messaggi da parti vicine alle parti in causa? Lo stesso Promotore ha reso nota la situazione riguardante Chaouqui solo prima del secondo interrogatorio di Perlasca, mentre prima dell’inizio dell’altro interrogatorio, con tempistica che potrebbe essere soggetta a domande, aveva portato le carte del processo di Sassari e fatto sentire la telefonata di Becciu al Papa, anche se queste erano parte di un altro procedimento in Italia e non parte del processo vaticano.

Sono domande che restano lì, mentre il procedimento continua. Non si quando questo finirà. Si sa, però, che se non darà risposte a queste domande, sarà un processo tendenzialmente nullo.

Come un castello di carte sono cadute tutte le accuse contro Becciu. Era una macchinazione
di Sante Cavalleri
Faro di Roma, 1° dicembre 2022


“Quando il Cardinale Becciu, nel luglio 2021, non appena conosciute le accuse, evocava oscure macchinazioni in suo danno, affermava la verità”. Lo rivendicano gli avvocati Fabio Viglione e Maria Concetta Marzo, difensori del porporato a conclusione dell’interrogatorio di mons. Alberto Perlasca, che ha confessato di aver confezionato il memoriale d’accusa, poi consegnato ai magistrati e che diede avvio alle indagini a carico del Card. Becciu, con l’aiuto di due signore, una delle quali si faceva passare addirittura per anziano magistrato in grado di orientare le indagini.

Perlasca, spiegano i due legali, “mosso da risentimento, venne portato a credere, contrariamente al vero, che il Cardinale avesse reso dichiarazioni accusatorie nei suoi confronti, tanto da determinarlo a questa incredibile iniziativa, in danno della verità, della genuinità dell’indagine e dell’onorabilità di Becciu”.

“La forza della pubblica udienza e la consueta attenzione del Tribunale hanno permesso di far emergere l’esistenza di un quadro sconcertante di falsità e menzogne, talvolta davvero surreali, ai danni del cardinale, al solo fine di coinvolgerlo a tutti i costi nell’indagine”, sottolineano gli avvocati Viglione e Marzo per i quali, infine, “dalle parole del card. Cantoni, è emersa l’assoluta inesistenza dell’ipotesi di subornazione ai danni di mons. Perlasca”. Infatti, “Becciu non chiese mai a Cantoni di intervenire e condizionare la sua testimonianza, ma si limitò soltanto a rappresentargli il proprio disagio, derivante dalle false accuse mosse da Perlasca, ampiamente riportate, in quel periodo, dagli organi di stampa”.

Insomma le accuse al Card. Becciu sono cadute come un castello di carte. Anche se per ora il Tribunale vaticano ha deciso di continuare il processo e ha respinto la richiesta di sospenderlo e rinviarlo a data da destinarsi come richiesto da alcune difese alla luce delle chat e dei messaggi depositati ieri dal Promotore di Giustizia Alessandro Diddi, in parte da corrispondenze intercorse tra Francesca Immacolata Chaouqui e Genoveffa Ciferri, amica del testimone Mons. Alberto Perlasca. Sulla base dei nuovi documenti, Diddi ha aperto un nuovo fascicolo d’indagine e la Chaouqui e la Ciferri saranno sentite in un’udienza all’inizio del 2023 e forse sottoposte a confronto.

Durante l’udienza è stata letta una parte di un lungo messaggio inviato il 26 novembre da Genoveffa Ciferri a Diddi, nel quale, a proposito degli scambi da lei intrattenuti con Francesca Chaouqui, dice al promotore di giustizia che “millantava una stretta collaborazione con Lei riguardo alle indagini, col promotore Milano, con la Gendarmeria e il Santo Padre stesso, i riscontri che forniva e le informazioni su di Lei e gli altri, erano così puntuali e dettagliate che non facevo fatica a crederle”.

E ancora, ha confidato la Ciferri a Diddi: la Chaouqui “mi informava in tempo reale perfino dei suoi spostamenti (di Diddi, ndr) e di tutto ciò che diceva, riguardo le indagini in corso, e anche dei movimenti dello stesso Pontefice”. Affermazioni come queste, è stato detto in aula, sono motivo di turbamento perché pongono interrogativi sull’imparzialità degli inquirenti.

