Sua Riverita Eccellenza dopo 5 anni ci riprova con la sua pataccata – Parte 4
Prosegue dalla Parte 3: QUI.
[Korazym.org/Blog dell’Editore, 09.11.2022 – Vik van Brantegem] – Con Vatican Girl: la scomparsa di Emanuela Orlandi, la miniserie diretta da Mark Lewis, con l’accompagnamento di Andrea Purgatori e diffusa da Netflix, è stato riscaldato (male) anche una patacca vecchia diffusa il 18 settembre 2017 da Emiliano Fittipaldi. «Quattro appuntamenti per mettere insieme i pezzi di un mosaico impossibile» (ANSA). Tanto clamore mediatico a livello internazionale fondato sul nulla, creato con il disordine informativo.
«Non risulta che sia stato nascosto nulla,
né che vi siano in Vaticano “segreti”
da rivelare sul tema»
(Padre Federico Lombardi, S.I.).
Già cinque anni fa, in occasione dell’uscita del suo libro Gli impostori, scritto su quella falsa-riga, ho scritto tanto – come anche in generale sul “giallo” della scomparsa di Emanuela Orlandi in generale – sul mio diario Facebook (non avevo ancora aperto il mio Blog dell’Editore). Prendendo spunto dal clamore succitato da Calenda per le pataccate riciclate, riporto quanto ho pubblicato su Facebook cinque anni fa, sulla patacca “regina” di Fittipaldi, in ordine cronologico di pubblicazione, concludendo con la mia Nota Facebook La “pataccata” di Fittipaldi. Se vero o falso pari sono… un punto di svolta (o di non ritorno) per il giornalismo italiano, che riassume un po’ tutto. Come fanno i pataccari, anche uno smascheratore di patacche può riciclare il suo lavoro del passato, non vi pare? Ci saranno un po’ di ripetizioni, ma repetita iuvant (e anche il pataccaro si ripete sempre).
Terzo giorno
20 settembre 2017
Il post
Non è da oggi – o a causa della baraonda corrente – che c’è una stratosferica confusione riguardante il mestiere del giornalista e il ruolo della stampa (quello che è, quello che non dovrebbe essere, quello che si auspica che sia), accompagnata da una povertà nel condurre una disputatio.
Stamane la mia attenzione è stata attirata da una disputa molto interessante sulla bacheca Facebook dell’amico Professore Giovanni Tridente, a seguito di una sua validissima e utilissima analisi [QUI] sull’ultima colpa di scena con la patacca di Fittipaldi nel Caso Orlandi (non dimenticando che anche altri, come ho riferito nelle mie Note, hanno partorito delle analisi importanti).
Quindi, riprendo le argomentazioni, che fanno riflettere comunque, anche se certamente non paragonabile a una disputatio, che è cosa molto diversa.
– “Il factchecking lo si fa su una notizia che si è data al pubblico, da un giornale, come vera. Senza dubitativi. A quel punto la si verifica con gli strumenti del caso e si emette il giudizio. In questo caso, la notizia non è offerta ai lettori come vera, rimane apertissima nei resoconti l’ipotesi che il dossier possa essere stato costruito ad hoc. Ipotesi peraltro altrettanto grave perché apre tutta un’altra seria di scenari. Di che cosa stiamo parlando? Quindi, mi faccia capire quale sarebbe il modo ideale di procedere del suo giornalista tipo: entro in possesso di questo dossier e non lo pubblico perché rimane in piedi la possibilità che sia una polpetta avvelenata (per il Papa magari)? Ma di quale giornalismo sta parlando? Peraltro, lei pubblica la sua analisi su un sito che ha un’idea del giornalismo, diciamo così, stravagante” (M.F.)
– “ Stravagante in che senso? Ho giusto un’ora di treno prima di arrivare a fare una lecture a 50 giornalisti… Anzi, non ho bisogno della sua risposta, ho già collegato lei chi sia e direi assolutamente che lo ‘stravagante’, ad essere magnanimo, è lei, come le ho già spiegato: Per Amore dei Giornali – DataMediaHub – QUI” (Pier Luca Santoro).
– “Ma giovanotto, cosa vuole spiegare” (M.F.).
