Elezioni 25 settembre 2022. Riflessioni sul fascismo, sull’antifascismo e sul fascismo dell’antifascismo. Con Sciascia, Maccari, Pasolini e Bordiga – Seconda parte

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Prosegue dalla Prima parte [QUI].

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 23.09.2022 – Vik van Brantegem] – Quindi, riflettiamo sul fascismo, sull’antifascismo e sul fascismo dell’antifascismo. E lo facciamo con Sciascia, Maccari, Pasolini e Bordiga, con pensatori, che necessitano lettori che pensano, e non con influencer, che esistono soltanto perché esistono i deficiencer.

Leonardo Sciascia

«Il più bello esemplare di fascista è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dar del fascista a chi fascista non è»

“Era un fascista” dice di Dubcek una ragazza molto rivoluzionaria che ha sposato un uomo molto ricco ed è entrata ora a far parte da assistente a un professore molto fascista. (…) Il più bello esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere (e ne raccomandiamo agli esperti la più accurata descrizione e catalogazione) è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dar del fascista a chi fascista non è (Pensiero di Leonardo Sciascia liberamente tratti dal libro “Nero su Nero”, dove sono raccolte le sue osservazioni scritte tra il 1969 e il 1979).

Mino Maccari

«Il fascismo si divide in due parti: il fascismo propriamente detto e l’antifascismo»

«Appena un mese fa parlavo con Mino Maccari. Che si fa? Niente, si aspetta Godot? No, si aspetta la rivoluzione. Chi dovrebbe farla, i fascisti? I fascisti – gli ho ricordato – sono una trascurabile maggioranza. Maccari ha precisato: il fascismo si divide in due parti: il fascismo propriamente detto e l’antifascismo» (Tratto da “Satira è vita”, il libro che raccoglie frammenti scritti da Ennio Flaiano e pubblicati in altre sue opere).

Pier Paolo Pasolini

«Il fascismo degli antifascisti»
«Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo»

«Nulla di peggio del fascismo degli antifascisti»
«Oggi buona parte dell’antifascismo è ingenuo, stupido o in malafede»


«Io non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla o dal non averla voluta; dall’essermi messo in condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non esser fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io del resto considero degno di ogni più scandalosa ricerca» (Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari).

«L’opera pasoliniana “nega al lettore la possibilità di una interpretazione univoca o unilaterale costringendolo al contrario a una tensione critica costante, a una disponibilità intellettuale aperta e irrisolta. Cercare di ridurre a un ordine le contraddizioni di Pasolini privilegiando una chiave di lettura critica che si proponga di risolverle significherebbe ignorare la funzione essenziale che hanno avuto nella sua opera e nella sua vita. L’esperienza dell’antitesi costituisce la più profonda matrice strutturale dell’opera di Pasolini, che al di fuori di essa apparirebbe sostanzialmente incomprensibile. La contraddizione costituisce l’elemento dinamico e tensore che produce l’opera, e che in questa mira non a risolversi ma ad esprimersi” (Guido Santato). Nondimeno, chiunque conosca l’opera di Pasolini — in primis Santato, che forse la conosce meglio di tutti — può dimostrare che in essa si trova una coerenza intima e profonda. Nel percorso di Pasolini vi sono punti fermi non negoziabili. Altrimenti non sarebbe opera, ma un guazzabuglio di prese di posizione umorali, rovesciamenti da banderuola scossa dal vento, dichiarazioni rese al puro scopo di épater qualcuno: les bourgeois, la gauche ecc. Non che a Pasolini non capitasse di voler «scandalizzare e basta», anzi. Ma lo fece sempre entro certe — e sottolineo certe — coordinate di pensiero, tenendo fermi valori irrinunciabili. Quella che Santato chiama “esperienza dell’antitesi”, è antitesi tra una strategia discorsiva e l’altra, tra una tattica argomentativa e l’altra, tra un elemento e l’altro di una poetica complessa. Pasolini cambiava approccio in modo drastico, usava l’antitesi per passare da una fase all’altra del suo percorso» (Wu Ming – Pasolini e il suo orrore per ogni fascismo, 21 febbraio 2018).

La riflessione sul fascismo e sulla sua evoluzione storica attraversa tutta l’opera di Pier Paolo Pasolini. Il volume Il fascismo degli antifascisti (Garzanti 2018) raccoglie alcuni dei suoi testi più significativi scritti sull’argomento tra il settembre 1962 e il febbraio 1975. Prendendo coraggiosamente posizione contro un antifascismo di maniera ormai fuori tempo massimo, Pasolini mette in guardia da una nuova forma di fascismo, più subdola e insidiosa, intesa «come normalità, come codificazione del fondo brutalmente egoista di una società». È il sistema dei consumi, che a partire dagli anni Sessanta si è reso responsabile dell’omologazione culturale del paese: un potere senza volto, senza camicia nera e senza fez, ma capace di plasmare le vite e le coscienze. A distanza di oltre quarant’anni, questi interventi mantengono intatta la loro forza critica, permettendo di cogliere alcuni dei tratti più profondi dell’Italia di oggi.

Scritti corsari. Gli interventi più discussi di un testimone provocatorioi (Garzanti 1975) è una raccolta di articoli che Pier Paolo Pasolini pubblicò tra il 1973 e il 1975 sulle colonne del Corriere della Sera e delle riviste Tempo illustrato, Il Mondo, Nuova Generazione e Paese Sera, comprendente una sezione di documenti allegati redatti da vari autori. Uscì in libreria postumo, nel novembre 1975, sebbene lo scrittore ne avesse già revisionato le bozze presso l’editore Garzanti. Si tratta di una raccolta di interventi il cui tema centrale è la società italiana, i suoi mali e le sue angosce. Pasolini, figura solitaria e analista crudamente lucido, si scontra con quel mondo di perbenismo e conformismo che ritiene responsabile del degrado culturale della società consumistica. Osservatore controcorrente, egli riesce ad esprimere tesi politiche di grande attualità, trattando tematiche sociali alla base dei grandi scontri culturali dell’epoca, come l’aborto e il divorzio.

Il Potere senza volto (Corriere della Sera, 24 giugno 1974).

Apriamo un dibattito sul caso Pannella (Corriere della Sera, 16 luglio 1974).