Tornando dieci anni indietro…
e pensare ad oggi

Vatileaks non è finita. Potrebbe non esserlo mai
di Andrea Gagliarducci
Monday Vatican, 8 ottobre 2012


Il caso Vatileaks non si chiude con il processo a Paolo Gabriele, Aiutante di Camera di Papa [Benedetto XVI] accusato di furto aggravato, condannato per aver rubato documenti privati del pontefice e averli fatti trapelare a un giornalista, e condannato a 18 mesi di reclusione (ma un indulto papale è probabile [infatti fu perdonato da Papa Benedetto XVI, che gli fece visita in cella il 22 dicembre 2012; dopo il licenziamento dal suo ufficio, la Santa Sede mantenne comunque a Gabriele una casa fuori dal Vaticano e un posto di lavoro in una cooperativa sociale operante per l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù accanto alla Basilica di San Paolo fuori le Mura, di cui dal 23 novembre 2012 il Cardinale James Michael Harvey è l’arciprete, creato cardinale il 22 novembre 2012)]. Forse Vatileaks non finirà mai. Non solo perché in Curia ci sono sempre stati – e ci saranno sempre – malumori, ma perché la storia di Paolo Gabriele conferma che il Vaticano è cambiato. Siamo in una nuova era. Il vecchio sistema del club maschile è fallito. Una volta si poteva essere assunti in Vaticano solo dopo un attento esame. Uno dovrebbe essere affidabile e raccomandato da persone fidate. Nonostante le piccole o reali lotte di potere, tutti si sono resi conto di far parte della più grande istituzione del mondo. Ma pensare che Paolo Gabriele – già lavapavimenti presso la Segreteria di Stato – sia riuscito a diventare il primo Aiutante di Camera di Sua Santità in assoluto dovrebbe farci riflettere.

Quanto abbiamo sentito durante il brevissimo processo che si è svolto nello Stato della Città del Vaticano la scorsa settimana ha dimostrato quanto fosse pericoloso e imprudente assumere Paolo Gabriele per un incarico così delicato. Consigliato da Stanisław Dziwisz – ora cardinale e Arcivescovo di Cracovia, già Segretario particolare di Giovanni Paolo II – e da Mons. James Harvey – un tempo Assessore alla Segreteria di Stato e ora Prefetto della Casa Pontificia – Paolo Gabriele ha affinato negli anni la sua abilità nel copiare e rubare documenti. (…)

Paolo Gabriele non è un capro espiatorio. È certamente qualcuno di cui è facile approfittare. Lo si legge in entrambe le perizie psichiatriche (quella richiesta dal legale di Paolo Gabriele e quella richiesta dal Promotore di Giustizia vaticano in sede di istruttoria) effettuate per analizzare se Paolo Gabriele fosse o meno insano de mente. Il maggiordomo conosce e soppesa le conseguenze delle sue azioni. Eppure, nella visita psichiatrica, il profilo di Paolo Gabriele è quello di una persona insicura con un bisogno costante di incontrare l’approvazione di persone che considerava di una certa importanza. (…)

Interrogato, Paolo Gabriele quasi si vanta. Racconta di aver copiato documenti davanti a tutti nel suo ufficio – aveva una scrivania nella stanza dei due Segretari particolari pontifici – perché nessuno sospettasse di lui, visto che le sue intenzioni «non erano malvagie». Spiega di aver «aperto il suo cuore» a Mons. Gänswein sui suoi timori riguardo al Corpo della Gendarmeria Vaticana. Ha infatti una sorta di ossessione per i gendarmi vaticani. Qualcuno ha notato che è la fissazione di una persona che non potrebbe diventare gendarme. (…)

Discutibile anche la linea difensiva di Paolo Gabriele. Vuole dimostrare che l’Aiutante di Camera del Papa è stato incastrato. (…) Paolo è vittima di un complotto. È l’eroe incastrato, che si prende la colpa con calma.