– “Il mio giornalista (quello normale, non ideale) non demanda ai lettori l’’onere della prova’ circa l’autenticità delle ‘informazioni’ che trasmette, ma fa lui la verifica e se ha dubbi non procede, è anche questione di buon senso e di dignità professionale. Poi se ha letto tutto il mio scritto, sono tanti gli elementi su cui riflettere. Sono in tanti capaci di pubblicare dossier, su ciascuno di noi, palesemente falsi, però intanto li pubblichiamo tanto poi saranno i lettori a mettersi a verificare… è questo il tipo di giornalismo che intende lei piuttosto? A me questo sembra un passacarte (nella migliore delle ipotesi) al servizio di qualcos’altro. Spero di essere stato più chiaro” (Giovanni Tridente).
[Nei 45 anni di Servizio sono stato bersaglio di diversi “dossier”, anche da parte di vaticanisti, che oltretutto garantivo di fare il loro lavoro – se ne erano capaci – nel migliore dei modi, e quindi so di cosa si parla, ex professo]
– “Quindi nel suo giornalismo ‘normale’ se qualcuno produce un dossier falso così dettagliato all’interno della struttura vaticana non se ne dà conto? Temo che lei non abbia mai lavorato in un giornale, non abbia mai svolto la professione giornalistica, non abbia la più pallida idea di come si fa un giornale” (M.F.).
– “Il suo dossier dettagliato viene dall’interno della struttura vaticana? Ne è sicuro? Ha le prove? Lo ha visto preparare? Ha parlato con l’estensore materiale (il defunto Antonetti)? Queste sono le domande che da giornalista ‘apprendista’ mi pongo… certo, c’è sempre da imparare, su questo sfonda una porta aperta: chi mi conosce sa che è il mio motto!” (Giovanni Tridente).
– “Mi dispiace ma non sono per niente d’accordo. Il fact checking è un lavoro che si fa prima di pubblicare. È un dovere nei confronti dei lettori o, almeno, una volta lo era. Altrimenti si aprono i recinti a qualsiasi cosa. Che ci vuole a fabbricare un dossier di questo tipo di ogni argomento? Che facciamo, riempiamo giornali e telegiornali di potrebbe essere vero come no?” (F.C.).
– “F.C. tu almeno sei giornalista?” (Giovanni Tridente).
– “Radiofonica, quindi, secondo il tuo interlocutore, non ho la più pallida idea di come si fa un giornale. Però da giovine ho guardato tutte le puntate di Lou Grant” (F.C.).
– “Menomale, dai” (Giovanni Tridente).
– “Comunque mi sto immaginando Woodward e Bernstein con in mano i Pentagon Papers che pubblicano senza verificare e affermano che il Presidente può essere implicato oppure no: a lui la difesa. Diciamo che, per fortuna, anche per la loro testa, non è andata proprio così” (F.C.).
– “Ma non deve essere il lettore ‘a verificare’. Il lettore legge la notizia, che è considerata dallo stesso che l’ha pubblicata come dubbiosa, l’idea che si fa può andare dall’indignazione, al non crederci per nulla. In mezzo c’è di tutto, ma ci sarebbe stato lo stesso, perché non stiamo parlando di un singolo (è sempre l’errore che si fa), ma di un complesso molto più ampio di persone (complesso che ha dichiarato il caso CHIUSO…). Le verifiche si fanno in sede di indagine, di inchiesta. Ma considerare passacarte chi presenta un nuovo documento (nuovo per modo di dire, era stato presentato a giugno mi sembra) in una inchiesta che sta facendo, e accusare di farlo solo per il tornaconto personale, è accusare allo stesso modo che si condanna. Non gridiamo più per favore al complotto per il complotto” (M.G.).
– “Inchiesta? Quindi con la pubblicazione del libro l’inchiesta si è conclusa, presumo. O è una inchiesta a puntate? Sappiamo già il finale?” (Giovanni Tridente).
– “’Resta da capire da chi’. Tridente, se la fa addirittura lei, la domanda chiave. Chi ha prodotto quel dossier? Una domandina, per così dire, vagamente giornalistica. Comunque il difetto è voler essere troppe cose. Lo so che fa molto figo mettere nel curriculum come mestiere ‘giornalista’, ma lei non lo è. Oppone una tessera da pubblicista che ha zero valore. È invece professore, di questo sia orgoglioso e dia lezioni. Il resto lo lasci a chi del mestiere sa” (M.F.).
– “Per me essere giornalista non è un mestiere, infatti. E data la credibilità che oggi hanno i giornalisti non farebbe manco tanto figo. Però lascio a lei decidere che cosa sono, mica mi offendo?” (Giovanni Tridente).