Poveri ma fascisti (Il Messaggero», 17 ottobre 1974 – Estratti):
«(…) Vedendo quella prima sequenza [del film Fascista di Nico Naldini], ho osservato le facce dei fascisti e della gente che, partecipe o indifferente, li attorniava. Le persone “importanti” (professori, avvocati, ecc.) avevano delle facce da imbecilli, al solito. (…) Sono proprio quegli imbecilli, magari rozzi, ingenui, e, oltre tutto, anche in buona fede (non in quanto fascisti, dico, ma in quanto piccolo – e medio – borghesi). Ma intorno c’erano le facce dei sicari fascisti. Facce magre, ossute, con occhi fortemente disegnati. Facce tirate dalla vita povera, dalla fame. Macerate da abitudini nate dall’osservanza della più stretta economia, dal bisogno (lettucci, stanzette polverose, stanzoni vuoti, niente riscaldamento, un paio di calzoni e una camicia, l’osteria, la messa domenicale, la periferia della città quasi campestre). Insomma, ciò che quei fascisti erano socialmente, aveva infinitamente più forza di ciò che erano ideologicamente. Erano lavoratori poveri e piccoli borghesi poveri come loro. Facevano la marcia su Roma come una scampagnata; al massimo si può pensare che essi, culturalmente, imitassero l’impresa fiumana. La maggior parte erano chiaramente “assoldati”, come soldati di ventura di second’ordine.
Questa prima impressione di trovarsi di fronte a un tipo antropologico di italiano che è stato così per secoli e secoli, ed è cambiato solo in questi ultimi dieci anni, dura e si consolida durante tutto il film di Naldini. Questa inoffensività, non bonacciona o qualunquistica, ma “fisica” degli italiani in camicia nera, si estende anche ai capi. I famosi gerarchi, che io ricordavo come il massimo della ferocia e del ridicolo, sono invece dei patetici imbecilli: qualcuno di loro fa addirittura una specie di schifosa tenerezza, tanto è stupido e visibilmente attaccato alla greppia, come un allampanato animale. C’è qualche sguardo gettato da costoro su Mussolini che è un capolavoro di recitazione involontaria. È lo sguardo di un cane che sa un po’ di latino gettato su colui che gli procura il cibo.
Ad accentuare questa inoffensività di poveraglia e di piccola borghesia affamata, è l’inevitabile confronto sia con i fascisti, che con la folla e i “gerarchi” attuali. Rispetto ai fascisti attuali, che sono ormai dei veri e propri nazisti, quelli hanno un’aria casalinga che stringe il cuore (tanto più quando il loro entusiasmo fascista si manifesta in sorrisi sinceri di vecchia felicità popolana o contadina); rispetto alla folla attuale, quella folla (non necessariamente fascista) è piena di dignità; in essa contano valori di cui il fascismo approfittava degradandoli. Infine rispetto ai “gerarchi” attuali quei “gerarchi” fanno pena. Cosa possono aver rubato, in quell’Italia miserabile? Qualche miserabile gruzzoletto di palanche. Lo si vede. E il pensiero corre alle ruberie, alle grassazioni, alle violazioni, ai delitti dell’attuale classe dirigente, fatta di parassitismo e di clientele, come ormai i dirigenti democristiani stessi ammettono, senza vergognarsi, e invece di togliersi per sempre di mezzo. Il fascismo non è stato alle origini che umile manovalanza del padronato. Alla fine è stata una bieca mascherata assassina. Ma a questo punto il film finisce.
(…) Naldini ha preso delle decisioni stilistiche direi ferree nel progettare il film. Niente retorica antifascista, niente facile “ridicolo” sul fascismo, rappresentazione del fascismo attraverso materiale elaborato dai fascisti stessi, cioè attraverso la loro idea falsa e vera di sé. In tutto questo però Naldini è stato travolto da un dato incalcolabile: cioè dall’accumulazione di un materiale che aveva quasi costantemente per oggetto il rapporto pubblico tra Mussolini e le folle cosiddette oceaniche. Alla fine, e proprio filmicamente, il film è un film sul rapporto tra un Capo e il suo Popolo. (…) Rapporto inaudito, assurdo, manifestamente arrangiato, ritagliato e mistificato, ridicolo, bieco: ma in qualche modo, quello lì, proprio quello lì, come compare nella realtà fisica dei materiali del film. Materiali che si accumulano, e infine esplodono in una espressività abnorme e involontaria. È stato un terribile gioco, e il film di Naldini gioca con questo gioco. Per questo è un film bellissimo. Ma anche pericoloso, perché sono i destinatari in buona fede che accettano il gioco. Quelli in cattiva fede fanno il “loro” gioco, cioè, come si sa, non sanno giocare. Il fascismo è un tetro comportamento coatto» (Pier Paolo Pasolini – Il Messaggero, 17 ottobre 1974).