Paolo Gabriele non è un eroe. È solo uno dei tanti impiegati vaticani. Molti di loro gestiscono documenti. Non tutti rubano documenti. Molti di loro possono avere domande sulle situazioni, persino essere scioccati. Ma cercano di essere fedeli all’istituzione in cui hanno prestato giuramento. È anche vero che altri farebbero come Paolo Gabriele, magari per guadagnare qualche soldo in più, o per altri motivi. Esiste, infatti, una «banda di scontenti», una sorta di gruppo formato da impiegati e prelati vaticani. Non nascondono il loro malcontento, e spesso parlano di come «aiutare il Papa», che significa creare problemi al Papa.

L’esistenza di questa banda di malcontenti dimostra che il vecchio sistema del club maschile del Vaticano ha fallito. Nel corso degli anni sono stati assunti in Vaticano impiegati, funzionari e persino sacerdoti mal selezionati, che poi hanno potuto avanzare di carriera, passo dopo passo. Persone mediocri sono riuscite a raggiungere incarichi molto alti, e poi hanno cooptato persone simili a loro. Ci sono quasi tre di queste generazioni. Il Vaticano deve davvero rivedere le sue pratiche di assunzione.

Gabriele ha persino menzionato un ambiente favorevole. Chi ha influenzato Paolo Gabriele? Parla dei Cardinali Sardi e Comastri; sulla collaboratrice di lunga data di Joseph Ratzinger, Ingrid Stampa; su mons. Cavina, vescovo di Carpi, a lungo funzionario della Segreteria di Stato. I primi tre – insieme a Joseph Clemens, che Paolo Gabriele stranamente non cita – sarebbero stati gli ispiratori di Vatileaks in un articolo su Die Welt che ha influenzato l’opinione pubblica. Questo articolo – il cui contenuto è stato ufficialmente smentito dalla Segreteria di Stato – è stato escluso dal processo su richiesta del legale di Paolo Gabriele. Il maggiordomo lascia cadere questi nomi e poi prende le distanze dalle conseguenze. Il giorno dopo la testimonianza, Cristiana Arru sostiene che il maggiordomo è «infastidito» dal fatto che i media abbiano indicato queste persone come suoi complici.

Forse bisognerebbe cercare altrove gli ambienti abilitanti di Paolo Gabriele. Molto più alto, e anche nelle riunioni quotidiane. Magari in qualche bar intorno al Vaticano dove la banda dei malcontenti si raduna per lamentarsi, e dove un cardinale potrebbe dare una pacca sulla spalla a qualcuno con disinvoltura e fargli sapere che può essere un eroe, che può avere un ruolo per salvare il Papa dai suoi ottusi collaboratori. Chi ha sedotto Paolo Gabriele? Chi aveva motivi per farlo? Molti sono quelli che possono nutrire rancore contro questo Pontificato, e contro Bertone, Segretario di Stato. Dopo quasi 30 anni, la macchina dei privilegi è stata smantellata dal Papa e da Bertone. Hanno ricostruito le strutture e dato potere ad altre persone.

Una volta, queste lotte interne avvenivano all’interno del Vaticano, invisibili fuori dalle Sacre Mura. La fedeltà all’istituzione è venuta sopra a tutto. C’era una grande consapevolezza dell’importanza della Chiesa nel mondo. Non è più così.

Vatileaks fa luce su come i presuli antepongano spesso i loro interessi personali a quelli della Chiesa. Si è perso il senso di essere Chiesa. Il carrierismo è cresciuto – e non è un caso che il Papa [Benedetto XVI] abbia tenuto diversi discorsi e omelie incolpando il carrierismo. Molto si potrebbe apprendere dal rapporto della Commissione cardinalizia [segretato] nominata dal Papa per indagare su come siano trapelati i documenti. I tre cardinali – Herranz, Tomko e De Giorgi – hanno guardato all’«ambiente favorevole». Sono giunti ad alcune conclusioni, che hanno condiviso personalmente con il Papa. La questione non è se qualcuno vorrebbe vedere Papa Benedetto XVI ucciso o emarginato. Il vero problema è l’indifferenza verso la Chiesa. La scarsa comprensione della sua missione, riducendola a una mera struttura di potere. Per questo Vatileaks non è finito. Potrebbe non esserlo mai.

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