– “Resta da capire come mai, ‘data la credibilità che oggi hanno i giornalisti’, lei si ostini a mettere ‘Giornalista’ come prima parola (e si immaginerebbe professione) del suo profilo” (M.F.).
– “Rido” (Giovanni Tridente).
– “Anch’io, giovanotto” (M.F.).
– “Keep Calm and #disputafelice” (D.P.).
– “D.P., lei capirà che la disputa non è mai iniziata. Lei, come il Tridente, vedo che (s)comunica. Ma il comunicatore non è un giornalista” (M.F.).
– “Mi ricorda un po’ il Codice Da Vinci, dove i vescovi in Vaticano si chiamano così: ‘Ehi, vescovo’” (R.J.C.).
E qui ho staccato, perché avevo altro da fare… e comunque la disputa non era più #disputafelice e per niente #disputagentile.
E il giorno dopo, 21 settembre 2017 è proseguita:
– “Qui aggiungo qualche ulteriore considerazione dopo questo vivace dibattito: QUI (Giovanni Tridente).
– “’Per il bene del sano giornalismo’. Ma lei cosa sa del sano giornalismo, quando ha avuto traccia, anche minima, di questa sua consapevolezza? Lei vive in un altrove” (M. F.).
– “M.F. Rido” (Giovanni Tridente).
– “Ha voluto aggiungere, precisare, scriverne ancora, come se gli altri non avessero capito. È un vezzo di chi non risolve in buone 70 righe ciò che vuole dire. Montanelli non si sarebbe fatto in quattro per assumerla” (M.F.).
– “M.F. Ri-rido” (Giovanni Tridente).
Comunque, come detto, molto istruttiva la disputatio. Anche se l’antica arte della disputatio in utramque partem, come in De oratore Marcus Tullius Cicero ha consigliato a tutti, una delle più sofisticate e formative di cui pare si sia perso il senso e il gusto, era altra cosa: la composizione di coppie di discorsi contrapposti. Che certamente non era “il tuo sempre avere ragione dimostra che io ho sempre ragione, dato che ho sempre avuto ragione e so che hai sempre avuto ragione”… Rispondere con calma e argomentazione risponde alla sfida. Ma coloro che usano emotività e passione contro argomenti della ragione, possiamo citare Cicero: “Colui che impiega solo la sua passione che non può fare uso della sua ragione”. Si guarda ad ambedue i lati di ogni questione, si mette in discussione quello a cui si tieni di più e si argomenta con si discute con uguale veemenza in utramque partem. E si ricorda: “Nessuno può parlare bene, a meno che non capisca a fondo il suo soggetto” (Marcus Tullius Cicero).
«La disputatio medievale
“Nessuna verità può essere veramente capita e predicata con ardore se prima non sia stata masticata dai denti della disputa”. Lo scrive Pietro Cantore nel XII secolo, indicando con una metafora che allude al “nutrimento” culturale l’esperienza più matura e vitale delle università medievali: la disputatio in utramque partem.
Che cos’è nella storia della filosofia la disputatio? È il confronto in cui le idee si ritrovano per mettersi alla prova, per stabilire un dibattito che dia forza o ribalti le convinzioni di chi vi partecipa. E’, più precisamente, una modalità d’interazione didattica nata circa otto secoli fa, strettamente legata alle lectiones, in cui un magister dirige un’appassionata e appassionante discussione intorno a un tema da lui scelto fra quelli più attuali e di una certa pregnanza teoretica.
Nel Medioevo, l’esercizio della disputa arriva a creare, fisiologicamente, un inedito spazio di libertà intellettuale. Non ci sono questioni fondamentali che nelle aule universitarie del tempo non siano state analizzate fino alle loro conseguenze più lontane (soprattutto legate alla religione), col pretesto di porre un problema che merita di essere sviscerato o anche solo per il semplice desiderio di esercitare i muscoli della mente.
Come si svolgeva la disputatio? Il magister, si legge nella cronaca delle dispute condotte da Odo di Ourscamp, discepolo di Abelardo: “Siede in cattedra e invita gli studenti a sollevare obiezioni, li aiuta nella formulazione di esse, dirige con sicurezza il succedersi degli interventi, dando poi la soluzione definitiva. Il magister attende con visibile impazienza che gli studenti presentino le difficultates. Una volta si rifiuta di risolvere una difficile questione sulla simonia, un’altra addirittura toglie la seduta rimandandola a un altro giorno”.