Pasolini – Fascista (L’Europeo, 26 dicembre 1974. Intervista di Massimo Fini a Pier Paolo Pasolini sul “fascismo dell’antifascismo”):
«Esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per prendersi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più. Partiamo dal recente film di Naldini: Fascista. Ebbene quel film, che si è posto il problema del rapporto fra un capo e la folla, ha dimostrato che sia quel capo, Mussolini, che quella folla sono due personaggi assolutamente archeologici. Un capo come quello oggi è assolutamente inconcepibile non solo per la nullità e per l’irrazionalità di quello che dice, per il nulla logico che sta dietro quello che dice, ma anche perché non troverebbe assolutamente spazio e credibilità nel mondo moderno. Basterebbe la televisione per vanificarlo, per ucciderlo politicamente. Le tecniche di quel capo andavano bene su di un palco, in un comizio, di fronte alle folle oceaniche, non funzionerebbero assolutamente su uno schermo a 22 pollici… Ecco perché buona parte dell’antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo, o è ingenuo e stupido o è pretestuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. È insomma un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo… Io credo, io credo profondamente che il vero fascismo sia quello che i sociologi hanno troppo bonariamente chiamato la società dei consumi. Una definizione che sembra innocua, puramente indicativa. E invece no. Se uno osserva bene la realtà, e soprattutto se uno sa leggere intorno negli oggetti, nel paesaggio, nell’urbanistica e, soprattutto, negli uomini, vede che i risultati di questa bonaria e grassoccia società dei consumi sono i risultati di una dittatura, di un fascismo bello e buono.
Nel film di Naldini noi abbiamo visto i giovani inquadrati, in divisa. Ma se noi guardiamo i giovani di oggi, anch’essi sono inquadrati, in divisa. Con una differenza però. Allora i giovani, nel momento stesso in cui si toglievano la divisa e riprendevano la strada verso i loro paesi e i loro campi, ritornavano gli italiani di cento, di cinquant’anni addietro, come prima del fascismo. Il fascismo in realtà li aveva resi dei pagliacci, li aveva repressi, e forse in parte anche convinti, ma non li aveva toccati sul serio nel fondo dell’anima, nel loro modo di essere. Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi, invece, ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell’intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali. Non si tratta più, come all’epoca mussoliniana, di una irreggimentazione superficiale, scenografica, ma di una irreggimentazione reale che ha rubato e cambiato la loro anima. Il che significa, in definitiva, che questa civiltà dei consumi è una civiltà dittatoriale. Insomma se la parola fascismo significa la prepotenza del potere, la società dei consumi ha bene realizzato il fascismo… Secondo me, la vera intolleranza è quella della società dei consumi, della permissività fatta cadere dall’alto, voluta dall’alto, che è la vera, la peggiore, la più subdola, fredda e spietata forma di intolleranza. Perché è intolleranza mascherata da tolleranza. Perché non è vera. Perché è revocabile ogni qualvolta il potere ne senta il bisogno. Perché è il vero fascismo da cui viene poi l’antifascismo di maniera: inutile, ipocrita, sostanzialmente gradito al regime.
Se vogliamo fare dell’antifascismo sul serio noi non dobbiamo pronunciare nei confronti dei fascisti dei giudizi intellettuali o moralistici ma dei giudizi storici e politici. Non sono dei peccatori: sono dei nemici. Dei nemici di cui si deve tener conto, della cui cultura si deve tener conto. In questo senso gli intellettuali italiani di sinistra hanno delle gravissime colpe. Perché hanno sempre giudicato con sufficienza, con boria, con stupida superficialità la cultura di destra. Hanno sempre preferito ignorare la cultura di destra, chiudere gli occhi, basti pensare al caso clamoroso di Nietzsche. Le tesi di destra non vanno respinte a priori. Vanno giudicate. Perché, per quanto possa sembrare strano, i fascisti hanno un pensiero, una filosofia, una cultura. Che è una grande cultura che partecipa strettamente della cultura democratica e antifascista: perché il pensiero di Gentile è l’altra faccia di Croce. Perché la filosofia di Gentile la ritroviamo in Hegel. Ci si vergogna a dover spiegare ancora queste cose. Infine l’antifascismo, anche il più vero, anche quello vissuto e pagato sul campo non significa mancanza di misericordia. E voglio concludere col distico che Paul Éluard, poeta comunista, dedicò alle ragazze rapate a zero perché erano state con i nazisti: A quel tempo per non punire i colpevoli si rapavano delle ragazze» (intervista a Pier Paolo Pasolini di Massimo Fini – Europeo, 26 dicembre 1974).

