Le idiozie di Borrell, l’epitome di quella che frulla per la testa di burocrati e molti cittadini europei

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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 17.10.2022 – Vik van Brantegem] – Condividiamo di seguito, dopo una breve introduzione e seguita da un postscriptum, una analisi molto interessante, splendida, ma inquietante, comunque condivisibile. Come siamo abituato a leggere dal filosofo Andrea Zhok, professore di Antropologia filosofica e Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Milano (l’abbiamo presentato QUI).

L’etnocentrismo da Mulino Bianco

Le parole di Borrell colpiscono – come ha osservato un commentatore su Facebook al post del Prof. Zhok – non tanto per quello che dice, perché ribadisce l’ovvio, ma per la rozza visione che con chiarezza viene spiattellata, non per l’etnocentrismo in sé – che è condizione normale per ogni popolo – ma per il modo e la misura in cui l’etnocentrismo viene esercitato. Di fronte alle crepe nel muro di arroganza e violenza del passato etnocentrismo europeo, Borrell, anziché riconsiderare i presupposti antropologici di ciò che siamo diventati, propone il “coinvolgimento” dell’Europa (il giardino) nel resto del mondo (la jungla). Secondo ogni evidenza dei fatti, si tratta di un eufemismo che sta per intervento violento e controllo anche militare, non negoziabile. Nella loro imbecillità, Borrell e altri burocrati europei (Draghi, Von Der Leyen, Lagarde e altri del #brancodibalordi che ci “governa”) fanno finta di credere nei “scontro di civiltà”, e pretendono che ci crediamo noi fermamente.

Al piccolo burocrate europeo Borrell – Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza («guida la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione europea», l’attua «in qualità di mandatario del Consiglio dell’Unione europea»), Membro e Vicepresidente ex officio della Commissione Europea) – va concesso almeno il merito di offrirci l’epitome, non solo di quel che frulla per la testa di molti altri squalidi burocrati europei, ma anche quello che frulla per la testa di molti dei cittadini europei, che (salvo l’eccezione di alcuni sbandati pacifisti, comunisti, putiniani, ecc.) o non pensano niente, o spesso hanno in testa le medesime, confuse idiozie di Borrell. Questo sembra – conclude il commentatore – essere il punto cruciale e drammatico: urgerebbe un radicale mutamento antropologico dei nostri atteggiamenti mentali, o quantomeno, urge il rinnovamento di una classe dirigente come quella europea, ormai del tutto inadeguata, accecata da etnocentrismo da Mulino Bianco, attardata come i dinosauri, povera come non mai, intenta soltanto alla incattivita digestione dei panettoni a Natale, o della brioche inzuppata nel tè al mattino.

Oltre il giardino
di Andrea Zhok
Facebook, 14 ottobre 2022


Il responsabile della politica estera dell’Unione Europea Josep Borrell ha spiegato in un’intervista come in Europa vi sia “la migliore combinazione di libertà politica, prosperità economica e coesione sociale che l’umanità è stata in grado di costruire: tutte e tre le cose insieme”, e prosegue paragonando l’Europa a “un giardino” e il resto del mondo ad una “giungla che potrebbe invadere il giardino”. È per questa ragione che gli europei devono “andare nella giungla”, devono “essere molto più coinvolti nel resto del mondo. Altrimenti, il resto del mondo ci invaderà”.

Questo discorso nella sua schiettezza ideologica rivela molte più cose delle circostanze in cui ci troviamo di qualunque sottile analisi geopolitica. Certo, vi saranno strateghi che operano dietro le quinte ed esaminano la realtà con freddo realismo in termini di mero potere, economico e militare, ma ogni epoca, ogni civiltà poggia sempre su una qualche visione fondamentale, cui aderiscono i più, che operano al di fuori della “stanza dei bottoni”. Le parole di Borrell ci rammentano gli estremi di questa visione portante, che sta al fondo dell’attuale conflitto mondiale ibrido (noi siamo già nella Terza Guerra Mondiale, ma in una forma per ora ibrida, in cui le componenti economica e di manipolazione cognitiva sono almeno altrettanto importanti di quella militare).

Borrell ci ricorda, involontariamente, come l’Occidente abbia costruito la propria autocoscienza negli ultimi due secoli in una forma “progressista” (condivisa, beninteso, anche da quelli che si dicono “conservatori” in politica), una forma in cui il mondo “va avanti”, e individui e popoli si distinguono in “avanzati” e “arretrati”.