Questa energia della discussione prende vita, naturalmente, da un argomento che si sviluppa attraverso due tesi contrapposte, due diversi modi di pensare, due angolazioni per osservare e analizzare la stessa cosa. E nascono da questa bipolarità le argomentazioni dei partecipanti, i loro motivi pro e contra rispetto al problema e alla sua possibile soluzione.
Nel XIII secolo, la disputa assume una fisionomia più matura e diventa uno strumento didattico molto usato, tanto che viene annunciata con un certo anticipo e deve cadere in un giorno in cui è possibile sospendere le lezioni: tutti i docenti e gli allievi della facoltà vi partecipano.
È possibile dividerla in fasi: per prima cosa il maestro annuncia il tema e precisa gli articuli, ovvero i sotto-problemi, in forma di domanda, sui quali si dovrà incanalare il ragionamento. Poi, i convenuti presentano le loro argomentazioni sugli articoli della quaestio e il maestro, o più spesso il baccelliere anziano, risponde alle obiezioni del pubblico, nello stesso ordine in cui vengono sollevate. Talvolta chi assume il ruolo del respondens elabora anche argomenti contra per arricchire il dibattito.
Il giorno successivo, dopo aver esaminato ogni argomento a favore e contrario, il magister presenta la sua conclusione» (Tommaso.rai.it/disputatio.htm – Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche).
«La Segreteria di Stato smentisce con fermezza
l’autenticità del documento
e dichiara del tutto false
e prive di fondamento
le notizie in esso contenute»
(18 settembre 2017).
Articolo collegato
Vicenda Emanuela Orlandi-Vaticano: non importa se è falso, io il dossier lo pubblico
di Giovanni Tridente
Data Media Hub, 19 settembre 2017
Lunedì mattina 18 Settembre, i lettori dei due maggiori quotidiani italiani si sono svegliati con un presunto scoop riguardante importanti novità in merito alla triste vicenda della scomparsa di Emanuela Orlandi, che coinvolgerebbero direttamente i vertici del Vaticano.
Il titolo di Repubblica [online] è categorico [QUI]: Emanuela Orlandi, il giallo del nuovo dossier: “Oltre 483 milioni di lire spesi dal Vaticano per il suo allontanamento”.
Segue un dettagliato resoconto a firma di Emiliano Fittipaldi, che snocciola tutti i particolari di questo esplosivo “dossier”. Viene offerta anche una galleria fotografica con le 5 pagine scansionate che compongono il “documento choc” uscito dal Vaticano e finito nelle mani dell’autore del pezzo.
Come poi emerge addentrandosi nella lettura, questo grande “scoop” condiviso con il Corriere della Sera cartaceo [QUI] – Emanuela Orlandi, il dossier segreto del Vaticano: “Spesi 500 milioni per lei fino al 1997”: è giallo sul dossier – a firma di Fiorenza Sarzanini non sarebbe altro che un’anticipazione – il “cuore” – del nuovo libro dello stesso Fittipaldi, Gli impostori, tra qualche giorno in libreria.
A dire il vero, il Corriere neppure fa accenno all’imminente iniziativa editoriale; parla soltanto di “un dossier che circola negli uffici della Santa Sede”, il cui esame – probabilmente fatto dalla stessa autrice Sarzanini –, “non fornisce alcun riscontro che si tratti di un documento originale perché non contiene timbri ufficiali”.
A corredo dello slideshow [QUI] che anche il quotidiano diretto da Luciano Fontana pubblica si accenna poi a generiche (in corso?) verifiche sulla sua autenticità.
Non so se è vero, ma lo pubblico
Ma è il sommario di Repubblica a fare davvero la differenza nel racconto della vicenda, dando per scontato sia l’ipotesi di veridicità del documento, sia la sua falsità: “Se è vero, apre squarci clamorosi sulla vicenda della ragazzina scomparsa nel 1983. Se falso, segnala uno scontro di potere senza precedenti nel pontificato di Francesco”.
Come a dire: in entrambi i casi abbiamo ragione noi. Però questo modo di procedere fa drizzare le orecchie anche al lettore meno accorto, e nella migliore delle ipotesi porta a una ulteriore flessione di credibilità nei confronti della stampa in generale e della categoria dei giornalisti in particolare, flessione che entrambi i settori, stando ai dati che vengono diffusi periodicamente, non si possono proprio più permettere.
La prima considerazione che viene da fare di fronte ad un sommario del genere – che è poi il leitmotiv che accompagna entrambi i pezzi di Repubblica e Corriere – riguarda la regola base a cui ciascun giornalista deve sottostare: la verifica della veridicità delle informazioni.