L’articolo delle lucciole. Il vuoto del potere in Italia (Corriere della Sera, 1° febbraio 1975):
«La distinzione tra fascismo aggettivo e fascismo sostantivo risale niente meno che al giornale “Il Politecnico”, cioè all’immediato dopoguerra…” Così comincia un intervento di Franco Fortini sul fascismo (“L’Europeo, 26-12-1974): intervento che, come si dice, io sottoscrivo tutto, e pienamente. Non posso però sottoscrivere il tendenzioso esordio. Infatti la distinzione tra “fascismi” fatta sul “Politecnico” non è né pertinente né attuale. Essa poteva valere ancora fino a circa una decina di anni fa: quando il regime democristiano era ancora la pura e semplice continuazione del regime fascista. Ma una decina di anni fa, è successo “qualcosa”. “Qualcosa” che non c’era e non era prevedibile non solo ai tempi del “Politecnico”, ma nemmeno un anno prima che accadesse (o addirittura, come vedremo, mentre accadeva).
Il confronto reale tra “fascismi” non può essere dunque “cronologicamente”, tra il fascismo fascista e il fascismo democristiano: ma tra il fascismo fascista e il fascismo radicalmente, totalmente, imprevedibilmente nuovo che è nato da quel “qualcosa” che è successo una decina di anni fa.
Poiché sono uno scrittore, e scrivo in polemica, o almeno discuto, con altri scrittori, mi si lasci dare una definizione di carattere poetico-letterario di quel fenomeno che è successo in Italia una decina di anni fa. Ciò servirà a semplificare e ad abbreviare il nostro discorso (e probabilmente a capirlo anche meglio).
Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta).
Quel “qualcosa” che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque “scomparsa delle lucciole”.
Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte, che non solo non si possono confrontare tra loro, implicandone una certa continuità, ma sono diventate addirittura storicamente incommensurabili. La prima fase di tale regime (come giustamente hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali) è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi. Osserviamole una alla volta.
Prima della scomparsa delle lucciole
La continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta. Taccio su ciò, che a questo proposito, si diceva anche allora, magari appunto nel “Politecnico”: la mancata epurazione, la continuità dei codici, la violenza poliziesca, il disprezzo per la Costituzione. E mi soffermo su ciò che ha poi contato in una coscienza storica retrospettiva. La democrazia che gli antifascisti democristiani opponevano alla dittatura fascista, era spudoratamente formale.
Si fondava su una maggioranza assoluta ottenuta attraverso i voti di enormi strati di ceti medi e di enormi masse contadine, gestiti dal Vaticano. Tale gestione del Vaticano era possibile solo se fondata su un regime totalmente repressivo. In tale universo i “valori” che contavano erano gli stessi che per il fascismo: la Chiesa, la Patria, la famiglia, l’obbedienza, la disciplina, l’ordine, il risparmio, la moralità. Tali “valori” (come del resto durante il fascismo) erano “anche reali”: appartenevano cioè alle culture particolari e concrete che costituivano l’Italia arcaicamente agricola e paleoindustriale. Ma nel momento in cui venivano assunti a “valori” nazionali non potevano che perdere ogni realtà, e divenire atroce, stupido, repressivo conformismo di Stato: il conformismo del potere fascista e democristiano. Provincialità, rozzezza e ignoranza sia delle “élites” che, a livello diverso, delle masse, erano uguali sia durante il fascismo sia durante la prima fase del regime democristiano. Paradigmi di questa ignoranza erano il pragmatismo e il formalismo vaticani.
Tutto ciò che risulta chiaro e inequivocabilmente oggi, perché allora si nutrivano, da parte degli intellettuali e degli oppositori, insensate speranze. Si sperava che tutto ciò non fosse completamente vero, e che la democrazia formale contasse in fondo qualcosa. Ora, prima di passare alla seconda fase, dovrò dedicare qualche riga al momento di transizione.
Durante la scomparsa delle lucciole
In questo periodo la distinzione tra fascismo e fascismo operata sul “Politecnico” poteva anche funzionare. Infatti sia il grande paese che si stava formando dentro il paese – cioè la massa operaia e contadina organizzata dal PCI – sia gli intellettuali anche più avanzati e critici, non si erano accorti che “le lucciole stavano scomparendo”. Essi erano informati abbastanza bene dalla sociologia (che in quegli anni aveva messo in crisi il metodo dell’analisi marxista): ma erano informazioni ancora non vissute, in sostanza formalistiche. Nessuno poteva sospettare la realtà storica che sarebbe stato l’immediato futuro; né identificare quello che allora si chiamava “benessere” con lo “sviluppo” che avrebbe dovuto realizzare in Italia per la prima volta pienamente il “genocidio” di cui nel “Manifesto” parlava Marx.
Dopo la scomparsa delle lucciole
I “valori” nazionalizzati e quindi falsificati del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più. E non servono neanche più in quanto falsi. Essi sopravvivono nel clerico-fascismo emarginato (anche il MSI in sostanza li ripudia). A sostituirli sono i “valori” di un nuovo tipo di civiltà, totalmente “altra” rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale. Questa esperienza è stata fatta già da altri Stati. Ma in Italia essa è del tutto particolare, perché si tratta della prima “unificazione” reale subita dal nostro paese; mentre negli altri paesi essa si sovrappone con una certa logica alla unificazione monarchica e alla ulteriore unificazione della rivoluzione borghese e industriale. Il trauma italiano del contatto tra l'”arcaicità” pluralistica e il livellamento industriale ha forse un solo precedente: la Germania prima di Hitler. Anche qui i valori delle diverse culture particolaristiche sono stati distrutti dalla violenta omologazione dell’industrializzazione: con la conseguente formazione di quelle enormi masse, non più antiche (contadine, artigiane) e non ancor moderne (borghesi), che hanno costituito il selvaggio, aberrante, imponderabile corpo delle truppe naziste.