Noi occidentali, in quanto avanzati e progrediti, possiamo legittimare ai nostri occhi fondamentalmente ogni abuso ed ogni prevaricazione nei confronti degli arretrati, giacché il progresso funziona come un dispositivo di giustificazione morale. Il progressismo occidentale è in effetti una forma di razzismo culturale, straordinariamente arrogante ed aggressivo, che riveste la primitiva “legge del più forte” con decorazioni ideologiche di altissima parvenza morale (i diritti umani, i diritti civili, ecc.).
L’intero apparato intellettuale e propagandistico organico a questa visione produce a getto continuo giustificazioni ad hoc per qualunque violenza e abuso, adottando con sistematicità doppiopesismi mirabolanti e sofismi iperbolici (dal Congo belga a Wounded Knee, dalla Shoah a Hiroshima, dal Vietnam all’Iraq, ecc. è un libro degli orrori punteggiato di appelli al progresso). Al fondo di tutto ciò c’è un assunto roccioso, l’unica cosa davvero stabile e inconcussa: il senso della nostra superiorità. Ciascuna delle infinite prove del carattere aggressivo, predatorio, disumanizzante della civiltà occidentale contemporanea vengono automaticamente lette dall’apparato come errori di percorso, incidenti inessenziali, danni collaterali nel processo verso l’avanti, il di più, il meglio, il progresso.

Noi, gli Eloi, viviamo nel giardino, gli altri, i Morlock, nella giungla.

È interessante ricordare come l’intera fondazione storica di questo senso di superiorità è esclusivamente fondata sulla superiorità tecnologica, militare e poi industriale, maturata compiutamente negli ultimi due secoli. È con la rivoluzione industriale e la capacità di produrre in serie grandi quantità di armi micidiali che il senso di superiorità e avanzamento diviene pienamente convincente.

Non è certo sul piano spirituale, né su quello dell’armonia delle forme di vita, né su quello della felicità, né su quello della raffinatezza artistica, né su nient’altro che l’Occidente ha maturato la propria autocoscienza di superiorità, nient’altro salvo la forza tecnologicamente supportata. Per dire, non abbiamo elaborato niente di comparabile alle tecniche del corpo e della mente che possiamo trovare nella cultura indiana, cinese, giapponese, ecc. ma noi avevamo le mitragliatrici, loro no.

In effetti l’unica cosa che nutre e permette di definire uno standard di “progresso” è l’accumulo di potenza tecnologica. Se sia migliore, “più progredita” la poesia giapponese o quella tedesca è questione che nessuna persona sana di mente si metterebbe seriamente a discutere, ma che la tecnologia tedesca fosse superiore a fine ‘800 era dimostrabile sul campo, e ciò, ad esempio, spinse il Giappone (nonostante grandi resistenze) ad adeguarsi agli standard europei.

L’Occidente è dunque la forza storica che ha spinto il mondo nella direzione di una competizione infinita, illimitata, giacché ha creato un campo di gioco dove non c’era pietà per chi restava “indietro”. L’Occidente ha indotto il pianeta ad una sistematica “corsa agli armamenti”, in senso bellico o economico, sulla scorta della propria visione progressista di un avanzamento assoggettante.

Al contempo, sin dall’inizio e con sempre maggiore intensità, l’Occidente (che non coincide con la cultura, o meglio le culture, europee) ha dato mostra di entrare in ricorrenti crisi di autofagia, di destabilizzazione ed autodistruzione. Gli anni che precedono la Prima Guerra Mondiale sono anni culturalmente affascinanti per lo studioso perché sono una straordinaria, insistente elaborazione sul tema della disperazione, della decadenza e del nichilismo (esattamente in parallelo con il simultaneo levarsi delle lodi positivistiche al progresso, all’illuminazione elettrica, ai nuovi “comfort”). Le due guerre mondiali – gli eventi ad oggi più distruttivi che la storia dell’umanità registri – hanno semplicemente portato le lancette dell’orologio della storia di nuovo indietro di mezzo quadrante: e dagli anni ’80 del XX secolo le stesse dinamiche di un secolo prima iniziano a profilarsi.