Se non sono in grado di verificare se i dati in mio possesso sono veritieri, devo assolutamente diffidare dalla loro diffusione.
E i pezzi d’appoggio?
Fa parte delle mie prerogative di giornalista, infatti, trovare le “pezze d’appoggio” in merito a ciò che scrivo e alle affermazioni che faccio. Altrimenti è la babele più totale, perché chiunque potrebbe scrivere una cosa e il suo contrario, lasciando a chissà chi (al lettore? Al caporedattore a cui sottopongo il mio testo? Alla persona o all’istituzione che accuso? Alle autorità preposte?) il beneficio della prova.
Si capisce da sé che questo modo di fare non sta in piedi ed è solo finalizzato ad altri scopi che se non ci vengono detti possiamo solo immaginare.
Da una parte, colpisce che entrambi i quotidiani nutrono almeno un minimo dubbio sull’attendibilità del documento. E allora perché pubblicarlo, e con così tanta enfasi? In effetti, nei rilanci degli articoli – oltre evidentemente ai titoli, che come prassi non ammettono il beneficio del dubbio – fatti sui social, la consapevolezza della possibile inattendibilità del carteggio scompare:
«Emanuela Orlandi, il giallo del nuovo dossier: “Oltre 483 milioni di lire spesi dal Vaticano per il suo… [QUI] — la Repubblica (@repubblica) 18 settembre 2017 [QUI]».
Le smentite? Ci diano delle spiegazioni piuttosto!
Di fronte alle prime smentite giunte dalla Santa Sede – il portavoce Greg Burke lo ha subito definito la vicenda “falsa e ridicola”, mentre uno dei protagonisti, il Cardinale Giovanni Battista Re, ha negato assolutamente l’esistenza della materia discussa [QUI], sia di aver visto il documento sia di averlo ricevuto al tempo in cui risalgono i fatti: – Fittipaldi si è difeso ripetendo quanto compariva già nel sommario del suo articolo, l’ormai famosa dicotomia “se è vero, se è falso”.
Ha poi aggiunto che “qualsiasi documento può essere falso, ma questo era in una cassaforte del Vaticano. Io ho faticato molto per averlo e ora la Santa Sede ci deve delle spiegazioni” [Vedi QUI].
Anche in questo caso l’onere della prova è demandato a chi è accusato, anche se non siamo sicuri delle accuse che gli rivolgiamo. Un ragionamento non proprio lineare.
A dimostrazione della schizofrenia e della confusione che regna nelle redazioni di entrambi i quotidiani, nonostante appunto le varie smentite, gli articoli principali sono rimasti al loro posto, così come pure i titoli categorici.
Per “diritto di cronaca”, immaginiamo, gli sono stati poi affiancati, con molto meno risalto evidentemente, i pareri e le affermazioni di chi smentiva.
In serata, intanto, è arrivata la smentita ufficiale della Segreteria di Stato vaticana affidata ad un comunicato della Sala Stampa della Santa Sede:
«Per il lancio di un libro d’imminente uscita, questa mattina due quotidiani italiani hanno pubblicato un presunto documento della Santa Sede che attesterebbe l’avvenuto pagamento di ingenti somme, da parte del Vaticano, per gestire la permanenza fuori Italia di Emanuela Orlandi, scomparsa a Roma il 22 giugno 1983.
La Segreteria di Stato smentisce con fermezza l’autenticità del documento e dichiara del tutto false e prive di fondamento le notizie in esso contenute.
Soprattutto rattrista che con queste false pubblicazioni, che tra l’altro ledono l’onore della Santa Sede, si riacutizzi il dolore immenso della famiglia Orlandi, alla quale la Segreteria di Stato ribadisce la sua partecipe solidarietà».
Ciò per quanto riguarda l’attitudine professionale degli estensori degli articoli e dei caporedattori e direttori che ne hanno favorito la pubblicazione e la diffusione.
Un documento “patacca”?
Se invece entriamo nel merito del carteggio presentato in pompa magna, notiamo molte altre incongruenze che fanno restringere il beneficio del dubbio circa la sua inautenticità.
Cosa conterrebbe
Il documento conterrebbe il rendiconto delle spese sostenute dallo Stato Vaticano per gestire il rapimento di Emanuela Orlandi e la sua permanenza all’estero, in vari convitti londinesi, oltre alle spese per delle indagini su un dichiarato depistaggio, per alcune altre indagini private e per non precisate attività svolte dall’allora Segretario di Stato Agostino Casaroli e dal Vicario di Roma Ugo Poletti.