In Italia sta succedendo qualcosa di simile: e con ancora maggiore violenza, poiché l’industrializzazione degli anni Settanta costituisce una “mutazione” decisiva anche rispetto a quella tedesca di cinquant’anni fa. Non siamo più di fronte, come tutti ormai sanno, a “tempi nuovi”, ma a una nuova epoca della storia umana, di quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche. Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono diventati in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l’avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione disperata a essi), sia al di fuori degli schemi populisti e umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque “coi miei sensi” il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiani, fino a una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza. Vanamente il potere “totalitario” iterava e reiterava le sue imposizioni comportamentistiche: la coscienza non ne era implicata. I “modelli” fascisti non erano che maschere, da mettere e levare. Quando il fascismo fascista è caduto, tutto è tornato come prima. Lo si è visto anche in Portogallo: dopo quarant’anni di fascismo, il popolo portoghese ha celebrato il primo maggio come se l’ultimo lo avesse celebrato l’anno prima.
È ridicolo dunque che Fortini retrodati la distinzione tra fascismo e fascismo al primo dopoguerra: la distinzione tra il fascismo fascista e il fascismo di questa seconda fase del potere democristiano non solo non ha confronti nella nostra storia, ma probabilmente nell’intera storia.
Io tuttavia non scrivo il presente articolo solo per polemizzare su questo punto, benché esso mi stia molto a cuore. Scrivo il presente articolo in realtà per una ragione molto diversa. Eccola.
Tutti i miei lettori si saranno certamente accorti del cambiamento dei potenti democristiani: in pochi mesi, essi sono diventati delle maschere funebri. È vero: essi continuano a sfoderare radiosi sorrisi, di una sincerità incredibile. Nelle loro pupille si raggruma della vera, beata luce di buon umore. Quando non si tratti dell’ammiccante luce dell’arguzia e della furberia. Cosa che agli elettori piace, pare, quanto la piena felicità. Inoltre, i nostri potenti continuano imperterriti i loro sproloqui incomprensibili; in cui galleggiano i “flatus vocis” delle solite promesse stereotipe. In realtà essi sono appunto delle maschere. Son certo che, a sollevare quelle maschere, non si troverebbe nemmeno un mucchio d’ossa o di cenere: ci sarebbe il nulla, il vuoto. La spiegazione è semplice: oggi in realtà in Italia c’è un drammatico vuoto di potere. Ma questo è il punto: non un vuoto di potere legislativo o esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale, né, infine, un vuoto di potere politico in un qualsiasi senso tradizionale. Ma un vuoto di potere in sé.
Come siamo giunti, a questo vuoto? O, meglio, “come ci sono giunti gli uomini di potere?”.
La spiegazione, ancora, è semplice: gli uomini di potere democristiani sono passati dalla “fase delle lucciole” alla “fase della scomparsa delle lucciole” senza accorgersene. Per quanto ciò possa sembrare prossimo alla criminalità la loro inconsapevolezza su questo punto è stata assoluta; non hanno sospettato minimamente che il potere, che essi detenevano e gestivano, non stava semplicemente subendo una “normale” evoluzione, ma sta cambiando radicalmente natura.
Essi si sono illusi che nel loro regime tutto sostanzialmente sarebbe stato uguale: che, per esempio, avrebbero potuto contare in eterno sul Vaticano: senza accorgersi che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, non sapeva più che farsene del Vaticano quale centro di vita contadina, retrograda, povera. Essi si erano illusi di poter contare in eterno su un esercito nazionalista (come appunto i loro predecessori fascisti): e non vedevano che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, già manovrava per gettare la base di eserciti nuovi in quanto transnazionali, quasi polizie tecnocratiche. E lo stesso si dica per la famiglia, costretta, senza soluzione di continuità dai tempi del fascismo, al risparmio, alla moralità: ora il potere dei consumi imponeva a essa cambiamenti radicali nel senso della modernità, fino ad accettare il divorzio, e ormai, potenzialmente, tutto il resto, senza più limiti (o almeno fino ai limiti consentiti dalla permissività del nuovo potere, peggio che totalitario in quanto violentemente totalizzante).
Gli uomini del potere democristiani hanno subito tutto questo, credendo di amministrarselo e soprattutto di manipolarselo. Non si sono accorti che esso era “altro”: incommensurabile non solo a loro ma a tutta una forma di civiltà. Come sempre (cfr. Gramsci) solo nella lingua si sono avuti dei sintomi. Nella fase di transizione – ossia “durante” la scomparsa delle lucciole – gli uomini di potere democristiani hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state, organizzate dal ’69 ad oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere.
Dico formalmente perché, ripeto, nella realtà, i potenti democristiani coprono con la loro manovra da automi e i loro sorrisi, il vuoto. Il potere reale procede senza di loro: ed essi non hanno più nelle mani che quegli inutili apparati che, di essi, rendono reale nient’altro che il luttuoso doppiopetto.
Tuttavia nella storia il “vuoto” non può sussistere: esso può essere predicato solo in astratto e per assurdo. È probabile che in effetti il “vuoto” di cui parlo stia già riempiendosi, attraverso una crisi e un riassestamento che non può non sconvolgere l’intera nazione. Ne è un indice ad esempio l’attesa “morbosa” del colpo di Stato. Quasi che si trattasse soltanto di “sostituire” il gruppo di uomini che ci ha tanto spaventosamente governati per trenta anni, portando l’Italia al disastro economico, ecologico, urbanistico, antropologico.
In realtà la falsa sostituzione di queste “teste di legno” (non meno, anzi più funereamente carnevalesche), attuata attraverso l’artificiale rinforzamento dei vecchi apparati del potere fascista, non servirebbe a niente (e sia chiaro che, in tal caso, la “truppa” sarebbe, già per sua costituzione, nazista). Il potere reale che da una decina di anni le “teste di legno” hanno servito senza accorgersi della sua realtà: ecco qualcosa che potrebbe aver già riempito il “vuoto” (vanificando anche la possibile partecipazione al governo del grande paese comunista che è nato nello sfacelo dell’Italia: perché non si tratta di “governare”). Di tale “potere reale” noi abbiamo immagini astratte e in fondo apocalittiche: non sappiamo raffigurarci quali “forme” esso assumerebbe sostituendosi direttamente ai servi che l’hanno preso per una semplice “modernizzazione” di tecniche. Ad ogni modo, quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola» (Pier Paolo Pasolini – Corriere della Sera, 1° febbraio 1975).