Oggi e da tempo nel “giardino” occidentale la percezione di precarietà e di mancanza di futuro è generalizzata; siamo alla seconda generazione che nasce e cresce in una condizione di perenne crisi, di totale disorientamento, di sradicamento, di liquefazione dei rapporti, degli affetti, delle identità, di incapacità di identificarsi con un qualunque processo sovraindividuale, che sia storico o trascendente.

Questa condizione di degrado sociale e antropologico viene camuffato ideologicamente facendo di ogni ferita un vanto, di ogni cicatrice una decorazione: l’instabilità è “dinamicità”, la sradicatezza è “libertà”, lo sfaldamento identitario è gioiosa “fluidità”, ecc. Il male di vivere nelle generazioni più giovani, quelle tradizionalmente più disposte alla contestazione e alla protesta, è tenuto sotto controllo con la disponibilità di un sempre crescente mercato di intrattenimento standardizzato, funzionale a distogliere la mente da qualunque durevole forma di autocoscienza o generale consapevolezza. Quello che un tempo era il gin delle distillerie clandestine per l’operaio della rivoluzione industriale è ora fornito in forma di intrattenimento a domicilio da variegati schermi. Anche questo è progresso: in questo modo la forza lavoro dura di più.

Collocandoci in una posizione superiore e avanzata, questa visione consente di delegittimare in partenza ogni lamento, giacché per definizione, quand’anche noi in prima classe avessimo problemi, figuratevi tutti gli altri miserabili, in altri luoghi o tempi. Dunque smettete di lamentarvi e tornate al lavoro.

Questa concezione onnicomprensiva, in cui siamo immersi ad una profondità quasi insondabile, rappresenta una bolla al di là della quale non siamo in grado di immaginare che possa esistere alcun mondo degno di essere abitato (c’è solo l’oscurità della “giungla”). È per questo motivo che nel momento in cui, per la prima volta da due secoli, compare all’orizzonte l’ombra di competitori non facilmente assoggettabili, la sfida, per chi è imbevuto di questa visione, diventa qualcosa di assoluto, di esistenziale. Non si può cedere perché cedere significherebbe aprire la strada ad una relativizzazione del nostro sguardo, e questo solo fatto aprirebbe le cateratte dello scontento represso, del disagio covante sotto le ceneri, della disperazione dietro a mille insegne luminose.

È per questo che si tratta di un momento di particolare pericolosità: l’Occidente, traendo tutta la propria resistenza psicologica residua dalla propria immagine di superiorità non è nelle condizioni culturali di immaginare per sé una forma di vita differente. Perciò le oligarchie, che della forma di vita occidentale percepiscono solo i benefici, sono disposte a sacrificare fino all’ultimo plebeo pur di non cedere terreno, pur di non lasciar crescere alcuna vegetazione spontanea dentro il “giardino”.

Andrea Zhok

Postscriptum

1. La metafora del giardino e della giungla

La metafora del giardino e della giungla è stata coniata da Robert Kagan, usata in diversi suoi libri, in particolare The Jungle Grows Back: America and Our Imperiled World (La giungla sta ricrescendo: l’America e il nostro mondo in pericolo), edito da Vintage (2018). Anche Draghi ha citato Kagan (esplicitamente) nel suo discorso del 1° marzo 2022 in cui ci ha trascinati in guerra [il testo integrale dell’informativa del Presidente del Consiglio pronunciata prima al Senato e poi alla Camera: QUI]: «Come aveva osservato lo storico Robert Kagan, la giungla della storia è tornata, e le sue liane vogliono avvolgere il giardino di pace in cui eravamo convinti di abitare». Ricordiamo che Kagan è il marito di Victoria Nuland, Sottosegretario di Stato statunitense, che ha mandato l’Unione Europea a farsi fottere nel 2014, mentre rimestava nel colpo di stato di Euromaidan, e cominciò la guerra e la mattanza nel Donbass.

Riportiamo, nella nostra traduzione italiana dall’inglese, la parte della conversazione telefonica intercettata, in cui Nuland denigra l’Unione Europea per la crisi ucraina. La conversazione si svolge apparentemente tra Nuland e l’Ambasciatore degli Stati Uniti in Ucraina, Geoffrey Pyatt. La registrazione è apparsa su YouTube, e il 7 febbraio 2014 è stata pubblicata sul sito della BBC una trascrizione, accompagnata dall’analisi del corrispondente diplomatico della BBC, Jonathan Marcus [QUI].Gli Stati Uniti non hanno negato la veridicità della registrazione e ma si sono affrettati a puntare il dito contro le autorità russe per essere dietro la sua intercettazione e divulgazione, però, il chi non cambia niente alla gravità delle conversazioni.