Per 14 anni, insomma, il Vaticano avrebbe pagato rette, vitto e alloggio, spese mediche e spostamenti alla Orlandi. Almeno fino al 1997, quando l’ultima voce parla di un ultimo trasferimento in Vaticano e “il disbrigo delle pratiche finali”, riferibili ad una sua morte.
Il font
Andiamo con ordine. Intanto soprassediamo sul font [Andale Mono] che caratterizza la lettera, di cinque pagine, “scritta al computer o, forse, con una telescrivente”, chiosa subito Fittipaldi; qui il dubbio è d’obbligo dato che il documento porta la data del 1998, anche se tutto può essere.
Senza firma e senza timbri
Lo stesso documento è intanto privo di firma, di qualunque timbro o intestazione ufficiale e non è affatto protocollato, anche se questa evenienza viene spiegata in chiusura della missiva.
“Riverita” a chi?
Per chi mastica un poco di ecclesialese, saltano subito agli occhi i titoli di cortesia utilizzati per i destinatari: “Sua Riverita Eccellenza”, mai sentito in ambienti vaticani, in luogo del comunissimo “Sua Eccellenza Reverendissima”.
Attenti al nome
Un’altra svista riguarda il secondo destinatario, l’“Arcivescovo Jean Luis Tauran” mentre il suo nome corretto è “Jean-Louis” [Vedi QUI].
Suona inusuale mettere luogo e data di nascita della cittadina Emanuela Orlandi nell’oggetto, che invece è riferito al “resoconto sommario delle spese sostenute”, quasi a voler richiamare un “guardate che è proprio lei”.
Nessuna prefettura
Sempre per chi conosce l’organizzazione della Curia Romana, desta sospetto anche l’incipit dello scritto, in cui si parla di “prefettura dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica”, ma tutti sanno che al vertice della cosiddetta APSA c’è da sempre un Cardinale Presidente e non un Cardinale Prefetto.
Sarebbe bastata una ricerca sulla voce del Cardinale Antonetti, firmatario della lettera in questione, per verificare che tra i tanti incarichi svolti c’è infatti la “Presidenza” dell’APSA [QUI]. La confusione è forse sorta con un altro organismo che si occupa di questioni economiche, la Prefettura per gli Affari economici della Santa Sede, e tra poco capiremo perché.
Altre sviste e incongruenze
Fa simpatia anche l’errore [di battitura?] che compare già nella terza riga, “resosi” invece di “resesi” riferito alle “prestazioni economiche”.
Non c’è traccia, evidentemente, di nessuna delle 197 pagine di allegati “al presente rapporto” di cui si fa accenno.
Il resoconto economico che inizia a pag. 2 parte dal “gennaio 1983”: un’altra chiara incongruenza. Il documento, come è scritto, raccoglierebbe “le attività svolte a seguito dell’allontanamento domiciliare” di Emanuela Orlandi, che invece è avvenuto il 22 giugno di quello stesso anno.
Semplice campagna di marketing?
Sentendo quanti hanno verificato il caso e stando a ciò che racconta lo stesso Fittipaldi, sembra che il documento provenga dall’archivio di mons. Lucio Vallejo Balda, il sacerdote spagnolo già Segretario della Prefettura per gli Affari economici della Santa Sede – ecco la prefettura!
Dal 2013 al 2014 il prelato ha guidato i lavori della commissione COSEA, incaricata di fare uno screening sui conti e sulla gestione amministrativa di tutti i dicasteri vaticani. Egli stesso fu imputato e condannato nel noto processo Vatileaks 2, che tra l’altro vedeva tra gli imputati anche l’estensore dell’articolo su Repubblica Fittipaldi, per la pubblicazione di due libri – l’altro di Gianluigi Nuzzi – contenenti carteggi segreti della COSEA.
È molto probabile, dunque, che il documento sia stato redatto in queste circostanze, e quindi diffuso (resta da capire da chi?) per depistare, ricattare o nella migliore delle ipotesi scrivere libri, mescolando particolari veri o verosimili con altri di pura invenzione.
L’unica certezza resta il dolore della famiglia Orlandi e i tentativi di piccolo cabotaggio per una campagna di marketing che possa risultare proficua.
Segue la Parte 5 (10.11.2022): QUI.