Amedeo Bordiga

«Il peggior prodotto del fascismo è l’antifascismo»

«Dalle prime manifestazioni del fascismo (1919 – 1920) fino alla sua morte, nel 1970, Amedeo Bordiga con grande lucidità studiò la natura del fascismo e di quel vasto movimento di sinistra, pacifista e democratico, che viene definito “antifascismo”.
Il fascismo, espone l’economista italiano durante il IV Congresso della Terza Internazionale nel 1922, è il frutto non di un movimento politico e sociale alternativo: nasce da un atteggiamento degli industriali italiani che si riscontra già nel periodo 1914 – 1915, quando la borghesia industriale decise di scendere in guerra a fianco dell’Austria e della Germania. A fianco di questo gruppo vi si troverebbero quelle frange del sindacalismo rivoluzionario, del liberalismo e del marxismo che fornirono le basi popolari al nascente movimento fascista.
Ciò che è importante evidenziare, dice Bordiga, non sono le componenti politiche che gli donano una certa estetica politica, ma il sostegno borghese. La borghesia si ritrovava di fronte ad un “problema gigantesco. Essa non poteva risolverlo né dal punto di vista tecnico, né da quello militare mediante una lotta aperta contro il proletariato; doveva risolverlo dal punto di vista politico”. Questo problema riguardava la paura per il Biennio Rosso e la possibilità di una rivoluzione. All’inizio la borghesia con Niti e Giolitti concesse dei contentini al proletariato, concedendo una serie di riforme sociali. Nel contempo preparava l’esercito per stroncare possibili rivolte e finanziava quegli ufficiali smobilitati che costituirono l’apparato militare fascista.
Tutto ciò in vista della rivoluzione, per evitarla. Quindi una forza prettamente controrivoluzionaria. Il fascismo in realtà non è una ideologia pura e schematica, ma riprende i propri principi da una serie altre mentalità e posizioni politiche che rappresentano gli interessi dei ceti medi e della borghesia. Di conseguenza esso si adatta bene al parlamentarismo, a differenza del marxismo, e si pone come rappresentante non di una borghesia, ma di tutte. Propone quindi, come emerge dal Manifesto di San Sepolcro (1919), una forma di collaborazione tra le classi. Questo riformismo è legato poi ad una estetica rivoluzionaria che copia in parte le istanze della rivoluzione bolscevica: partito unico e centralizzato, gerarchia ecc.
Il fascismo però non è una conseguenza della scelta economica della borghesia, non è in definitiva sovrastruttura. È in realtà la matrice di tutti i governi borghesi, cioè struttura, specie in questo periodo in cui il capitalismo ha raggiunto la sua forma matura, l’imperialismo. Di conseguenza la borghesia richiede un modo di governo totalitario e duro.
Per continuare a sopravvivere (siamo all’indomani del 1929) il capitale deve definirsi “fascista”. Questo però non rappresenta una sconfitta per il proletariato. Infatti il fascismo non è peggio della democrazia. In esso i rapporti di classe vengono chiariti e evidenziati per quelli che sono. In questo modo il proletariato avrà una maggiore coscienza di sé.
All’indomani della caduta del fascismo Bordiga biasima i suoi compagni opportunisti che, invece di portare avanti la rivoluzione in un momento propizio come quello fascista, hanno preferito la reazione antifascista con la difesa della democrazia. “Il risultato peggiore, per le sorti della classe proletaria, è l’entrata nel tronfio affasciamento antifascista della parte proletaria che aveva finalmente imboccata la via originale ed autonoma, sicché tutti, ognuno a modo suo, si sono rimessi a rifare lo sviluppo del primo Risorgimento. Merito, questo, controrivoluzionario, che pesa un secolo, se quello di Mussolini ha pesato un ventennio. Ma il secondo ha pesato in senso controrivoluzionario perché così l’hanno interpretato i maneggioni della politica opportunista”.
Il fascismo è stato una ideologia che si è affermata con la violenza. Ciò che Bordiga biasima è il fatto che gli antifascisti paragonino le varie forme di governo in base alla violenza. La democrazia non è migliore del fascismo perché non è repressiva. Tutte le forme di governo borghese sono violente, perché frutto del capitalismo che continuamente violenta l’umanità.
Nel 1924 al V Congresso della I.C. l’economista italiano mostra alcune delle novità del fascismo: un partito unico borghese centralizzato, l’organizzazione militare e sociale che è riuscita ad inquadrare anche il proletariato. Evidenzia anche una forma di contraddizione tra la centralità e l’ideologia ultraliberista dei fascisti, cioè tra il fascismo nella sua essenza e chi lo guida. Se le cose stanno così, dice Bordiga, non possono durare, “il fascismo è condannato al fallimento in forza dell’anarchia economica del capitalismo, malgrado il fatto che abbia preso saldamente in pugno le redini del governo”.
In quell’anno il partito fascista è in crisi non riuscendo a sfruttare al meglio la vittoria elettorale per rilanciare l’economia e ristrutturale lo Stato. Il proletariato sfrutta l’assassinio Matteotti per risvegliare la propria coscienza di classe prima della repressione. Lo sguardo di Bordiga però pecca. Infatti il governo fascista riuscirà a razionalizzare il dispotismo economico con una politica liberale e monopolistica. Nel contempo si riesce a combattere la tendenza monopolistica e il libero mercato. Lo Stato divenne il primo capitalista acquisendo le aziende in crisi e risollevandole. Nonostante tali riforme il fascismo rimane un forte alleato del capitale e della borghesia.
Al di là di questo errore di valutazione, Bordiga sarà il primo in anticipo a dimostrare come il fascismo dilagherà fuori dall’Italia e il fatto che il pacifismo e la democrazia saranno le cause di tutto ciò. Tali dichiarazioni suscitarono aspre critiche. I socialdemocratici furono i primi a contrastare la posizione bordigana. Ed è proprio per costoro che il fascismo sia in Italia sia in Germani si affermò posizionandosi su un antifascismo sterile. Nel contempo gli stalinisti uccidevano la vecchia guardia bolscevica e in Spagna fucilarono anarchici e comunisti internazionalisti, decretando la fine del movimento rivoluzionario.
L’accentramento politico ed economico era una istanza della Destra Storica fino al 1876 quando la Sinistra Storico ebbe la maggioranza. Il Fascismo riprende dalla destra tale politica ma la rielabora in chiave riformista riprendendo alcune istanze del socialismo.
“Quando il primo esempio del tipo di governo totalitario borghese si ebbe in Italia col fascismo, la fondamentale falsa impostazione strategica di dare al proletariato la consegna della lotta per la libertà e le garanzie costituzionali nel seno di una coalizione antifascista manifestò il fuorviarsi totale del movimento comunista internazionale dalla giusta strategia rivoluzionaria. Il confondere Mussolini e Hitler, riformatori del regime capitalistico nel senso più moderno, con Kornilov o con le forze della restaurazione e della Santa Alleanza del 1815, fu il più grande e rovinoso errore di valutazione e segnò l’abbandono totale del metodo rivoluzionario”.
L’antifascismo portò il proletariato a combattere in Spagna e nei paesi occupati dall’Asse a favore di una delle due fazioni in guerra. Il partigiano, mitizzato dal Pci, in realtà è un mercenario che non lotta per soldi, ma per un ideale falso. Di fatto a causa dell’antifascismo il movimento operaio degenerò» (Politikos, 22 maggio 2012).