Nuland: OK… un’altra ruga per te Geoff. [Si sente un clic] Non ricordo se te l’ho detto, o se l’ho solo detto a Washington, che quando ho parlato con Jeff Feltman [Sottosegretario Generale delle Nazioni Unite per gli Affari Politici] questa mattina, aveva una nuova nomina per il tizio delle Nazioni Unite Robert Serry te l’ho scritto stamattina?

[Il commento di Jonathan Marcus: Una visione intrigante del processo di politica estera con il lavoro in corso a diversi livelli: vari funzionari che tentano di schierare l’opposizione ucraina; sforzi per convincere le Nazioni Unite a svolgere un ruolo attivo nel rafforzare un accordo; e (come puoi vedere di seguito) i pezzi grossi che aspettano dietro le quinte: il Vicepresidente americano Joe Biden è chiaramente in fila per dare parole private di incoraggiamento al momento opportuno].

Pyatt: Sì, l’ho visto.

Nuland: OK. Ora ha convinto sia Serry che [il Segretario generale delle Nazioni Unite] Ban Ki-moon ad essere d’accordo sul fatto che Serry potrebbe venire lunedì o martedì. Quindi sarebbe fantastico, penso, aiutare a incollare questa cosa e avere l’aiuto delle Nazioni Unite per incollarla e, sai, mandare fanculo l’UE.

[Commento di Jonathan Marcus: Non per la prima volta in una crisi internazionale, gli Stati Uniti esprimono frustrazione per gli sforzi dell’UE. Washington e Brussel non sono stati completamente al passo durante la crisi ucraina. L’UE è divisa e in una certa misura esita a iniziare una lotta con Mosca. Certamente non può vincere una battaglia a breve termine per l’affetto dell’Ucraina con Mosca – semplicemente non ha gli incentivi in denaro disponibili. L’UE ha cercato di condurre un gioco più lungo; puntando sulla sua attrazione nel tempo. Ma gli Stati Uniti sono chiaramente determinati ad assumere un ruolo molto più attivista].

2. La vita è uno stato mentale

Oltre il giardino è anche il titolo di un film del 1979 diretto da Hal Ashby, con Peter Sellers, Shirley MacLaine, Melvyn Douglas, presentato in concorso al Festival di Cannes 1980. Il film (titolo originale Being There) è tratta dal romanzo Presenze dello scrittore polacco Jerzy Kosinski (1933-1991), il quale ne ha anche scritto la sceneggiatura ed è stato girato nella spettacolare residenza dei banchieri Vanderbilt, la Biltmore Mansion ad Asheville nel North Carolina. Fortemente voluto da Peter Sellers, Oltre il giardino sarà anche il suo penultimo film (morirà prematuramente un anno dopo) e forse la sua più intensa interpretazione, che gli valse anche una candidatura al Premio Oscar. Fra le righe di una commedia garbata, Oltre il giardino affronta temi quali la comunicazione fra individui e classi sociali, il rapporto fra l’apparire e l’essere, risultando peraltro profetico nel ritrarre il potere mediatico della televisione, la sua capacità di imporre improvvisamente, come fondamentali, personaggi venuti dal nulla e dalla nulla consistenza, come appunto accade con il protagonista, il giardiniere Chance.

Un elemento questo, che non può non far pensare a Zelensky, fondatore della casa di produzione Kvartal 95, che ha prodotto diversi film, cartoni animati e serie tv, tra cui Servitore del popolo, in cui lo stesso Zelensky interpretava un professore del liceo inaspettatamente eletto presidente dell’Ucraina. Nel marzo 2018 alcuni dipendenti di Kvartal 95 hanno fondato un partito politico omonimo della serie, cavalcando la sua riscossa popolarità. Pur non avendo esperienza politica, la sua popolarità come comico e le sue posizioni anti-corruzione lo hanno posto fin da subito in testa nei sondaggi per le elezioni presidenziali del marzo successivo. Dopo essere risultato il candidato più votato al primo turno, il 21 aprile 2019 ha sconfitto al ballottaggio il presidente uscente Petro Porošenko con il 73% dei consensi, come populista, europeiste e anti-establishment.