«Mentre tutti gli schieramenti politici ritengono che il fascismo rappresenti un cambiamento qualitativo nella forma del potere, Bordiga lo nega e mette in luce la continuità fisica del governo borghese con le nuove esigenze dell’esercizio del potere stesso. Si viene così ad aggiungere un altro elemento di divergenza all’interno del partito e con l’Internazionale.
Bordiga studia la natura del fascismo in un arco di tempo molto ampio, che va dalle prime manifestazioni aperte, politiche e violente in Italia nel 1919-20 fino al 1970, data del suo ultimo intervento pubblico poche settimane prima di morire.
La sua analisi del fenomeno fascista diventa inseparabile da quella di tutti gli altri fenomeni del capitalismo maturo almeno dal 1922, all’epoca del suo rapporto al IV Congresso dell’Internazionale Comunista. Egli risponde innanzitutto a Radek sulla interpretazione che questi dà dei rapporti fra PCd’I e fascismo. Radek (ma è la posizione dell’Internazionale) dimostra di dare un’interpretazione del tutto politica, cioè contingente, del fascismo. Nel criticare l’atteggiamento del PCd’I, gli rimprovera di voler rimanere un partito piccolo, elitario, dedito più alla sua organizzazione che alle grandi questioni politiche del momento.
Bordiga risponderà in altre occasioni che le grandi questioni politiche, la tattica, la strategia del partito non sono disgiunte dal ferreo possesso della teoria rivoluzionaria, e che le oscillazioni tattiche per un partito (ma questo valeva anche per l’IC) sono deleterie quanto una sconfitta sul campo.
Il fascismo, dice dunque Bordiga nel 1922, non è un fenomeno dovuto alla nascita e all’azione di un movimento politico particolare: è già presente in Italia almeno dal 1914-15, quando una parte della borghesia decide di entrare in guerra. I gruppi sono eterogenei, ma sono guidati dagli interessi della grande borghesia industriale, che ha in Salandra il suo esponente politico e che, prima di invocare l’intervento a fianco dell’Intesa contro Austria e Germania, aveva addirittura raccomandato una guerra contro di essa. Vi sono comunque anche gruppi repubblicani irredentisti, sindacalisti rivoluzionari e anarchici, radicali liberali. Nel rapporto successivo, al V Congresso dell’IC nel luglio 1924, Bordiga ribadisce che fu l’ala estrema, quella anarco-sindacalista ed estremista socialista rinnegata “a fornire al fascismo post-bellico il suo stato maggiore generale”.
Il fenomeno fascista non si deve analizzare a partire dalle sue componenti politiche, anche se queste daranno l’impronta ai discorsi e ai documenti nell’azione quotidiana. La componente essenziale del fascismo è la borghesia industriale con il suo Stato. La smobilitazione postbellica, la riconversione industriale, il pericolo di una rivoluzione interna, pongono alla borghesia un “problema gigantesco. Essa non poteva risolverlo né dal punto di vista tecnico, né da quello militare mediante una lotta aperta contro il proletariato; doveva risolverlo dal punto di vista politico”.
La borghesia fece dapprima delle concessioni al proletariato attraverso i ministeri liberal-riformisti di Nitti e Giolitti. Nello stesso tempo istituiva un secondo esercito, la Guardia Regia, che non era una polizia e nemmeno un esercito vero e proprio. E continuava a pagare gli ufficiali smobilitati che andavano ad istruire l’apparato militare fascista.
Ma perché la borghesia stava intraprendendo questa strada?
Una prima risposta è che voleva e doveva evidentemente evitare la rivoluzione. Il fascismo dunque prende come primo aspetto quello della guardia bianca controrivoluzionaria. Questo è un aspetto immediato, importante, ma non essenziale. Il fascismo non ha un programma specifico, non ha una sua ideologia, ma risulta dall’insieme delle ideologie della borghesia e delle classi medie che rappresentano la manodopera armata. Al momento (1922) si adagia perfettamente nel gioco parlamentare. Non rappresenta una “destra” della borghesia, bensì una unione di tutte le esigenze borghesi. Non vuole ideologicamente il predominio violento di una classe sull’altra, ma copia dalla democrazia borghese la massima collaborazione fra le classi. Quando i fascisti formularono un programma organico non inventarono nulla di nuovo, esposero semplicemente un miscuglio di istanze socialdemocratiche e riformiste, condite con un linguaggio un po’ più demagogico di quello dei democratici. Il fascismo si è avvalso anche dell’esperienza rivoluzionaria russa, copiando ciò che gli serviva in fatto di organizzazione, disciplina, centralizzazione, partito unico di una classe.
L’essenza del fascismo, però, non è in questi suoi aspetti sovrastrutturali, anche se la borghesia ne ha bisogno perché rappresentano la giustificazione politica della controrivoluzione. La risposta che dà Bordiga al perché la borghesia stesse intraprendendo questa strada è che il fascismo è la struttura di ogni differente forma di governo borghese nell’epoca dell’imperialismo. L’imperialismo è la fase “suprema”, cioè l’ultima. A questa fase corrisponde un modo di governo dei fatti economici e sociali determinato dalla maturità delle condizioni economiche. Non può essere un modo qualsiasi, né può essere un modo adeguato a periodi precedenti della storia del capitalismo. La fase suprema del capitalismo pretende una fase suprema del modo di governo. Il processo è irreversibile, quindi la nuova forma di dominio borghese è irrinunciabile da parte della borghesia.
Questa non è una “invenzione” bordighiana. L’analisi approfondita, seppure non ancora esplicita, della necessità del fascismo la troviamo in Lenin e precisamente nell’Imperialismo, fase suprema del capitalismo. Per Lenin l’aggettivo “supremo” ha lo stesso significato di “putrefatto” come egli spiega più volte. Il testo finisce con questa osservazione: l’imperialismo, cioè la putrefazione del capitalismo, è la fase suprema, cioè quella della socializzazione della produzione. Si tratta di capitalismo di transizione, cioè di capitalismo morente.
È per cercare di non morire che il capitalismo deve darsi questa estrema forma di dominio sintetizzata nella parola “fascismo”, che Bordiga utilizza come un comodo riferimento dietro il quale vi è però una ricostruzione materialistico-dialettica del processo storico che porta al superamento del capitalismo. Egli non ha paura di affermare che il fascismo non è un ritorno indietro nella storia; che non rappresenta per il proletariato una sconfitta maggiore di quanto non la rappresenti la democrazia; che anzi, più sono moderni e semplificati i rapporti di classe, meglio è per la rivoluzione futura: “Per il movimento che avesse rigata la via diritta [il fascismo] sarebbe stato, come sarà [riconosciuto] un giorno, il regalo migliore della storia”. Grande scandalo, naturalmente tra gli opportunisti, ma Bordiga non si scompone: tutto è già scritto per esempio nel 18 brumaio di Marx. Quando l’esecutivo borghese si erge contro il parlamento, con ciò stesso si isola di fronte alla rivoluzione che non avrà altri ostacoli da abbattere. Ma invece di gridare con Marx “ben scavato, vecchia talpa!”, invece di prepararsi alla risposta armata contro la guardia bianca, l’opportunista ritorna vigliaccamente alla difesa della democrazia e del parlamento. Mentre la storia pone su di un piatto d’argento la semplificazione della via rivoluzionaria, l’opportunista la complica tornando a legami sociali precedenti. Il fascismo non è reazionario in sé più di qualsiasi altra aggiornata forma di governo borghese: esso lo diventa a causa della reazione antifascista che getta il proletariato nell’alleanza mortale con altri strati sociali in difesa della democrazia borghese: “Il risultato peggiore, per le sorti della classe proletaria, è l’entrata nel tronfio affasciamento antifascista della parte proletaria che aveva finalmente imboccata la via originale ed autonoma, sicché tutti, ognuno a modo suo, si sono rimessi a rifare lo sviluppo del primo Risorgimento. Merito, questo, controrivoluzionario, che pesa un secolo, se quello di Mussolini ha pesato un ventennio. Ma il secondo ha pesato in senso controrivoluzionario perché così l’hanno interpretato i maneggioni della politica opportunista”.
Il fascismo ha usato violenza e assassinio né più né meno di quanto abbiano fatto i regimi precedenti o successivi, in Italia e altrove. Ma sarebbe sciocco moralismo fermarsi a considerazioni quantitative sulla violenza manifesta o potenziale confrontando le forme di governo. Invece è materialismo dialettico dimostrare che la violenza contro l’umanità non è dovuta alla forma fenomenica del capitalismo ma al capitalismo stesso.
Al V Congresso dell’IC, Bordiga offre già una spiegazione completa del fascismo nel suo lunghissimo rapporto. Ideologicamente, si è visto, il fascismo non porta nulla di nuovo, si limita a copiare ciò che gli serve da ciò che già esiste, a destra e soprattutto a sinistra. Ciò che di veramente nuovo introduce è una nuova organizzazione dello Stato, un unico partito borghese centralizzato, una poderosa organizzazione militare e sociale che coinvolge il proletariato stesso.
Nel 1924 Bordiga vede ancora una contraddizione mortale tra la necessità organizzativa e centralizzatrice dello Stato borghese e l’ideologia ultraliberista professata dai fascisti. Si tratta di una contraddizione tra il fascismo e chi lo impersona. Se le cose stanno così, dice Bordiga, non possono durare, “il fascismo è condannato al fallimento in forza dell’anarchia economica del capitalismo, malgrado il fatto che abbia preso saldamente in pugno le redini del governo”.
Nel 1924 i fascisti sono effettivamente in crisi poiché non riescono a sfruttare la vittoria elettorale per rilanciare l’economia e ristrutturare completamente lo Stato. L’assassinio di Matteotti provoca una generalizzata ribellione operaia che sembra prefigurare la possibilità di una ripresa di classe. La previsione di Bordiga sul fascismo condannato al fallimento si riferisce all’apparato fascista e non al suo modo di governo, ed è dovuta al fatto che egli vive direttamente gli avvenimenti e non può sapere che di lì a poco il fascismo compirà il suo capolavoro: razionalizzerà l’intervento dispotico in economia, regolando da una parte l’anarchia capitalistica e dall’altra la tendenza naturale al monopolio. Viene ammortizzata la contraddizione fondamentale dell’anarchia produttiva e distributiva, ma viene anche combattuta la tendenza alla eccessiva concentrazione monopolistica, fattore di espropriazione e di limitazione del “libero mercato”. Lo Stato acquisterà le aziende sofferenti a causa della concorrenza, le chiuderà o rinnoverà a seconda delle loro condizioni, quindi le restituirà al mercato. Verrà regolato il credito, verranno progettati ampi lavori pubblici.
A dimostrazione del fatto che l’economia volgare cerca solo a posteriori di dare una spiegazione ai fenomeni economici, Keynes razionalizzerà tutto ciò in un sistema teorico formale soltanto dodici anni dopo, cioè più tardi ancora delle prime applicazioni del fascismo tedesco. Del resto un fenomeno materiale, un’esigenza vitale del capitalismo non poteva rimanere un’eccezione: “Noi siamo del parere che il fascismo tenda in certo modo a diffondersi anche fuori d’Italia… In generale noi possiamo attenderci all’estero una copia del fascismo italiano che s’incrocerà con forme di estrinsecazione della ondata democratica e pacifista”, dice Bordiga nel 1924.
Fascismo e ondata democratica e pacifista? I delegati europei, seduti a congresso, educati alla democrazia e al pacifismo devono aver pensato: questo è matto. I delegati russi non compresero e combatterono la Sinistra pagando a caro prezzo il loro errore. In Italia la socialdemocrazia tentò un patto di pacificazione con i fascisti e, ricevendone legnate in risposta, passò all’antifascismo parolaio. In Germania i socialdemocratici Scheidemann e Noske avevano già aperto la strada della repressione. Più tardi i plotoni di esecuzione staliniani eliminarono, dopo regolare e democratico processo, la vecchia guardia bolscevica. La sequenza continua con gli eserciti antifascisti in Spagna che uccisero più anarchici che franchisti, con il patto Hitler-Stalin e la crociata partigiana a fianco dell’imperialismo anglosassone.
L’accentramento politico ed economico fascista non era una novità in Italia. La destra storica che governò l’Italia dopo l’unificazione nazionale fu l’ultimo esempio di governo borghese liberista coerente. Ma fu già accentratrice e unificatrice delle spinte particolaristiche. Scomparve una volta per tutte nel 1876, quando fu vinta dalla sinistra borghese demagogica e parolaia, incapace di riformare il suo Stato. Il fascismo non fu un ritorno a situazioni pre-unitarie e pre-borghesi, fu invece fenomeno moderno capace di riforma; fu in realtà il realizzatore dialettico delle vecchie istanze del riformismo socialista.
Non aver capito questo, fu un disastro per il movimento operaio mondiale, che precipitò sotto l’influenza di un prodotto sociale peggiore del fascismo stesso: l’antifascismo piagnone e democratoide.
“Quando il primo esempio del tipo di governo totalitario borghese si ebbe in Italia col fascismo, la fondamentale falsa impostazione strategica di dare al proletariato la consegna della lotta per la libertà e le garanzie costituzionali nel seno di una coalizione antifascista manifestò il fuorviarsi totale del movimento comunista internazionale dalla giusta strategia rivoluzionaria. Il confondere Mussolini e Hitler, riformatori del regime capitalistico nel senso più moderno, con Kornilov o con le forze della restaurazione e della Santa Alleanza del 1815, fu il più grande e rovinoso errore di valutazione e segnò l’abbandono totale del metodo rivoluzionario”.
L’antifascismo portò forze proletarie a massacrarsi, prima in Spagna poi nei paesi occupati dalle forze dell’Asse, non a favore della rivoluzione, ma a favore di due schieramenti statali borghesi contrapposti che mantenevano truppe regolari e irregolari sulla nota spese dei loro governi. Il partigiano quindi non fu in realtà un combattente rivoluzionario come a volte egli stesso credette in buona fede di essere, ma una nuova specie di soldato di ventura, un mercenario che, invece di ricevere denaro per le sue prestazioni, ricevette l’illusione di combattere per un ideale.
La sequenza storica del progresso sociale, nota Bordiga, non è: fascismo-democrazia-socialismo, dove il fascismo rappresenta un momento retrogrado rispetto alla democrazia. Nell’epoca dell’imperialismo il fascismo viene dopo la democrazia e la serie progressiva è dunque democrazia-fascismo-dittatura proletaria-socialismo. All’antifascista democratico e ipocrita egli dice ironicamente: se vuoi essere progressista nell’ambito del capitalismo, abbi il coraggio di essere fascista, altrimenti invece di proletari pronti alla rivoluzione fabbricherai “zimbelli dell’imbonitura americana, quando nella corsa al fascismo effettivo sotto l’etichetta della libertà gli anglosassoni avranno battuto i russi, a cui manca, più che quello dell’energia nucleare, il controllo del dollaro, sicché saranno forse comprati prima di essere sconfitti”» (Comunismo contro fascismo e antifascismo – Diesel43).

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