Nel film Oltre il giardino, alla morte del padrone, Chance, un giardiniere analfabeta e non più giovane, che non è mai uscito dalla casa nella quale ha lavorato per tutta la vita, si ritrova in mezzo alla strada, con una valigia di vecchi abiti di lusso e un disarmante candore. L’unico collegamento col mondo esterno è stata nel corso di tutti questi anni la sola televisione. Vagando disorientato e senza meta per le strade di una Washington sporca e maleducata, ben diversa dal mondo che lui vedeva rappresentato attraverso la TV, Chance viene investito dall’auto della moglie di un influentissimo personaggio, Benjamin Rand. La donna, Eve, si preoccupa di soccorrere il malcapitato e lo porta nella sua grandiosa villa per farlo curare. Durante il tragitto in automobile Eve chiede all’uomo come si chiami, e la sua risposta, resa poco chiara da un colpo di tosse, viene compresa nella versione originale come Chauncey Gardiner, mentre nelle intenzioni voleva essere “Chance the gardener” (Chance il giardiniere), dove la professione viene scambiata per il cognome del protagonista.

Chance si rimette presto dal piccolo incidente ma poi si trattiene come ospite, visto che il vecchio e malato Ben, marito di Eve, uomo d’affari e amico del presidente degli Stati Uniti, colpito dalla sua riservatezza, lo tiene in grande considerazione, e sua moglie addirittura se ne innamora. Tutto ciò avviene all’insaputa di Chance e in maniera del tutto fortuita, dato che quei pochi concetti che lui esprime (oltre alle sole espressioni rituali come “me ne rendo conto” o frasi di ringraziamento) riguardano il giardinaggio (unico argomento da lui conosciuto) e l’unica cosa che gli interessa è guardare la televisione. Ma in un mondo che è portato a vedere ciò che vuole più che ciò che è, colui che si potrebbe definire un ritardato è scambiato per un saggio, sensibile e arguto osservatore. Solo il medico di famiglia nutre dei sospetti sempre più concreti circa la sua sanità mentale.

Quando qualcuno cerca di parlargli con una metafora, una forma allegorica, oppure un doppio senso, Chance interpreta alla lettera, rispondendo quindi in modo bizzarro. Le risposte vengono interpretate come frutto del suo senso dell’umorismo. A tal proposito, sono emblematiche le scene in ascensore, nelle quali Chance ed un maggiordomo dialogano, ma ognuno dà un senso diverso a ciò che dice l’altro, senza che il dialogo perda un senso generale.

L’equivoco non è destinato a sciogliersi, anzi: in qualunque contesto lui si trovi, dall’intimità di un dialogo a due con Ben al confronto con il presidente degli Stati Uniti, passando per la partecipazione ad un talk-show televisivo, le risposte di Chance, sempre molto semplici e invariabilmente riferite al mondo del giardinaggio, vengono sempre scambiate per profonde metafore, proprie di una persona dalla grande saggezza e illuminante filosofia.

La polizia e i servizi segreti, sopravvalutandolo, impazziscono nel vano tentativo di rintracciare la pur minima informazione su di lui. Chance non è iscritto all’anagrafe, non ha conti in banca, non ha beni a lui intestati e, non essendo mai uscito prima di allora dalla sua casa, ovviamente non ha nemmeno lasciato tracce della sua esistenza in nessun luogo. La totale assenza di qualsiasi indizio sulla sua identità fa credere ai membri della sicurezza che si tratti di un personaggio altolocato, protetto dalle più alte sfere del potere, che hanno avuto cura di far sparire tutti i documenti che lo riguardano.

Alla morte di Ben, eminenza grigia del potere espresso dal presidente, quest’ultimo pronuncia un discorso di commemorazione, mentre chi muove le fila del potere e presenzia il funerale, all’ombra di un famedio piramidale recante un occhio al suo vertice, già si chiede nelle mani di chi mettere il potere, in vista della scadenza del mandato. L’attenzione dei grandi industriali finisce per indirizzarsi verso Chance, il quale, in un finale surreale, si allontana dalla cerimonia, teneramente distratto dalla natura intorno, e si avvia verso un laghetto, che percorre a piedi come fosse solido, una metafora forse della sua ingenua leggerezza mentale che gli permette di “camminare sulle acque”; nel frattempo si ascoltano ancora in sottofondo parole di Ben citate nel discorso funebre, che si concludono con la frase: “La vita è uno stato mentale”.

V.v.B.

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